Leggo con il solito piacere l’articolo sul Foglio dell’adorabile Ester Viola, che si chiede, retorica quanto basta: “Il concetto di insensibilità alla vergogna, è quello, che ci sta rovinando la vita?” Ha ragione a domandarselo, ma se posso permettermi una risposta non richiesta, direi che la questione è ancora più radicale di come la pone lei. Non è che ci siamo abituati a vivere senza vergogna, come se fossimo più disinvolti, più sfacciati, più impuniti. È che la vergogna, proprio tecnicamente, non è più possibile. Non ci sono più le condizioni perché possa esercitarsi. È diventata, diremmo con linguaggio da manuale, una funzione irriproducibile. Non è una crisi morale, è una trasformazione strutturale.
La vergogna, per esistere, ha bisogno di una scena
ristretta, concreta, fisica. Ha bisogno di un corpo che si espone e di
un altro corpo che guarda. Non esiste vergogna senza carne. Lo sanno
bene gli antropologi che hanno studiato il complesso onore/vergogna in
contesti mediterranei, dove l’onore è il valore riconosciuto pubblicamente al
tuo corpo e alla tua capacità di controllarlo. Il corpo è la soglia, la misura,
la trappola. È il tuo stesso confine morale. Se perdi il controllo, se
ti scompensi, se sudi, arrossisci, tremi, se la tua faccia dice più di quello
che vorresti dire tu, allora ti vergogni. Ma tutto questo presuppone
un’interazione incarnata, una comunicazione faccia a faccia, in
cui la parola si dà davvero, come un pegno, e si rischia di perderla. Una parola
d’onore, cioè una parola che ha un peso perché c’è un corpo che ne
risponde.
Oggi tutto questo non esiste più. O, meglio, è stato espulso dal circuito principale della comunicazione. Ci hanno lasciato solo lo shaming, che è puro risentimento narcisista, e nulla ha a che fare con la vergogna di cui parla Ester Viola.
Comunichiamo senza
corpi e senza scene. Ci mostriamo, certo, ma solo per interposta
immagine. Il corpo è ridotto a profilo, il volto a interfaccia, la voce a
emoji. Non si dà più la parola, la si emette. Non la si consegna a
qualcuno, la si lancia nel vuoto. E se non c’è nessuno che può
raccoglierla, allora non può neppure esserci nessuno a cui rispondere. Il
discorso diventa flusso senza vincolo, e la responsabilità evapora. In
questo orizzonte, la vergogna non ha più un luogo in cui agire.
Non è nemmeno questione di maleducazione o di
decadenza dei costumi. È un problema sistemico. La vergogna è un
dispositivo sociale che ha bisogno di vincoli fisici e contestuali per
operare. Ha bisogno di sapere chi ci sta guardando e da dove. Ha bisogno di
riconoscere un vicinato morale. Se tutto è potenzialmente pubblico e
ogni destinatario è indeterminato, allora il contesto si dissolve e la vergogna
si disattiva. È una funzione che va in crash perché non trova
l’ambiente operativo necessario.
Ester, che è finissima, lo intuisce. Parla di
“cretinaggine performativa”, di un mondo dove anche l’atto giudiziario si
vergogna di essere austero e si infiocchetta di emoticon per risultare
ingaggiante. Ma forse è proprio questo il nodo. Non è solo che tutto è
diventato frivolo. È che la serietà non ha più appigli. Non ci si può
vergognare in un sistema dove tutto è sempre già parodia. L’ironia ha
perso la misura e si è mangiata anche il pudore. Oggi non ci si denuda più per
provocazione, ma per automatismo. Perché non c’è più nessuno a cui ci si
possa veramente esporre. Perché l’esposizione richiede presenza,
richiede alterità incarnata, richiede un corpo davanti al nostro che ci
faccia da specchio morale.
E allora, cara Ester, non punterei alla polizia del
pudore, come sembri chiedere tra le righe, con quella tua sagacia da studio
legale e caffè ristretto. Una polizia woke, severa e decorosa, non
restituirà le condizioni di esercizio della vergogna. La vergogna, per
funzionare, ha bisogno di prossimità. Ha bisogno che si torni a parlare
con qualcuno, non con tutti. Che si torni a dare la parola a qualcuno, con la
consapevolezza che può non bastare. Che si torni a parlare con la bocca,
non con le dita. Che si torni, in breve, a essere un corpo vivo. Perché
se non c’è più nessuno che ti può far vergognare, vuol dire che sei già morto.
Solo che nessuno te l’ha detto.