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sabato 5 luglio 2025

Hai perso la faccia? Tranquillo, non la cercava nessuno

Leggo con il solito piacere l’articolo sul Foglio dell’adorabile Ester Viola, che si chiede, retorica quanto basta: “Il concetto di insensibilità alla vergogna, è quello, che ci sta rovinando la vita?” Ha ragione a domandarselo, ma se posso permettermi una risposta non richiesta, direi che la questione è ancora più radicale di come la pone lei. Non è che ci siamo abituati a vivere senza vergogna, come se fossimo più disinvolti, più sfacciati, più impuniti. È che la vergogna, proprio tecnicamente, non è più possibile. Non ci sono più le condizioni perché possa esercitarsi. È diventata, diremmo con linguaggio da manuale, una funzione irriproducibile. Non è una crisi morale, è una trasformazione strutturale.

La vergogna, per esistere, ha bisogno di una scena ristretta, concreta, fisica. Ha bisogno di un corpo che si espone e di un altro corpo che guarda. Non esiste vergogna senza carne. Lo sanno bene gli antropologi che hanno studiato il complesso onore/vergogna in contesti mediterranei, dove l’onore è il valore riconosciuto pubblicamente al tuo corpo e alla tua capacità di controllarlo. Il corpo è la soglia, la misura, la trappola. È il tuo stesso confine morale. Se perdi il controllo, se ti scompensi, se sudi, arrossisci, tremi, se la tua faccia dice più di quello che vorresti dire tu, allora ti vergogni. Ma tutto questo presuppone un’interazione incarnata, una comunicazione faccia a faccia, in cui la parola si dà davvero, come un pegno, e si rischia di perderla. Una parola d’onore, cioè una parola che ha un peso perché c’è un corpo che ne risponde.

Oggi tutto questo non esiste più. O, meglio, è stato espulso dal circuito principale della comunicazione. Ci hanno lasciato solo lo shaming, che è puro risentimento narcisista, e nulla ha a che fare con la vergogna di cui parla Ester Viola.

Comunichiamo senza corpi e senza scene. Ci mostriamo, certo, ma solo per interposta immagine. Il corpo è ridotto a profilo, il volto a interfaccia, la voce a emoji. Non si dà più la parola, la si emette. Non la si consegna a qualcuno, la si lancia nel vuoto. E se non c’è nessuno che può raccoglierla, allora non può neppure esserci nessuno a cui rispondere. Il discorso diventa flusso senza vincolo, e la responsabilità evapora. In questo orizzonte, la vergogna non ha più un luogo in cui agire.

Non è nemmeno questione di maleducazione o di decadenza dei costumi. È un problema sistemico. La vergogna è un dispositivo sociale che ha bisogno di vincoli fisici e contestuali per operare. Ha bisogno di sapere chi ci sta guardando e da dove. Ha bisogno di riconoscere un vicinato morale. Se tutto è potenzialmente pubblico e ogni destinatario è indeterminato, allora il contesto si dissolve e la vergogna si disattiva. È una funzione che va in crash perché non trova l’ambiente operativo necessario.

Ester, che è finissima, lo intuisce. Parla di “cretinaggine performativa”, di un mondo dove anche l’atto giudiziario si vergogna di essere austero e si infiocchetta di emoticon per risultare ingaggiante. Ma forse è proprio questo il nodo. Non è solo che tutto è diventato frivolo. È che la serietà non ha più appigli. Non ci si può vergognare in un sistema dove tutto è sempre già parodia. L’ironia ha perso la misura e si è mangiata anche il pudore. Oggi non ci si denuda più per provocazione, ma per automatismo. Perché non c’è più nessuno a cui ci si possa veramente esporre. Perché l’esposizione richiede presenza, richiede alterità incarnata, richiede un corpo davanti al nostro che ci faccia da specchio morale.

E allora, cara Ester, non punterei alla polizia del pudore, come sembri chiedere tra le righe, con quella tua sagacia da studio legale e caffè ristretto. Una polizia woke, severa e decorosa, non restituirà le condizioni di esercizio della vergogna. La vergogna, per funzionare, ha bisogno di prossimità. Ha bisogno che si torni a parlare con qualcuno, non con tutti. Che si torni a dare la parola a qualcuno, con la consapevolezza che può non bastare. Che si torni a parlare con la bocca, non con le dita. Che si torni, in breve, a essere un corpo vivo. Perché se non c’è più nessuno che ti può far vergognare, vuol dire che sei già morto. Solo che nessuno te l’ha detto.