2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

lunedì 22 dicembre 2008

Pensieri mentre Facebook mi fa cagare

I fan di Tiziano Scarpa avranno colto il riferimento a un suo storico racconto (mi pare su Amore marchio registrato, ma su qualche rivista era uscita una prima versione dal titolo addomesticato: "Pensieri per Mariagrazia") e il legame con un racconto che intreccia speculazioni anche filosofiche a una pratica sessuale così entusiasmante come la fellatio non è del tutto casuale.
Sto cercando di ragionare sulle motivazioni per cui le reazioni a 
Facebook sembrano fortemente emotive non solo da parte della stampa sensanzionalistica ma anche da parte degli utenti. Se infatti per cosiddetti fenomeni come Second Life  i media tradizionali avevano riempito pagine vergognose di nuovi luoghi comuni (Luca Sofri è da sempre uno storico cacciatore di bufale spacciate sulla stampa italiota sui vari pedofili e mostri che abitano la Rete), la reazione degli utenti al cosiddetto web 2.0 o social networking è stata molto più pragmatica e smaliziata: si va, ci si fa un giro, si vede a cosa serve, se serve, e si decide se usare il servizio.

A me è capitato così con 
MySpaceTwitter (il blog non lo conto, per me non è social networking, è lavoro in solitaria, come sarà chiaro tra poco). Sul primo ho aperto un account (mi dice la mail di conferma) il 5 marzo 2007 ma dato che non faccio musica e le mie foto le metto su Picasa, non ci ho fatto granché. Oggi ci vado a cercarmi i pezzi di qualche gruppo o cantante poco noto, che mi hanno segnalato o che ho incrociato per altre vie.

Twitter invece mi ha visto entrare il 27 luglio del 2007, e ai primi di settembre avevo finito l'esperimento, trovandolo una pratica di
esibizionismo masturbatorio che non mi interessava, e sul quale ho già avuto modo di dire la mia.

Con Facebook (account aperto 27/07/07 ore 17.58), pare che le cose vadano in maniera diversa. Forse dipende dalle
dimensioni che ha assunto il fenomeno stesso (MySpace e Twitter sono comunque rimasti fenomeni limitati a fasce "alte" di utenza, mentre su Facebook, da quest'estate, pare proprio ci siano "tutti", e già questo è un aspetto interessante della questione) ma fatto sta che le entrate e le uscite dal Fb non sono eventi pacifici o anche solo incruenti, e si configurano spesso come prospettive simboliche, prefigurazioni di scelte di vita o di campo.

Se qualcuno ancora non lo sa, su Fb si possono mandare brevi messaggi agli "amici" sul proprio
stato (come Twitter), si  possono inviare mail, come un client di posta, si possono caricare video (come YouTube), taggare le foto (come Flckr), e anche importare nelle note il proprio blog: in pratica, la sua natura open lo sta rendendo di fatto un ambiente operativo più che un software online, una macchina per aggregare gadget e strumenti software, da "manda un regalo a un amico" a "iscriviti alla causa". 

Bene, detto così sembrerebbe il massimo della pacchia, un servizio a ventaglio al quale gli utenti possono accedere con
diversi livelli di complessità o di partecipazione: c'è quello a cui basta aggiornare lo status una volta ogni tre giorni, e quello che invece posta video, foto taggate, commenti, note, regali, cause, inviti ad eventi e mille altre cose ancora.

Un servizio apparentemente democratico nel senso che il termine sta aquisendo in Rete, vale a dire partecipativo ma anche poco intruppato.

Eppure, se guardo nella sezione della posta del mio account di Fb, le ultime due mail che ho ricevuto sono di questo  tenore (per ovvie ragioni cancello i riferimenti reali alle persone che hanno scritto i messaggi):

1. subject: un saluto
Ciao a tutti gli amici, i conoscenti e gli sconosciuti che in questi tre mesi su facebook sono comparsi nella mia lista.Per molte ragioni ho deciso di disiscrivermi da facebook, e me lo faccio come regalo di Natale, a conclusione del bilancio annuale e di promesse per il nuovo anno. Ritengo però che, per quanto questo non luogo mi abbia "sconvolto", dietro ogni scheda ci sia una persona e, in rispetto a questo, mi fa piacere andarmene salutando. [...]
2. subject: Importante: me ne vado
Ciao. Per tutta una serie di motivi (i principali li puoi andare a leggere, se ti interessa, nei link che ho postato sul mio profilo, nell’”evento” di pari oggetto, per i motivi che trovi in calce al mio messaggio) ho deciso di disiscrivermi da Facebook: il mio bilancio nei confronti di questo (anti)social network è decisamente negativo.
Perciò se ti cancello dagli “amici” non è per un rifiuto della tua “amicizia”, ma per un rifiuto di Facebook. [...]

I due "amici" di Fb ci hanno poi tenuto a lasciarmi il loro "vero" indirizzo di email (li ho infatti entrambi conosciuti su Fb e non avevo altri loro recapiti se non i loro accunt su Fb) se volessi tenermi in contatto con loro.

Qualche giorno prima, si era accesa (non ricordo più in qualche applicazione di Fb) una lunghissima discussione se si dovesse o meno
uscire da Fb, discussione che ha coinvolto animatamente decine di utenti. 

Il 9 novembre scorso, sull'inserto domenicale del
Sole 24 Ore è uscito un pezzo di Andrea Bajani titolato "Prigioniero di Facebook" che inizia con queste parole:

Da settimane incontro soltanto persone che mi dicono disperate che vogliono uscire da Facebook ma non riescono a farlo. Lo dicono con gli occhi sbarrati e l'espressione di chi chiede aiuto da dietro le inferriate di una galera.


Certo, un'iperbole, ma dice molto sullo stato emotivo degli utenti di Fb.
Fb poi tende a dare vita a
leggende urbane, come quella che una volta iscritti non ci si può più cancellare (falso) o che i propri dati rimangano per molto tempo dopo che ci si è cancellati (altrettanto falso). 

Sono circolati in rete testi bellissimi per intensità e profondità di analisi, come quelli di 
Mariasole Ariot su Nazione Indiana, di Sergio Baratto su Ilprimoamore, e di Andrea Tarabbia, sempre su Ilprimoamore. Si tratta però sempre di testi carichi emotivamente, che sembrano "avercela" con Facebook. Mariasole Ariot dice:
Facebook in effetti, non dice niente.
Più che buco della serratura da cui spiare l’altro, un dito nel buco del mondo che del mondo vuole vedere solo il culo.


Per quanto
icastica, questa non è una descrizione accurata di quel che succede in Fb. 

Lo
sciopero in Egitto del 6 aprile 2008, che ha scosso almeno in superficie il granitico controllo politico di Mubarak, è stato organizzato anche e soprattutto attraverso Facebook, e sono gli stessi protagonisti ad ammetterlo. 

Esraa Abdul Fattah
, una delle fondatrici del gruppo "6 aprile, il giorno della sciopero" è stata arrestata e trattenuta in carcere per diciotto giorni proprio con l'accusa di aver sobillato la folla, dato che il gruppo al momento dello sciopero aveva più di 70.000 iscritti. La storia del ruolo di Facebook in Egitto (e del timore che il regime ha manifestato per questo sito) è stata raccontata con dovizia di dettagli. Qui c'è un video che racconta in dettaglio l'uso politico di Facebook in Egitto. E' forse il caso più famoso, ma certo non è l'unico e ricordo che in Birmania nell'agosto 2007 la "rivoluzione zafferano" si è appoggiata su un gruppo di Facebook che ha aggregato 440.000 utenti, L'uso politico di Facebook è diventato comune, e se da noi si fanno campagne casarecce sulla Gelmini consenza palle, appena si esce un poco dal guscio domestico (internet dovrebbe essere lì anche per quello, no?) si vede le l'attivismo è cosa seria, e Facebook sta diventando un suo strumento, soprattutto in paesi dove il controllo dei media da parte del potere istituzionale è forte.
Quindi non si può dire che Fb non dice niente, semplicemente perché non è vero, e quel che dice Fb dipende da cosa gli facciamo dire noi, come per qualunque altra applicazione.
Facebook ha la capacità di
aggregare rapidamente un numero altissimo di persone, e questa, secondo me, è la ragione principale del risentimento che solleva. Facebook è cafone.

Sergio Baratto
, nel suo post su Ilprimoamore, ha detto tutto nel primo paragrafo:

All'improvviso ho capito perché c'è molto meno movimento intorno ai blog: si stanno buttando tutti su Facebook. Sono quasi tutti emigrati lì, verso forme meno raffinate e impegnative di cazzeggio. Vorrai mica paragonare lo sforzo di inventarsi un post di X righe a quello di scrivere una frasetta di quattro o cinque parole alla terza persona singolare?


Baratto pone
un'opposizione tra blogger e utente di Facebook: mentre il primo deve articolare la sua posizione in un "post di X righe" (vedete: non può neppure specificare quante, dato che, tanto per citare uno dei blog Italiani più seguiti, Wittgenstein di Luca Sofri spesso carica dei post di una riga), l'utente di Fb scrive "una frasetta di quattro o cinque parole", dimenticando così che su Fb si possono postare "note" della lunghezza che si vuole (e anche importare interi blog, come già detto).

La tesi di Baratto è assunta in pieno da
Andrea Tarabbia:

Facebook è il network che vince perché è il vuoto fatto grafica. Non tutti possono avere un blog, perché non tutti hanno una sintassi di cui non si vergognano e, soprattutto, non tutti hanno qualcosa da dire con una vaga regolarità. Non tutti posso avere una libreria on line perché esiste anche il diritto di non leggere. Non tutti hanno MySpace perché non tutti hanno voglia di passare le giornate a caricare foto e video. È però evidente che tutti – chi più chi meno – hanno niente da dire con cadenza più o meno regolare o negli intervalli delle cose che si dicono, per cui Facebook è in grado di soddisfare le esigenze di chiunque. 


Ho l'impressione che questo
insistere sulla dimensione simil-Twitter di Facebook, che non è necessariamente la sua principale, serva all'argomentazione distintiva: noi che abbiamo qualcosa da dire (e sappiamo anche come dirla) ci troviamo in imbarazzo in un ambiente a cui possono accedere anche quanti non solo non hanno nulla da dire, ma per di più non maneggiano neppure con scioltezza le strutture per dirlo.

Andarsene da Facebook, allora, diventa un modo per dichiarare la propria
distanza dalla folla, che invece non ha nulla da dire e prova a dirlo comunque, per di più male.

La folla cafona è arrivata su Internet: questo il grido di dolore che fa da bordone ai lamenti su Facebook (per evitare malintesi: sto parlando anche e prima di tutto dei MIEI lamenti, del mio terrore di essere confuso con la folla).

Noi, che abbiamo sudato sui sistemi operativi del
DOS, che ci siamo iscritti alle BBS prima che arrivasse Internet, che abbiamo provato a trafficare con le copie piratate di Dreamweaver perché volevamo farci il sito nostro  (o perché, come me, lavoravamo per case editrici che volevano ci occupassimo di aggiornare i contenuti del sito). Oppure noi che quando è arrivato splinder ci si è aperto un mondo e abbiamo capito che finalmente non avevamo bisogno di elemosinare una colonna nel giornale di provincia, che non dovevamo più fare la fila dall'editore, e che potevamo coltivare il sano, estetico, profondo bisogno di comunicare i nostri profondi pensieri al mondo intero con IL NOSTRO BLOG. E questo blog era la migliore garanzia della nostra assoluta unicità, del nostro essere, in fondo, dei figaccioni incredibili, e potevamo anche fare finta di non esserlo e potevamo giocare a fare i modesti, gli impegnati (tanto c'era il blog a garantire la nostra assoluta figaggionitudine). Eccoci qua, noi, distinti, separati, finalmente e chiaramente riconosciuti anche grazie al generoso incrocio tra competenza tecnologica e volontà di esprimerci, nell'arco di sei mesi ci troviamo sommersi, annichiliti in una folla di buzzurri, geometri del Cepu, sciampiste di Scaltenigo, panettieri lucani, svogliati studenti di Scienze della comunicazione, che porca puttana scrivono sul loro loculo su Facebook che sono diventati fan di Gigi D'Alessio (o membri del gruppo "Aboliamo Gigi D'Alessio") e hanno un numero di lettori che è dieci o venti volte superiore al numero di contatti medio del nostro blog!

In questa folla pacchiana che ci stiamo a fare? Ci siamo entrati come si entrava in un circolo comunque ristretto, e ci siamo ritrovati con la massa, ma
massa vera. Non si può fare, così non va.

Io credo che dovremmo fare lo sforzo di spostare la prospettiva di analisi, e mettere un poco da parte il nostro orgoglio ferito.
Facebook, così com'è, sta alla comunicazione come il punk stava alla musica negli anni Settanta. Il punk non aveva bisogno di essere carino nei contenuti e, soprattutto, non aveva bisogno di alcuna vera competenza musicale. Bastavano quattro accordi e potevi urlare quel che avevi da dire (o anche urlare che non avevi nulla da dire). Non ti servivano sussiegosi percorsi di apprendistato, nessuno a cui rendere conto, al massimo qualche altro strippato come te che ti seguiva a ruota quando partivi con l'assolo. Pensateci, è esattamente quel che sta succedendo con Facebook. E noi, noi che abbiamo studiato nei conservatori della cultura, noi che abbiamo le lauree e facciamo i giornalisti free lance o gli scrittori (o addirittura facciamo laboratori di scrittura creativa) stiamo sformando perché ci stanno sottraendo anche quel microscopico spazio di comunicazione che sentivamo finalmente di avere il diritto di tenere sotto il nostro controllo.

Le masse di liceali fankazzisti, impiegati fannulloni, commesse a progetto che diventano fan di Braccobaldo o di
Max Gazzè possono farci anche orrore, ma non è che smettono di esistere se noi usciamo da Facebook: continuano ad esserci, a vivere la loro vita ogni giorno (e probabilmente a votare in modo che a noi dà fastidio). Solo che dentro Facebook si rendono visibili anche al nostro sguardo, e vanno a occupare uno spazio di visibilità per il quale pretendiamo di avere la precedenza, e cioè la visibilità degli happy few che accedono alla Rete.

Pensateci un momento: siamo ormai dentro una società in cui l'esistenza stessa dei soggetti è garantita non dal
fare, e neppure più dal sentire, ma dalla possibilità di essere riconosciuti dagli altri. Da questo punto di vista, la partecipazione all'Isola dei Famosi (o a qualunque altro reality televisivo) è l'unico evento REALE (e infatti come tale è vissuto da chi vi partecipa) perché è l'unica forma di evento che esiste come atto costitutivo di messa in vista (è insomma un "evento mediatico" in senso tecnico). Ma se l'Isola dei Famosi è la versione plebea della messa in vista, noi happy few avevamo finora goduto del sex appeal selettivo della Rete: i nostri blog, i nostri MySpace, erano la versione certo più elitaria di una comparsata al Grande Fratello, ma con lo stesso obiettivo: esistere in quanto riconosciuti dagli altri.

Ora, con Facebook, vediamo le folle dei fan di
Simona Ventura e Maria De Filippi entrare a occupare spazi che pensavamo nostri, e la cosa semplicemente ci "fa vomitare".

Ecco, ci fa vomitare che Internet sia diventata profondamente, paradossalmente, vergognosamente democratica. Che sia diventata di tutti, anche di quelli che, secondo noi (che siamo colti e raffinati) non se la meritano.

lunedì 15 dicembre 2008

Facebook fa schifo (ma lo uso sempre di più)

Fa schifo perché non sai mai dove stanno le cose importanti, ti trovi la bacheca piena di cazzate di gente che conosci appena, o che non conosci affatto, commenti di perfetti sconosciuti di "status" di amici, e poi non sai dove andare a cercare il commento che un amico "vero" ti ha detto via mail o via telefono di aver postato per una tua iniziativa importante. C'è sempre qualcuno che ti offre una "birra virtuale", che ti manda un "regalo da Milano" o che "has just answered some questions about you" e se gli stai dietro ti accorgi che invece è un cavolo di spam o peggio un virus.
Tende a farti credere che parli in privato con il "botta e risposta" e invece ti stai sputtanando in pubblico.
E' esattamente come una piazza di paese, perdi un sacco di tempo per nulla, e ci dovresti andare solo se hai veramente tempo da perdere.
Per chi lavora cercando di rimanere organizzato è un vero disastro: ho lanciato la "causa" per un antropologo alla direzione dell'ICDE e non sono sicuro di aver risposto a tutti quelli che hanno provato a comunicarmi qualcosa: ci sono messaggi sulla mia bacheca, altri sulla pagina della causa (ma alcuni sono nascosti e li ho trovati dopo due giorni), sulla pagina della nota che parla della causa. E le "notifiche" in basso a destra, invece di informarmi su quel che mi interessa, continuano a dirmi che "Shakira has answered this question: Is Piero sexy?" See what she thinks!". In certi momenti non ci si capisce nulla, veramente.
Eppure, se vuoi aggregare persone probabilmente non esiste oggi uno strumento più potente al mondo: sei letteralmente in piazza con milioni di altri, e puoi trovare il modo di farti sentire. In tre giorni oltre 500 persone si sono unite alla causa, un numero spropositato per una cosa così piccola.
Certo, si può dire, unirsi alla causa su Facebook non costa molto (basta un click, in sostanza) ma adesso che vogliamo passare a una petizione online (per poi organizzare un incontro in carne e ossa e cartelloni di protesta) abbiamo una base di partenza strutturata.
Ci vuole pazienza, con questo strumento caotico, ma se non ci si fa risucchiare da "diventa anche tu fan della carta da imballaggio con le palline che scoppiano" è uno strumento di aggregazione formidabile.

venerdì 12 dicembre 2008

Se volete sapere com'è che una storica dell'arte controlla i beni antropologici

Pietro Clemente, che da anni insegna a Firenze dopo essere stato a Cagliari, Siena e Roma, ed è uno dei massimi esperti italiani di antropologia museale, ha scritto a nome del Direttivo della Società Italiana per i musei e i beni demoetnoantropologici SIMBDEA un bel pezzo per raccontarmi la storia dell'ex Museo di Arti e Tradizioni Popolari, diventato Istituto Centrale dei beni Demoetnoantropologi, ma che rimane misteriosamente diretto per regolamento da una storica dell'arte.

Questi comunisti...


A SOSTEGNO DELLA CULTURA POPOLARE

Sabato 13 dicembre si terrà la

II Giornata Nazionale della Rete Italiana di Cultura Popolare

con eventi in contemporanea in tutta Italia

Io sostengo la Cultura Popolare” sarà il filo conduttore dell’imponente manifestazione, promossa ed organizzata dal Comitato Festival delle Province – Rete Italiana di Cultura Popolare, che coinvolgerà in contemporanea la maggior parte delle Regioni, Province, Comuni d’Italia, lanciando un forte messaggio per la tutela e la valorizzazione di una componente fondamentale del nostro patrimonio culturale: la Cultura Popolare e i beni immateriali.

La Rete di Cultura Popolare, creata dal Comitato Festival delle Province e riconosciuta ufficialmente dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, il 13 dicembre darà vita ad una giornata-evento a cui parteciperanno centinaia di artisti, comunità, feste e riti, ma anche associazioni, musei, biblioteche e scuole.

Il programma dettagliato della giornata, disponibile sul sito del Comitato Festival delle Province, verrà costantemente aggiornato fino a venerdì 12 dicembre, visitalo su: www.festivaldelleprovince.it.

La II Giornata Nazionale della Rete Italiana di Cultura Popolare è organizzata in collaborazione con UPI (Unione Province Italiane), ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) e SIMBDEA (Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici).

Il 13 dicembre, attraverso un’unione ideale tra le città italiane che raccolga e sistematizzi la cultura orale e immateriale, i riti e l’identità territoriale, il Comitato ed il pubblico in piazza, al grido di “Io sostengo la Cultura Popolare”, ne rivendicheranno il ruolo di “bene di interesse nazionale” e richiameranno l’attenzione sulla necessità di un sostegno specifico attraverso progetti, iniziative e proposte concrete per diffonderla, tutelarla e valorizzarla.

giovedì 11 dicembre 2008

Piccolo epistolario sulla nazione

Care amiche, cari amici,

con alcuni amici scrittori, artisti e operatori culturali si è deciso di marciare assieme domani. Fra questi, vi saranno gli aderenti a quello che abbiamo chiamato "Sciopero dell'autore", ma anche altri che si sono detti contrari a questa forma di protesta. L'appuntamento è per le 9.30 davanti al ristorante Asahi in via Santa Croce in Gerusalemme, 1. Mi farebbe piacere vedervi. Fate girare?

Vostro,
Vincenzo


Caro Vincenzo,
per diverse ragioni, non intendo partecipare allo sciopero di domani. Sono settimane che ci penso se e come dare forma scritta a questo mio pensiero, che ha iniziato a manifestarsi proprio con la tua proposta di Sciopero dell'autore che ho seguito su fb. In realtà ci penso da quest'estate, quando volevo postare sul blog una cosa sul "figliolismo", che nelle mie intenzioni è la ragione del paternalismo e di molte cose che succedono in Italia.
Senza che ti riassumo una fila di pensieri che non sono sicuro andassero in una direzione precisa, il tuo sciopero mi ha fatto pensare a una sorta di sciopero dell'identità nazionale, più che a una forma di dissenso politico. Contestare l'esistenza di giunte/governi di centrodestra è, per come la vedo io, da "professionista" dello studio delle identità nazionali, il tentativo di sostenere un'identità collettiva alternativa. Scioperare non contro questo fatto o contro quest'altro, ma contro l'esistenza di amministrazioni berlusconiane in Italia mi sembra un rituale apotropaico. Ma il problema, io credo, non è certo Berlusconi, né il suo conflitto di interessi, né la sua protervia, né i suoi evidenti limiti intellettuali, né il suo preconcetto e patetico "anticomunismo", né le sue bandane, le corna e i bu!, né i trapianti, né le lampade, né il perenne cattivo gusto.
Di uomini così, cafoni con il gusto della battutaccia, arricchiti con la smania di mettersi al passo con i ricchi storici, che temono e disprezzano assieme, è pieno il mondo da tremila anni. Quindi il problema non è Berlusconi. Tantomeno "le giunte" locali dove il berlusconismo si ingrassa.
Il problema sono i dieci e passa milioni di italiani che lo amano, lo votano, lo considerano un modello, un punto di riferimento. Sono queste persone quelle contro cui volete fare sciopero? Scusate, a che pro? Volete convincervi che l'Italia è un'altra cosa, che gli italiani sono diversi? Be', lo sapete che non è vero, che quei dieci milioni di elettori sono italiani quanto me e quanto te, non hanno passaporti stranieri, sono italiani a tutti gli effetti, purtroppo. Sono mio padre, e il mio vicino di casa. Sono l'autista dell'autobus che ho preso ieri e il professore che ha lo studio a fianco del mio all'università. Sono la studentessa che ha preso trenta e quella che preso 18. Sono in giro, non sono isolabili come un virus, non hanno segni di riconoscimento. Se prendi cento italiani a caso e li metti in una stanza, più della metà sono dalla parte di Berlusconi, e non c'è verso di distinguerli dagli "altri", che non sono più normali dei primi.
Il dramma della nostra identità è questo, che siamo profondamente divisi, proprio radicalmente, sulle cose di fondo, e non riusciamo a trovare un accordo. Ma fare uno sciopero, credo, potrebbe forse, per l'ennesima volta, farci sentire "migliori", ma non credo proprio che farebbe migliore questo paese.
Con immutato affetto e stima, un abbraccio,
pv
PS Dato che il tema mi pare travalichi il mio e il tuo interesse personale, non avertene a male se posto questa lettera sul mio blog.

mercoledì 10 dicembre 2008

Uniti nella lotta

Nella foga del post sull'Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia, mi sono dimenticato di segnalare che uno degli attori più dinamici che sta combattendo affinché sia un antropologo a guidare l'ICDE è SIMBDEA,la Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici. Sull'homepage del sito trovate un'altra versione di questa storia allucinante, che getta nel ridicolo l'idea stessa di "demoetnoantropologia" italiana.

auspici

Questo si vedeva un'ora fa dal balcone della camera da letto. Valeria voleva cercare la pentola con le monete d'oro...

Una storia semplice

Immaginate che un’importante squadra di calcio, per qualche misteriosa ragione, sia stata affidata a un allenatore che non ha esperienza di calcio, ma che invece ne sa di pallacanestro. Strano, no? Ma siamo in Italia e non dovremmo stupirci di persone che stanno in posti di comando senza che sia chiaro come ci sono arrivate.

Immaginate però, ora, che quella squadra sia stata promossa dal Ministero dello sport a rappresentativa nazionale ufficiale, e che nel regolamento che la riguarda sia indicato esplicitamente che d’ora in poi quella squadra deve essere allenata da un esperto di pallacanestro anche se, ripeto, è una squadra di calcio. Non vi sembrerebbe una scelta assurda? Dato l’andazzo, passi un caso singolo, una squadra locale affidata a un allenatore che non ha competenze specifiche (ripeto, siamo in Italia…) ma perché mai il regolamento della squadra nazionale di calcio dovrebbe porre tra le sue norme l’obbligo autolesionista di scegliere sempre e solo un allenatore di basket?

Sembra una storia idiota, e certo lo è. Peccato che, mutatis mutandis, sia vera. Esisteva infatti a Roma un Museo
delle arti e tradizioni popolari (MATP)
, istituito nel 1911 dopo la prima Mostra di Etnografia Italiana sotto la coordinazione di Lamberto Loria, un grande esploratore ed etnografo. Negli ultimi anni il Museo era diretto da Stefania Massari, una storica dell’arte, e già questo è strano: perché mai una storica dell’arte è stata messa a dirigere un museo da sempre antropologico? Forse non ci sono antropologi in grado di farlo? Ma fino a questo punto si era ancora alla piccola bega italianuccia per la direzione di un museo locale (per quanto di gran lunga il più importante del paese, quanto a tradizioni popolari).

Ma il passo veramente assurdo, veramente senza alcun senso, si è compiuto lo scorso ottobre. Il Ministro per i Beni e le Attività Culturali ha emanato in data 8/10/08 un decreto che trasforma il MATP in un nuovissimo Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia (ICDE). Si tratta di un’operazione interessante, che intende valorizzare l’istituzione assegnandole compiti ulteriori di ricerca e valorizzazione dei beni antropologici italiani, che probabilmente va nella direzione giusta. Al Museo romano si è data una dignità nazionale, e gli si è attribuito il compito di lavorare e produrre sapere a nome di tutto il paese. Una mossa quindi interessante, e credo condivisibile. Con un unico punto critico: Il comma 2 dell’articolo 3 del decreto dice: “l’ICDE è diretto da un dirigente storico dell’arte, di seguito indicato come Direttore…”. Perché? La risposta è troppo facile, e parlare di “decreto ad personam” mi pare evidente.

Possiamo accettare una cosa del genere, che getta nel ridicolo non solo l’antropologia italiana, ma il modo stesso in cui lo Stato concepisce le sue rappresentanze culturali? L’ICOM,
vale a dire l’organismo associato all’Unesco (quindi alle Nazioni Unite) che riunisce i professionisti museali, ha già detto il 30 novembre scorso che questa scelta del Ministero è assurda e penalizza la professionalità degli antropologi italiani, trattati come minorati incapaci di gestire il loro sapere.

Anche se non siete antropologi, vi domando quindi di unirvi in questa piccola battaglia di civiltà, per fare in modo che l’ICDE sia diretto da un professionista del settore antropologico, e non da qualche esperto di altri settori. Vi chiedo quindi di unirvi all’appello e di sottoscrivere la causa su Facebook. Vi prego inoltre non di inoltrare questo messaggio, o non solo, ma di raccontare personalmente questa storia a una sola persona, convincendola a sottoscrivere, chiedendole poi di fare altrettanto. Vogliamo essere in tanti, più di quelli “direttamente coinvolti”, perché crediamo che oltre a questa piccola battaglia, sia in corso una guerra più generale per il senso della cultura in questo paese, e non vogliamo perderla.
Grazie dell’attenzione

venerdì 5 dicembre 2008

Comunicazione di servizio per gli studenti di Tor Vergata


Ho messo sul sito della didattica di Tor Vergata i programmi dei moduli di Antropologia culturale che partono il prossimo semestre. Dato che sul sito non ho potuto caricare testo in html, per chi fosse appassionato di corsivi e grassetti qui c'è quello della laurea triennale e qui quello della laurea magistrale. Lascio il link sempre disponibile nella colonna a destra.

giovedì 4 dicembre 2008

Il delirio da Truman Show


Traduco al volo alcune note che Mark Deuze ha segnalato durante un seminario online alla lista di discussione Medianthro, dedicata a tematiche di antropologia dei media. Mi pare estremamente interessante.
Gli psichiatri Joel e Ian Gold hanno di recente ipotizzato che l'incrociarsi tra onnipresenza dei media, classiche sindromi come il narcisismo e la paranoia, e una crescente cultura mediatica in cui i confini tra mondo fisico e mondo virtuale si stanno confondendo, produce un nuovo tipo di psicosi, documentato in alcuni casi clinici, vale a dire il "Delirio da Truman Show" (DTS).

Il DTS prende il nome dal film "The Truman Show" (1998) in cui l'attore Jim Carrey interpreta un uomo che non sa che tutta la sua vita è null'altro che un enorme reality show televisivo, visto da milioni di spettatori in tutto il mondo. Le persone che soffrono di DTS sono più o meno convinte che tutto quello che le circonda sia un set organizzato, che le persone attorno a loro siano attori e che tutto quel che fanno sia monitorato e registrato.
Ian Gold, che lavora alla McGill University, in un'intervista al quotidiano canandese "The National Post", attribuisce il DTS "a inusitati stimoli culturali che potrebbero spiegare il fenomeno: la pressione di viviere in un'ampia comunità connessa può far emergere il lato più instabile delle persone fragili [...] I nuovi media stanno aprendo vasti spazi sociali che potrebbero interagire con i processi psicologici" (19 luglio 2008, p. A1).
In un pezzo dell'International Herald Tribune, diversi esperti confermano l'esistenza del DTS e in modo interessante suggeriscono che "un modo di guardare ai deliri e alle allucinazioni dei malati di mente è considerarli forme estreme dei timori che assillano la popolazione normale o mediamente nevrotica" (30 agosto 2008, p. 7).
Ci sono diversi pareri sull'esistenza di questa forma di malattia mentale. Ma mi pare comunque il caso di pensarci un poco. Fossero anche solo un paio di mattacchioni che si sono inventati tutto. Già a inventarsi una simile forma di delirio, significa che viviamo un'epoca nuova.




mercoledì 3 dicembre 2008

Cucina creativa

Rebecca non ama le novità in cucina, e io non ne posso più, al mercoledì, di farle wurstel e patate ripassate in padella. Così, dopo una serie di facce elaborate sul piatto, la settimana scorsa si è mangiata un'astronave, e oggi le sono toccati funghi e maiale. Mi aspetto qualche consiglio per mercoledì prossimo.

martedì 2 dicembre 2008

Se non ora, quando?

Mi unisco all'appello di Meltemi e gli do spazio sperando che qualcuno voglia aderire, come abbiamo già fatto numerosi.


La Meltemi attraversa da mesi una crisi tanto profonda da renderne incerto il futuro. Piuttosto che tacere e scomparire in silenzio, abbiamo scelto di lanciarvi un appello per tenere in vita la nostra (e la vostra) casa editrice. Vi chiediamo semplicemente di acquistare i nostri libri, per voi stessi o donandoli a una biblioteca, entro il 31 dicembre. Aiutateci! Se non ora, quando?