Ricordo la prima volta che li vidi, gli adesivi con il leone di san Marco e la scritta “Mi a so veneto”. Erano appiccicati sui vetri dell’imbarcadero dell’Accademia, a Venezia. Ero in prima media, quindi poteva essere il 1974, e non capivo il senso di quella “a”, che forse mi suscitava qualche reminiscenza padovana e generalmente “campagnola” ma che non sentivo per nulla veneta. Poi comparvero gli annunci dei “corsi de lengoa veneta”, e già allora sentii quanto di costruito e artificioso c’era in quell’operazione. Solo molti anni dopo avrei letto di nation building, di processi di omogeneizzazione culturale e di “invenzione della tradizione”, ma il fatto che si parlasse di “lengoa veneta” mi suonava (senza aver ancora letto Meneghello), al più, ridicolo. Non perché avessi qualche pregiudizio a considerare lingua ciò che era un dialetto, ma perché sapevo, per storia familiare e semplice orecchio, che veneziano e padovano, vicentino e trevisano, bellunese e veronese (per non parlare del rovigotto, di come si parlava a Ceggia (Théia in vernacolo) e Campagna Lupia, o Salzano...) erano troppo diversi, veramente troppo, per poter essere frullati in una qualunque koinè linguistica.
Ora tutti a lamentarsi che il Veneto se ne va in pezzi. Ferdinando Camon sulla Stampa della settimana scorsa (riportato sul Foglio rosa di lunedì 23), ripreso oggi (per fortuna criticamente) da Ernesto Galli della Loggia sul Corriere, si strugge per il fatto che un Veneto senza più Treviso (o Borbiago, o Badoere, o Zero Branco, non so più) non sarebbe più “veramente” Veneto. Argomento che mi lascia perlomeno perplesso, tanto più se applicato a Cortina, che di veneto nulla mai ha avuto, se non i dominatori e i villeggianti, un po’ come dire che Cuba era statunitense perché ci andavano in vacanza i ricconi di Miami.
Il punto è che hanno liberato il mostro del localismo proprio in Veneto (su Wikipedia in “lengoa veneta” ne parlo un’altra volta), all’inizio degli anni Settanta (molto prima di Bossi e della Padania) e adesso ne pagano le conseguenze. Il Veneto non esisteva prima che si iniziasse a brandirlo come un martello, allora contro i teroni, e poi i neri e gli slavi. C’era Venezia, una volta, potenza imperiale che teneva le sue terre col ferro e col fuoco, e che riscuoteva le tasse e pretendeva intere foreste come tributo. Ora che ce l’hanno imposto a forza di “popolo veneto” e “cultura veneta” io trovo solo piacevole e giusto che sto cazzo di Veneto vada a farsi fottere. E con lui tutta la retorica dell’autonomia regionale, dei Governatori e della deregulescion.
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
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mercoledì 25 aprile 2007
Mi a so veneto
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