Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI
L'anno scorso il 31 ottobre è stato un momento molto triste, c'eravamo già organizzati con il LaPE per la terza edizione di Mortacci nostra, ma poi la seconda edizione della pandemia ci ha costretti a bloccare tutto. Ho fatto comunque un collegamento online, una sorta di incontro tra spiriti poco eletti e molto elettrici, siamo stati bene stando un poco male, raccontandoci i motivi e le persone per cui eravamo lì, a guardarci nei pixel truccati da zombie...
Ma quest'anno invece ce la facciamo ad essere in presenza, e torniamo al PEF - Polo Ex Fienile di Torbellamonaca più macabri e felici che mai. Come ormai è tradizione, ci saranno racconti e poesie, cibo, risate e forse anche spazio per qualche lacrima.
Il fuoco, simbolo primigenio e fonte energetica, ci terrà uniti attorno alla pecora allo spiedo gestita da Franko e i suoi fidi paladini, poco più in là la porchetta calla calla sazierà sotto le mani esperte dei fienili norcini i dannati carnivori (tranquilli, faremo anche un po' di verdure alla griglia per i vegetariani), e poco più oltre sobbollirà appena appena una paella sopraffina grazie all'aiuto di Dzemila. Ma molti porteranno cibo di loro, immagino si saranno pietanze da molti paesi, con molti sapori, adatti per tutte le bocche e tutte le religioni.
Chi Come Noi, con Carlo, Mauro e QuattroFragole, ci racconterà dei rituali del carcere, la Santa Suerte, la vita oltre il limite, e ci faranno leggere qualche pagina dal libro di Mauro. Er Thenda ci farà la lapide in diretta, e potrete portavene via pure una stampata, quest'anno. Daniele Casolino e Chiara Cappelli proporranno brani da ‘Renato Morto’ di Alessia Giovanna Matrisciano. Il fuoco, assolta la sua funzione gastronomica, riprenderà quell'altra sua, la conviviale, e ci terrà al caldo mentre raccontiamo le nostre storie, beviamo i nostri intrugli, condividiamo poesie, pensieri effimeri o pesantissimi.
Finiremo con un rituale che abbiamo già fatto in altre edizioni: chi vuole, potrà scrivere un biglietto per una persona cara che non c'è più, e lanciarlo nel fuoco (dopo averlo letto, se vuole, o silenziosamente, se preferisce) per farlo arrivare a destinazione.
Ingresso totalmente libero, salvo il greenpass da portare con sé per accedere agli spazi del Fienile, cibo da condividere, magoni da sciogliere, risate da condividere.
Vi aspettiamo romani di tutte le razze e di tutte le età, donne, uomini, e cantanti.
Per noi sarà ricevere un regalo, potervi conoscere e poter conoscere i vostri cari.
DOMENICA 31 OTTOBRE DALLE ORE 17 FINO A MEZZANOTTE - POLO EX FIENILE, LARGO MENGARONI 29 - TORBELLAMONACA - ROMA
Se ci sono studenti o studentesse di Tor Vergata interessati /e a laurearsi con una tesi di Antropologia culturale sul PEF - POLO EX FIENILE di Torbellamonaca e le sue attività, in particolare su come il PEF ha saputo reagire alla pandemia, sappiano che la Regione Lazio mette a disposizione due borse di 2000 euro ciascuna e io sarei disposto a fare da relatore per tesi su questo tema. La scadenza per la domanda di partecipazione è il 26 novembre 2021. La discussione deve avvenire entro l'a.a. 2021/2022.
A questo link trovate tutte le informazioni. Chi fosse interessato mi contatti via mail
Bando per 2 borse di ricerca per tesi su volontariato e terzo settore – Scade il 26/11/21 – CSV Lazio
Bando per 2 borse di ricerca per tesi su volontariato e terzo settore – Scade il 26/11/21 Irene2021-10-26T13:53:14+00:00 Il Centro studi, ricerca e documentazione sul volontariato e terzo settore, in attuazione al Programma di attività 2021 del CSV Lazio propone la prima edizione del Bando per du...
I significati sono costruzioni LOCALI.
Le culture sono tentativi di creare un senso di adeguatezza per le pratiche e
le azioni che si costruiscono nel nostro INTORNO, vale a dire nello
spazio ordinario che ci circonda. Questo spazio sembra alquanto statico dal
nostro punto di vista quotidiano, o almeno così ci è apparso tenuto conto che
il mutamento sociale avviene per frazioni millesimali, per variazioni minuscole
che il più delle volte apprezziamo solo in parte, e solo quando diventano
appariscenti per accumulo o per frattura subitanea.
[MINUTO
05:33] Che cosa succede quando il movimento degli elementi
culturali acquisisce una velocità e una distanza tale da renderlo perfettamente
percepibile? Ecco, questo è quel che chiamiamo GLOBALIZZAZIONEdal punto di vista CULTURALE. La cultura è quello che
tu sai “lì, in quel momento”. Cosa succede dunque quando quel lì e quel momento
sembrano potersi espandere, stirare e sovrapporsi con altri “lì” e altre
“contemporaneità”?
[MINUTO
06:55] Ripartiamo dall’IMMAGINAZIONE. Una volta che abbiamo
sviluppato il nostro cervello nell’interazione con l’ambiente rendendolo uno
strumento di pensiero, e quindi, dicevamo, di IMMAGINAZIONE, quali sono le
SORGENTI di quell’immaginazione? Sono sostanzialmente due: il nostro SISTEMA PERCETTIVO, e la nostra capacità di RAPPRESENTAZIONE: la differenza sostanziale tra
avere un terribile mal di testa, percepirlo direttamente; e invece farsiun’idea del fatto che qualcuno ha un terribile mal di testa. La
rappresentazione è la messa in scena di qualcosa che non necessariamente
abbiamo percepito direttamente o sperimentato personalmente.
[MINUTO
15:00] Mentre il nostro sistema percettivo è rimasto
sostanzialmente inalterato negli ultimi 150mila anni (da quando la nostra
specie homo sapiens si è consolidata), il nostro dispositivo di
rappresentazione ha subito invece alcune trasformazioni radicali nelle ultime
migliaia di anni, in particolare negli ultimi cinquemila anni o poco più,
se diamo per compiuta la “rivoluzione cognitiva” circa 50-70mila anni fa.
Attorno a 3000 PEC infatti si formano i primi sistemi di SCRITTURA, che è una tecnologia che cambia le
regole del gioco della genesi delle rappresentazioni, che fino ad allora erano
prodotte dalla mente di ciascuno oppure prodotte nell’interazione diretta con
altri, che “raccontavano storie”. Con la scrittura si può superare la SINCRONIAdella
comunicazione, liberando la rappresentazione dall’hic et nunc della performance
comunicativa. JACK GOODY, L’addomesticamento del pensiero selvaggio
racconta proprio le conseguenze cognitive e culturali dell’acquisizione della
scrittura (con un rapido accenno al Pensiero selvaggio di CLAUDE
LÉVI-STRAUSS).
La scrittura, dunque, produce una
mutazione profonda nel nostro sistema categoriale, nel nostro sistema di
rappresentazione del reale e in generale nel nostro modo di pensare (e quindi
di agire). Ma è con la STAMPA A CARATTERI MOBILI[MINUTO
32:10] che la scrittura diventa un benedisponibile
generalmente, non limitato a una ristretta casta di specialisti, e può davvero
creare masse popolari in grado di elaborare forme di rappresentazione
inimmaginate (e soprattutto inimmaginabili) di sé stesse come masse, oltre che
rappresentazioni del mondo. Si cominciano a produrre, con il CAPITALISMO A
STAMPA, comunità immaginate sempre più ampie, che condividono,
grazie alla scrittura, sistemi sempre più complessi e articolati di
immaginazioni strutturate.
[MINUTO
40:24] Il passo successivo si attiva a partire
dall’Ottocento, con l’introduzione della chimica, dell’elettricità
e, appena possibile, dell’ELETTRONICA nel
sistema della comunicazione: fotografia, telegrafo, cinematografo, fonografo,
radio, televisione e interconnessione dati, in un crescendo esplosivo di fonti
di rappresentazione sempre più parcellizzate, e progressivamente privatizzate o
privatizzabili. Il salto della comunicazione elettronica è comparabile a quello
della stampa a caratteri mobili:
Questo per dire che, ANCHE dal punto di
vista culturale, il salto che stiamo vivendo da qualche decennio è comparabile
a quello che i nostri antenati hanno vissuto con l’introduzione della stampa a
caratteri mobili.
In realtà, [MINUTO: 41:36] dobbiamo chiarire che c’è stato un
passaggio forte, dentro questa ultima fase, dal periodo in cui il quasi MONOPOLIO
dell’IMMAGINARIO era detenuto dagli stati nazionali al periodo più
vicino a oggi, in cui invece lo stato nazionale ha perso questa prerogativa di
controllo dell’immaginario collettivo e si è fatto affiancare da molti altri
soggetti attivi (televisioni private su scala locale o nazionale,
network o corporazioni transnazionali, produttori di contenuti divenuti distributori,
come Disney, grandi player di Internet ormai di fatto broadcaster come Apple,
Google, Amazon, e tutti i broadcaster internet come Netflix,
cui si aggiungono i miliardi di utenti singoli che con le loro pagine
personali, i blog e poi i social) che hanno reso l’elaborazione delle identità, personali e collettive, sempre più un
gioco di corrispondenze, di scelte, di apparenti opzioni.
Per quelli della mia generazione, è ancora
vividissimo il ricordo in cui lo stato nazionale (attraverso le sue agenzie
culturali come la Rai, o comunque attraverso la disposizione monolinguistica in
cui è stata gestita l’informazione per decenni anche da soggetti privati come
gli editori di giornali, riviste e libri) poteva esercitare un’influenza molto
forte ma anche molto discreta, per cui Mikey Mouse era Topolino, Popeye
era Braccio di Ferro, e Charlie Brown per merenda mangiava panini
con la marronata, perché non avevamo idea di cosa fosse il burro d’arachidi
e toccava tradurlo in qualcosa di comprensibile, come il Grande Cocomero di
Linus (che era in verità una Grande Zucca…). Tutto, letteralmente tutto veniva addomesticato,
ricondotto a orizzonti consueti o comunque abbordabili.
Con la globalizzazione, la sorgente dell’immaginazione
si scollega sempre più da un hic riconoscibile (la Londra della BBC,
per esempio) e da un nunc condiviso (le audience oceaniche che vedevano
tutte assieme lo stesso programma lo stesso momento) per frammentarsi in porzioni
sempre più ridotte.
[MINUTO
50:30] Un antropologo che oltre trent’anni fa ha iniziato a
porsi una serie di domande sistematiche sull’impatto di questo tipo di
globalizzazione è ARJUN APPADURAI, di cui leggiamo il saggio Disgiuntura
e differenza nell’economia culturale globale.
[MINUTO
57:00] Il concetto di passato come archivio sincronico
della memoria è particolarmente utile e nel resto della lezione ho cercato
proprio di dimostrare questo strano sentimento, la NOSTALGIA
DA TAVOLINOcome stato d’animo
diffuso che prende la forma di una nostalgia per un passato che non abbiamo mai
vissuto personalmente ma che possiamo suscitare in noi grazie all’esposizione
mediatica a quel tipo di iconografia, di forma di rappresentazione
prodotta altrove e fatta circolare insistentemente in contesti che non l’hanno originariamente
prodotta.
[MINUTO
1:00:40] Il caso brevemente raccontato da
Appadurai del karaoke filippino
ci consente di capire dal vivo lo scollamento tra memoria, località e storia,
per cui il passato di qualcuno (poniamo, i crooner americani degli anni 50) può
essere attualizzato come il presente di qualcun altro (i giovani filippini
degli anni Novanta), e il loro futuro potrebbe essere il passato di qualcun
altro ancora (forse qualche artista coreano in ascesa?). Di chi è il
passato? C’è un sovvertimento delle cronologie ordinarie della modernità,
che per esempio riguarda anche noi italiani. Il famoso pezzo di Un americano a Roma,
con il giovane Alberto Sordi che sogna un’America che ha pochissimo di
reale o realistico, ci ricorda che siamo tutti, da molto tempo, esposti a
queste fluttuazioni dell’immaginario.
Ma dobbiamo stare attenti a non cedere
alla facile teoria dell’imperialismo culturale, secondo cui la cultura subalterna
subirebbe passivamente l’impatto della cultura egemone, dato che uno
degli aspetti importanti evidenziati dalla ricerca è proprio il carattere sempre
attivo della ricezione, vale a dire il fatto che nessuno si limita a incorporare
quel che gli viene proposto, e neppure imposto, senza una rielaborazione che
può andare in direzioni assai diverse dalle intenzioni dell’emittente (è questo
un tema delicato, ma la semiotica, la sociologia e l’antropologia dei media se ne
sono occupate con dovizia di dettagli).
[MINUTO
1:07:25] con un paio di esempi concreti tratti
dalla storia politica americana e da quella italiana abbiamo visto quanto la
pervasività dell’immaginario in movimento riesca a farci sentire vicini
personaggi oggettivamente lontani dalle nostre vite, e magari poco noti
personaggi che invece dovremmo sentire vicini se la storia e la memoria si
muovessero davvero per cerchi concentrici attorno a noi. Ma la storia collettiva
e la memoria individuale e familiare si muovono a balzi, spostandosi nello spazio
e nel tempo.
Il punto è che le sorgenti dell’autorità dell’informazione
si sono inaridite almeno nella loro ovvietà o scontatezza. E la globalizzazione
si può interpretare anche come una crisi nelle reti canoniche di trasmissione
del sapere.
[MINUTO
1:22:20] Con un video di un’ecografia in 3d ho raccontato quanto
questa pervasività dell’immaginario visivo possa toccarci nell’intimo delle nostre
relazioni personali, consentendoci di creare
[MINUTO
1:31:00] In questo finale abbiamo rapidamente
accennato al concetto di base del saggio di Appadurai, vale a dire che lo
sforzo delle società umane è stato per millenni quello di costituire delle ECUMENEsempre più
ampie impiegando la guerra, il commercio e la religione
come mezzi per questa finalità integrativa, dovendosi sempre scontrare però con
la “forza di gravità culturale”, vale a dire con l’inerzia della LOCALITÀintesa
proprio come l’hic et nunc del culturale, che sempre ha frammentato quei
tentativi di integrazione almeno planetaria, se non regionale.
Con la messa in movimento su scala
planetaria di persone (ETNORAMA),
tecnologie (TECNORAMA), soldi (FINANZIORAMA), immagini (MEDIORAMA) e idee/ideologie (IDEORAMA) abbiamo bisogno di pensare alla cultura non
più come un oggetto statico, ma piuttosto come un incrocio di flussi
sovrapposti e spesso discordanti.
Nei primi minuti della lezione abbiamo anticipato
quel che dovremo dire sul ruolo del NAZIONALISMO nell’intensificare la
convinzione (per altro indotta proprio dal nostro rapporto cognitivo con il
mondo, per via della forma peculiarmente incompleta del nostro cervello e della
sua capacità di relazionarsi con il mondo) che la CULTURA È CONDIVISA. Abbiamo
detto che riprenderò questo punto importante con una lettura extra, connessa proprio
alla lezione 06 (CONDIVISA DE CHE? CULTURA, APPARTENENZA, DIFFERENZA) e che
caricherò appena sarà pronta.
[MINUTO
05:46] Poi ho aggiunto un’ulteriore promessa, che cioè dovrò
tornare sulla parte teorica del saggio di Geertz sulla THICK DESCRIPTION e
proverò a trovare il tempo per discutere una lunga serie di slide che ho
dedicato a quel saggio, così centrale per capire cosa sia diventata l’antropologia
culturale come scienza del simbolico (dopo essere nata come scienza dell’altro
e dell’altrove, una specie di scienza del primitivo e del rurale, come
ricordate).
[MINUTO
07:50] Da questo punto inizia la presentazione del saggio Gli
usi della diversità, un saggio molto importante che ho cercato di spiegare
in dettaglio rispetto all’idea di fondo che lo sostiene, che è in sostanza che L’ETNOCENTRISMOnon
aiuta certo la convivenza, non HA ALCUNA LEGITTIMAZIONE MORALE e non è
affatto un COMPORTAMENTO NATURALE. Dopo aver detto alcune cose sulla biografia
di Geertz, parlo rapidamente [minuto 23:30] di un
pezzo del mio blog in cui indirettamente mi sono trovato a citare questo
saggio, in una polemica con ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, che in un suo
editoriale sul Corriere
della Sera del 20 gennaio 2020 aveva giustificato l’etnocentrismo
(distinguendolo dal RAZZISMO) sulla base di un vecchio saggio di CLAUDE LÉVI-STRAUSS
(il più influente antropologo del secondo dopoguerra) che proprio Geertz aveva
criticato in questo saggio che stiamo per leggere. Ricopio qui di seguito una
mia sintesi di molti anni fa, che so può essere utile per guidare la lettura (Faccio
solo notare che i rimandi alle pagine si riferiscono all’edizione che qui
commento e che non è la stessa, come impaginazione, di quella assegnata agli
studenti e alle studentesse del corso, che dovranno semmai trovare le pagine corrispondenti
nell’edizione a loro disposizione).
GUIDA ALLA LETTURA DI “GLI USI DELLA
DIVERSITÀ”, DI CLIFFORD GEERTZ, [1994, IN R. BOROFSKY (ED.), ASSESSING CULTURAL
ANTHROPOLOGY, MCGRAW-HILL, PP.454-467]
1) LE
DUE STRADE DELL’ANTROPOLOGIA L’antropologia si è
sempre mossa tra universalità e particolarità, tra generalizzazione e
idiosincrasia: “strutture e archetipi” da un lato, “cavoli e re” dall’altro
(71).
2) OMOGENEIZZAZIONE
CULTURALE E LEGITTIMAZIONE DELL’ETNOCENTRISMO Oggi
molto spesso vi viene paventato il rischio dell’omogeneizzazione culturale:
finiti i cacciatori di teste, finiti i cannibali… Anche se questo di per sé non
costituisce un problema per l’antropologia in quanto disciplina scientifica, G.
nota che questa “attenuazione del contrasto culturale” (“softening of variety”)
ha prodotto una legittimazione (spesso implicita) dell’etnocentrismo da parte
di quegli stessi intellettuali (cioè antropologi e filosofi) che più di tutti
avrebbero il compito di difenderci dalle sue grinfie [L’etnocentrismo è
quell’atteggiamento in base al quale la cultura, le abitudini e i valori sono
considerati dal soggetto che li possiede naturalmente e intrinsecamente
superiori a quelli dei soggetti di altri culture: la “mia” cultura è giusta, la
“loro” è sbagliata].
3) CLAUDE
LÉVI-STRAUSS: L’ETNOCENTRISMO È UN PRESERVATIVO NECESSARIO
Il primo esempio di questo atteggiamento è preso da Lévi-Strauss, che afferma:
“per non dissolversi, [le culture] hanno bisogno che… sussista tra loro una
certa impermeabilità” (p. 73). L’etnocentrismo avrebbe quindi almeno un aspetto
positivo, nella misura in cui previene l’omogeneizzazione rendendo le culture
relativamente impermeabili le une alle altre. L’etnocentrismo, questa
prospettiva lévi-straussiana, è un preservativo che ci protegge dal virus della
globalizzazione culturale. Dato che esiste il virus, i preservativi sono utili.
“Sarebbe pertanto illusorio non soltanto pensare che l’umanità possa liberarsi
del tutto dall’etnocentrismo… se ciò accadesse, non sarebbe affatto una buona
cosa” (p. 73). Poniamoci la seguente domanda: quale concezione della cultura è
implicata da un simile apprezzamento dell’etnocentrismo?
4) IMPERMÉABILITÉ
COME UNA VIA D’USCITA TRA RELATIVISMO E ASSOLUTISMO L’impermeabilità
si rivela quindi, secondo Lévi-Strauss, un atteggiamento morale verso altre
culture: mi tengo alla larga dalle altre forme culturali per non negare la mia
propria, e soprattutto per non danneggiare la creatività insita nella mia
cultura. Secondo Geertz, questa accettazione dell’etnocentrismo attraverso il
distacco dall’altro è la conseguenza di uno stallo morale: “Non potendo
abbracciare né il RELATIVISMO né l’ASSOLUTISMO – il primo perché inibisce la
facoltà di giudizio, il secondo perché la rimuove dalla storia – i nostri
filosofi, storici e scienziati sociali sembrano optare per quella sorta di
imperméabilité dei noi-siamo-noi, voi-siete-voi raccomandata da Lévi-Strauss”
(p. 75).
5) RICHARD
RORTY: ABBIAMO BISOGNO DELL’ETNOCENTRISMO PERCHÉ ABBIAMO BISOGNO DI COESIONE
SOCIALE E SOLIDARIETÀ DI COMUNITÀ La posizione del
filosofo Rorty è leggermente differente, ma egualmente orientata a enfatizzare
gli aspetti positivi dell’etnocentrismo. Rorty è un filosofo che unisce nella
sua scrittura l’approccio ermeneutico (tedesco) e il pragmatismo (americano)
[cfr. ad esempio il suo La filosofia e lo specchio della natura, del 1979]. Ha
avuto un ruolo centrale nel diffondere un’idea di filosofia come genere
letterario che rinuncia al compito di fondare la legittimazione della
conoscenza e si accontenta di offrire una sponda intellettuale all’espressione
di simpatia e solidarietà che i membri di una comunità hanno gli uni verso gli
altri (Contingence, irony and solidarity, 1989). Questo sentimento nei
confronti della propria comunità è completamente de-teorizzato e sottratto a
qualunque implicazione di tipo universalistico (o, se è per questo, anche
relativista). All’interno di questa struttura di solidarietà coi propri simili,
le culture degli altri costituiscono nulla più che lo sfondo su cui si staglia
“la dignità relativa di un gruppo… per effetto di contrasto, per via del
confronto con altre, peggiori comunità” (cit. pp. 76-77). Insomma, la
conoscenza dell’altro è utile nella misura in cui conferma la nostra
superiorità.
6) DIFFERENZE
TRA QUESTI DUE MODI DI LEGITTIMAZIONE DELL’ETNOCENTRISMO
G. ha quindi presentato a chi legge due approcci all’etnocentrismo. Secondo il
primo (antropologico e razionale), l’etnocentrismo è utile perché preserva
l’integrità culturale, mentre per il secondo (filosofico e pragmatico)
l’etnocentrismo rafforza il sentimento di appartenenza collettiva. Uno insiste
sulle implicazioni intellettuali dell’etnocentrismo (se non ignoriamo l’altro,
non possiamo salvare la nostra specificità intellettuale), l’altro su quelle
emotive (abbiamo bisogno di disprezzare l’altroper tenere unita la nostra comunità attraverso un senso di superiorità).
7) IL
VERO PROBLEMA DELL’ETNOCENTRISMO: SOFFOCA L’IMMAGINAZIONE
A questo punto Geertz espone il punto centrale della sua argomentazione:
“vorrei dire che una facile resa ai comfort dell’essere semplicemente noi
stessi, del coltivare la sordità e del rendere grazie per non essere nati tra i
vandali o tra gli ik, sarebbe fatale per entrambe [le discipline,
l’antropologia e la filosofia]” (p. 77).
Il vero problema dell’etnocentrismo non
sta nel fatto – dice Geertz – che ci imprigionerebbe nelle credenze e nelle
pratiche della nostra cultura e della nostra comunità (per definizione, siamo
già intrappolati nella nostra rete semiotica, e non abbiamo certo bisogno
dell’etnocentrismo a questo fine) ma piuttosto il fatto che soffoca la nostra
capacità e la nostra voglia di immaginare (afferrare, com-prendere nel primo
senso del termine) qualunque sensibilità che ci sia aliena: “…i problemi
sollevati dal fatto della diversità culturale hanno a che fare più con la
capacità di percepire alla nostra maniera sensibilità aliene, stili di vita che
non ci appartengono… e che neppure ci apparterranno, che non con la possibilità
di sfuggire al fatto che preferiamo quel che preferiamo” (p. 78).
8) RIFIUTARE
L’ETNOCENTRISMO SIGNIFICA IN PRIMA ISTANZA RICONOSCERE LA DIVERSITÀ ALL’INTERNO
DELLE NOSTRE SOCIETÀ Un’immediata conseguenza
del prendere in considerazione questo aspetto sterilizzante (e non solo
protettivo o contrastivo) dell’etnocentrismo è che si smette di pensare alle
culture o alle comunità come se fossero unità indipendenti e dai confini
nitidi. Se uno ha ancora voglia di immaginare “come sia essere un pipistrello”
(Thomas Nagel, 1974 What it is like to be a bat?), immaginare cioè la diversità
culturale, immediatamente prenderebbe consapevolezza del fatto che la diversità
non inizia lontano, lontano da “noi”, ed è invece ben all’interno di noi. Nel
momento in cui la diversità non è solo qualcosa che sappiamo che esiste ma
dalla quale ci teniamo alla larga per rimanere più aderenti ai nostri principi
(come vuole Lévi-Strauss), e non è neanche un semplice sfondo di conoscenza
peggiore e di equivoci valori morali che confermano la nostra superiorità e
unità (come vuole Rorty), ma è qualcosa che veramente ci interessa; nel momento
in cui la diversità culturale non solo uno strumento per i nostri scopi
(proteggere la mia cultura, unire la mia comunità), la sua presenza e
pervasività diventa evidente
9) LINGUAGGIO,
SOCIETÀ E RAPPRESENTAZIONI MONADICHE DELLE CULTURE Com’è
stato quindi possibile presentare come plausibile questa concezione monadica
delle culture (i treni, nella metafora di Lévi-Strauss)? È stato possibile
perché si è applicata in modo scorretto l’idea che il significato sia costruito
socialmente, nel senso che c’è un forte legame tra linguaggio e conoscenza o,
per dirlo meglio, tra significato e società. Questa idea (che le idee e i
significati non sono “nella testa” delle persone, ma circolano nella società
attraverso i simboli della cultura) è stata interpretata in modo restrittivo
“nel senso che i limiti del mio mondo sono i limiti del mio linguaggio”,
offrendo quindi legittimazione alla chiusura culturale e all’isolamento morale,
mentre per Geertz “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” (p.
80). Non si tratta di un gioco di parole più o meno insulso, e dovrebbe essere
analizzato con attenzione. La prima frase, infatti, legittima l’indifferenza
verso la diversità, mentre la seconda conduce alla curiosità, all’immaginazione
e all’apertura mentale.
10) LE
CULTURE ERANO VERAMENTE PURE E LE SOCIETÀ VERAMENTE OMOGENEE PRIMA DELLA
RECENTE IBRIDAZIONE? FORSE GEERTZ STA ESAGERANDO? In
un mondo in cui le differenze segnavano i limiti dell’appartenenza in modo
nitido, era forse ancora possibile pensare alle culture come treni. Ma ora
siamo di fronte a prospettive del tutto inedite: “le questioni morali sollevate
dal fatto della diversità culturale… che un tempo sorgevano, quando sorgevano
soprattutto tra le società… sorgono oggi soprattutto al loro interno” (pp.
81-82). Questo è forse un punto che potremmo spingerci a criticare
nell’argomentazione geertziana. Per presentare lo stato attuale di ibridazione
culturale, lo contrappone a un passato di uniformità, quando invece sappiamo
che la diversità è stata la situazione normalenella storia dell’umanità, se si eccettua l’enorme sforzo di
uniformazioni nazionali occorso dalla fine del Settecento alla fine della
seconda guerra mondiale.
11) UN
APOLOGO DALLA MORALE INCERTA: L’INDIANO UBRIACONE E IL RENE ARTIFICIALE, OVVERO
L’INCAPACITÀ DI IMMAGINARE L’ALTRO Per fornirci un
esempio sia della “diversità entro una società” sia della sordità al richiamo
di altri valori e dell’inutilità di un approccio di allegro distacco dall’altro,
Geertz ci racconta la storia dell’indiano ubriacone e del rene artificiale. Il
valore morale della storia ha è legato a quanto questa si sviluppa a seguito
della mancanza di reciproca immaginazione, e alle conseguenze che questo
comporta: “se fallimento vi è stato… esso ha riguardato l’incapacità, da ambo
le parti, di comprendere la posizione dell’altro e, quindi, la propria… A far
sembrare questo piccolo racconto così deprimente… è il fatto che essi [indiano
e medici] non abbiano saputo escogitare, nel mistero della differenza, un modo
per risolvere un’autentica asimmetria morale” (p. 84).
12) IL
RUOLO DELL’ETNOGRAFIA NEL “COLMARE IL SALTO” DELLA DIVERSITÀ (O ALMENO NEL
PROVARCI, NELL’IMMAGINARE LE POSSIBILITÀ DI RIEMPIRLO) Possiamo
rimanere indifferenti di fronte a questi casi di diversità che intersecano la
“nostra” definizione di cosa il termine “nostro” significa o dovrebbe
includere? Geertz crede che nella maggior parte dei casi siamo chiamati a uno
sforzo di comprensione, se veramente vogliamo vivere dentro una società, e non
una mera accozzaglia di individui in soliloquio, ognuno sepolto inesorabilmente
nelle sue idiosincrasie personali. Per poter fare questo, abbiamo bisogno di
una “apertura immaginativa a (e l’ammissione di) una mentalità aliena” (p. 84).
Gli etnografi sono da tempo i professionisti delle mentalità aliene:
“Quantunque diversi fossero i nostri metodi o le nostre teorie, noi etnografi
abbiamo condiviso la medesima ossessione professionale per i mondi altri,
cercando di renderli comprensibili innanzitutto a noi stessi e, quindi, con
l’ausilio di artifici concettuali non dissimili da quelli adoperati dagli
storici e dai romanzieri, ai nostri lettori” (p. 84).
13)IL
SAPERE ETNOGRAFICO È IMPORTANTE PERCHÉ IL RELATIVISMO (CHE PUÒ SENZ’ALTRO
SORGERE DA QUEL SAPERE) È MOLTO MENO PERICOLOSO DELL’INDIFFERENZA ALLA
DIVERSITÀ Ora che la diversità è all’interno del
noi, l’etnografia, raffinando e ricalibrando i suoi strumenti e i suoi fini,
può giocare un ruolo importante: “Gli usi dell’etnografia sono per lo più
ancillari, e tuttavia reali. Come la compilazione dei dizionari o la molatura
delle lenti, l’etnografia è, o dovrebbe essere, una disciplina che serve a
qualcosa” (p. 86). L’etnografia può offrire la sua esperienza per quella che
Geertz considera una speranza per un possibile futuro: un tentativo di
reciproca comprensione tra le diversità.
14) CONCLUSIONI:
L’ETNOGRAFIA È AL CONTEMPO UN’ESIGENZA SCIENTIFICA E MORALE DEI NOSTRI TEMPI
Entro il complesso collage che costituisce l’attuale complessità e ibridità
culturale, il relativismo senza scopo e la comparazione autocompiaciuta con
l’altro sono due strategie del tutto inutili, anche se bisogna specificare che
quest’ultima è ben più pericolosa del primo. “La prospettiva di un mondo
popolato di persone così innamorate le une della cultura delle altre da
aspirare soltanto a celebrarsi a vicenda non mi pare proprio un pericolo
imminente; purtroppo, mi sembra di vedere invece un pericolo nella prospettiva
di un mondo di persone tutte impegnate a glorificare i propri eroi e a
demonizzare i propri nemici. Non è affatto necessario scegliere – anzi, è
necessario non scegliere – tra un cosmopolitismo privo di contenuto e un
campanilismo senza pietà. Nessuno dei due è di grande aiuto se si tratta di vivere
in un collage” (pp. 88-89).
15) ESSERE
ATTENTI AL DIVERSO È “INNATURALE” MA NECESSARIO. UN MANIFESTO DEL SAPERE
SOCIO-ANTROPOLOGICO
Comprendere quello che, in
un modo o nell’altro, ci è alieno (e tale rimarrà) senza cercare di
minimizzarlo con vuoti balbettii sulla nostra comune umanità o di
neutralizzarlo con l’indifferenza dell’a-ciascuno-il-suo, o ancora di
liquidarlo come qualcosa di affascinante, persino grazioso, ma non perciò meno
illogico – questa è un’abilità che dobbiamo faticosamente imparare; e una volta
imparata, lavorare continuamente per tenerla in vita, poiché non si tratta di
una facoltà innata, come la percezione della profondità o il senso
dell’equilibrio, sulla quale si possa fare senz’altro affidamento. Gli usi
della diversità – e dello studio della diversità – consistono proprio in
questo: nel rafforzare la nostra immaginazione, la nostra capacità di
comprendere ciò che ci sta di fronte.
Sunto
L’ETNOCENTRISMO, un tempo
vivacemente contrastato dagli intellettuali e dagli esperti di scienze sociali,
ha acquisito da qualche anno un nuovo fascino, come “una certa dose di sordità
al richiamo di valori estranei” – che consentirebbe quindi la sopravvivenza
delle differenze – oppure come “una matrice di confronto con comunità
peggiori” – una pratica che rafforza la coesione della comunità
di appartenenza. Confrontandosi con questa nuova attrattiva
dell’etnocentrismo, e con la sua legittimazione da parte di autorevoli
studiosi come Lévi-Strauss e Rorty, Geertz sostiene che un simile
approccio alla diversità culturale ci impedisce di scoprire non solo
quel che sono gli altri, ma anche quel che siamo noi, dato che la
diversità è oggi altrettanto all’interno delle società di quanto un
tempo fosse tra società. L’etnografia con il suo tradizionale pallino
per la comprensione della diversità, ci offre ancora gli strumenti
migliori per capire quel che ci è alieno, senza negarlo, renderlo
innocuo o ignorarlo. All’interno dell’impresa etnografica, gli scopi
morali e quelli scientifici si intrecciano: abbiamo bisogno di
conoscere l’altro perché è dentro di noi (obiettivo scientifico della
precisione e dell’adeguamento alla realtà) e perché solo questa conoscenza (che
richiedere un vero sforzo di immaginazione) può contrastare una tendenza
evidente a trasformare l’indifferenza verso l’altro in sospetto,
e il sospetto in inimicizia.
[MINUTO
1:27:10] Per concludere in leggerezza, abbiamo
fatto un piccolo test di verifica su alcuni temi (la cultura alta/bassa; cosa
sia un oggetto tradizionale; in che senso la cultura è condivisa) con la
piattaforma Mentimeter. Credo di non fare troppo danno se anticipo che
il vincitore di questa gara è stato Magical Rhino…
Il tema di questa lezione è
l’INTERPRETAZIONE, ovvero quanto il dato etnografico sia in realtà costituito
da un processo ermeneutico costante: sul campo, l’antropologa raccoglie letture
stratificate e cerca di organizzarle in un quadro di senso.
[MINUTO 02:00]THIN DESCRIPTIONe THICK DESCRIPTION. Uno
dei concetti più elusivi della teoria della descrizione, possiamo riassumere
dicendo che la thin è una descrizione INSENSATA, mentre la THICK è la
descrizione che incorpora in sé il SENSO DELL’AZIONEDAL PUNTO DI VISTA DELL’ATTORE
SOCIALE. [MINUTO
03:30] riprendo un po’ teatralizzata la storiella dell’OCCHIOLINO
raccontata da Gylbert Ryle proprio per spiegare in cosa consista la
differenza tra thin e thick.
[MINUTO
09:45] non è l’osservazione quel che conta per la vita
umana, ma l’interpretazione del senso di quel che osserviamo. Se non abbiamo un
quadro di senso, non osserviamo se non cose senza senso. L’antropologa sul
campo si impegna cercare, nel reale che “osserva”, non tanto il suo senso, il
punto di vista dell’osservatore ignorante, ma piuttosto il senso dell’attore sociale,
il suo punto di vista.
[MINUTO
15:00] Un altro modo di raccontare questa differenza è con
il racconto del MARZIANO che assiste a un BATTESIMO: La versione thin della storia,
per quanto dettagliata, non ne coglie il senso, non ci dice quel che gli attori
stanno facendo davvero (cioè quel che gli attori sociali immaginanodi stare
facendo).
[MINUTO 20:33] La cultura costituita dalle
RETI DI SIGNIFICATO che gli umani hanno tessuto, secondo quando ci ha insegnato
MAX WEBER (tramite Clifford Geertz)
[MINUTO 22:59] -EMICvs -ETIC. La descrizione dal punto
di vista dell’attore sociale (-emic) contrapposta alla descrizione condotta dal
punto di vista dell’osservatore (-etic). La storia linguistica di questa opposizione,
che ricalca in profondità quella tra thin (=etic)e thick (=emic).
KENNETH PIKE (1953) ha contropposto phonetic a phonemic,
per distinguere, rispettivamente, il livello delle differenze oggettive tra
i suoni prodotti, e il livello delle differenze significative che quella
lingua riconosce.
[MINUTO
31:30] Come non morire di noia quando si legge o si ascolta
una storia. L’attenzione è garantita se riesci a infilarti in quella rete di
significati. A questo punto, comincia la mia lettura effettiva della STORIA DI
COHEN, che riprendo nella sintesi che ne ho dato nel mio La ninfa e
lo scoglio.
L’antropologo che più ha insistito sulla
dimensione interpretativa della cultura è stato CLIFFORD GEERTZ, e uno
dei racconti più memorabili di questo lavorio culturale è stato quello del
mercante ebreo Cohen nel Marocco agli albori del colonialismo
francese, nel 1912.
Rovinato nell’onore da una banda di
predoni berberi che gli hanno ucciso due clienti in casa, Cohen si rivolge ai
militari francesi, arrivati da poco a presidiare la zona, per chiedere loro il
permesso di riattivare il vecchio patto commerciale con lo sceicco della
zona, che gli avrebbe garantito il suo diritto di farsi giustizia per
questa patente violazione delle norme sociali della regione: non si
interferisce con un mercante mentre ospita un cliente per una trattativa, e
questa interferenza va ricompensata con un valore mercantile pari a quattro o
cinque volte il danno subito, così che l’onore (’ar) del
danneggiato sia reintegrato pubblicamente. I francesi non capiscono nulla di
queste liturgie culturali locali, e scacciano Cohen con un secco “fai come ti
pare!”. Il mercante ebreo interpreta pro domo sua questo disinteresse
dei colonizzatori come un assenso implicito e parte a cercare giustizia
sollevando dal torpore il suo sceicco (pensionato anzitempo dai francesi
stessi, preoccupati di porsi come gli unici monopolisti della giustizia, in
nome dell’incipiente modernizzazione che avrebbe trasceso le vecchie
solidarietà tribali) e una banda di compaesani parimenti stralunati.
Cosa fa Cohen per chiedere giustizia in
quel contesto culturale? Simula un furto di tutto il bestiame razziato
fin lì dai predoni, e scappa. I predoni, quando si rendono conto che una banda
di pazzi nottetempo si è presa la briga di immobilizzare il loro pastore e
tagliare la corda con tutte le pecore, saltano sui cavalli e iniziano uno
svogliato inseguimento, più che altro allibiti che qualcuno si sia preso
un simile ardire, di andare cioè a rubare a casa dei ladri più feroci della
zona. Quando però vedono a distanza la figura allampanata di Cohen che
scappa con lo sceicco e le pecore, lo riconoscono e fanno: “Ah, è lui. Sediamoci e parliamo”.
La trattativa si conclude con Cohen che
tutto felice è riuscito a spuntare ben cinquecento pecore come compenso e
garanzia di vedere reintegrato il suo perduto onore di mercante
in grado di proteggere i suoi clienti secondo i sacri dettami dell’ospitalità,
ma quando torna in città, di nuovo i soldati francesi non capiscono nulla di
quel che Cohen dice loro (che quel gregge in realtà è il suo ’ar, il suo onore
restituito) e lo sbattono in prigione sequestrandogli le pecore, che loro
credono siano la prova della sua connivenza coi predoni berberi, visto
che lui ha insistito così tanto nell’ammettere che quel gregge gli è stato dato
proprio dai predoni, ricercati di primo grado dai francesi.
Geertz ha scritto uno dei saggi più
memorabili dell’antropologia culturale del novecento per spiegare questa
storia, per spiegare cioè che ebrei, berberi e francesi in quel 1912 condividevano
certo lo stesso mondo reale, ma lo interpretavano in modi non
sempre sovrapponibili. Quel che un’ipotetica telecamera su un satellite spia
avrebbe potuto registrare come un “furto notturno di bestiame nel
deserto fuori Marmusha, in Marocco” è in realtà un’azione sociale completamentediversa.
Cohen compie un’azione simbolica,
una dichiarazione politica: Ridatemi il mio onore, voi che mi avete disonorato!
Sono costretto a simulare un’azione vergognosa, un abigeato notturno, per
rammentarvi che avete fatto una cosa disonorevole, umiliandomi nella mia
funzione di ospite dei miei clienti. Il “furto di pecore”, insomma, viene
correttamente interpretato dai berberi, che condividono con Cohen un
comune orizzonte morale legato al rispetto dell’onore e alla legittimità di
riscattare la sua perdita. I predoni “vedono” nella farsa del furto delle
pecore il senso che Cohen vi ha incorporato, lo comprendono e
accettano di patteggiare la compensazione. Quando torna con il suo belante ’ar
i francesi, di nuovo, non capiscono e si comportano come fanno sempre i
dominatori, esercitando la forza lì dove loro manca il senso.
Tutto questo complesso simbolico di
azioni (ammazzare clienti altrui, lamentarsi coi francesi, titillare l’orgoglio
di un sceicco fuori gioco, rubare per burla, trattare sul serio, imprigionare
perplessi) non è stato “osservato” dall’antropologo, dato che tutto quel
che ha avuto Geertz sul campo, negli anni Sessanta, è stato il racconto
di un vecchio mercante ebreo, che sornione e stanco ha raccontato allo
straniero una storia incredibile che gli era capitata mezzo secolo prima,
quando era solo un giovane sbruffone al limite dell’incoscienza.
Quel che voi avete ascoltato a lezione,
dunque, è la mia interpretazione di quel che Geertz ha scritto in
quel saggio, che condensa la sua interpretazione di quel che ha
capito dal racconto tradotto da un mediatore di un vecchio mercante
ebreo; racconto che era l’interpretazione, a cinquant’anni di distanza,
di una serie di eventi che Cohen aveva vissuto e cercato di capire
mentre li viveva. Ecco, questa è natura necessariamente interpretativa della
ricerca antropologica.
[MINUTO
1:20:00] sintetizzo la seconda parte del saggio,
anticipando una lettura più dettagliata in una lettura che caricherò come bonus
track di questa lezione.
Abbiamo iniziato la lezione ricordando i due
punti raggiunti finora: la cultura è APPRESA,
e la cultura è SIMBOLICA. Dovremo quindi
oggi chiederci in modo esplicito se la cultura sia anche CONDIVISAsecondo quel
che ci sembra ovvio quando pensiamo ai gruppi, alle etnie, alle nazioni (ci
sono un Francese, un Tedesco e un Italiano…)
[MINUTO
05:00] Abbiamo però prima ripreso la questione della nascita
dell’antropologia (e delle scienze sociali) e il mutamento che l’antropologia
ha attraversato negli ultimi settant’anni.
Siamo quindi partiti dalla MODERNITÀcome il superamento
progressivo di una concezione del potere come emanato da un centro e irraggiantesi
il più lontano possibile da quel centro con intensità sempre minore, fino a sovrapporsi
all’influenza di un altro centro di potere. Questa concezione “a mandala” del
potere come gioco geometrico di centri che inglobano centri minori
in costante mutamento è stata progressivamente sostituita proprio
nel passaggio della modernità da una concezione invece del nuovo potere dello
STATO NAZIONALE, che si esercita nel modo
più uniforme possibile in tutte le porzioni di spazio controllate.
Questa geometrizzazione dell’appartenenza (si è sempre più chiaramente o
francesi o italiani, a seconda di dove cada il confine, ora; con margini sempre
più ridotti per appartenenze ibride) produce modifiche anche sulla concezione
di SOGGETTOe
INDIVIDUO: come gli stati perdono la loro
permeabilità, anche i soggetti si fanno IN-DIVIDUI, vale a dire compatti
e separati, (in-dividuo in greco è a-tomo). Questa concezione del
soggetto è in gran parte nuova, e abbiamo accennato a MARYLIN STRATHERN,
antropologa britannica che ha lavorato in Melanesia, e che parla di “dividuo”
per intendere proprio un soggetto la cui identità non è ristretta nel suo
proprio corpo, ma è sentita come condivisa tra più soggetti, in
particolare quelli collegati attraverso forme sentite come naturali di
appartenenza, come “la parentela” (tema su cui avremo molto modo di
tornare nelle prossime lezioni).
Così attorno all’idea di modernità si
coagula una nuova concezione del potere statale, della psicologia dell’individuo,
del mercato come spazio autoregolato gestito da attori anonimi: la filosofia
politica, la sociologia, la psicologia e l’economia
nascono proprio per fare i conti con questo mutamento attivato dal
passaggio nella modernità.
Vista alla luce della modernità, nell’Ottocento
progressivo e in espansione tecnologica e militare, la diversità culturale
umana appare come disporsi lungo un’unica SCALA EVOLUTIVA,
con il nord bianco posto nel presente e tutte le altre culture, verso Est e
verso Sud sempre più relegate in un altrove spaziale che diventa un PRECEDENTE
CRONOLOGICO, come se i nostri contemporanei, nella misura in cui erano
percepiti come diversi, fossero anche “antecedenti” cronologicamente, residui
di un passato “barbaro” o “primitivo”. Quindi, mentre tutto il
mondo si muoveva (nella concezione ideologica della modernità che stiamo analizzando)
verso un futuro dominato dalla “civiltà Occidentale” che prima di tutte
stava affrontando la crisi della modernizzazione, bisognava capire che farsene
di quelli “rimasti indietro”, nelle campagne non urbanizzate,
nelle colonie ovviamente “arretrate” e nel mondo “primitivo” ancora
sconosciuto.
In questo senso l’antropologia nasce come
scienza del RESIDUALE.
Sul piano metodologico, l’antropologia nasce
come figlia naturale del Positivismo ottocentesco, convinta che il
lavoro primario sia quello di produrre una documentazione adeguata di
mondi (rurali o esotici) segnati dal destino dell’estinzione, che vanno
quindi recuperati o almeno registrati per quanto possibile, prima che sia troppo
tardi.
[MINUTO
19.30] Per descrivere questo mondo arcaico o primitivo, si
usa il PRESENTE STORICO perché non sono considerati soggetti storici, ma
ancora naturali. JOHANNES FABIAN, Il tempo e gli altri (1983).
La crisi epistemologica di questa
visione empirica si condensa nel passaggio progressivo dell’attenzione dell’antropologia
dalle CAUSE ai SIGNIFICATIrispetto ai fenomeni studiati.
BRONISLAW MALINOWSKI
aveva descritto questo punto insistendo sul fatto che l’antropologia studia le
cose “dal punto di vista dei nativi”, non indaga cioè quali siano i
criteri universali di bellezza femminile, ma cerca di capire cosa significhi il
concetto di Ochobo per i giapponesi.
[MINUTO
27:27] La crisi epistemologica che induce a ripensare
l’oggettiva datità del mondo, ora visto sempre più nitidamente come una rete
di significati da districare con pazienza e umiltà, si accompagna nel secondo
dopoguerra anche a una crisi politica fortissima: la tragedia degli
stermini di massa, le sacrosante lotte per l’indipendenza di molte colonie e il
ripensamento delle gerarchie sociali e di genere dentro le culture Occidentali
impongono un cambiamento radicale (nel doppio senso di fondamentale, ma
anche profondamente antagonistico) dei modi canonici di condurre la
ricerca sociale.
Si contesta il canone del sapere ricevuto,
si ipotizzano MODERNITÀ MULTIPLE, vale a
dire percorsi peculiari verso la modernità, che non seguono necessariamente il
modello della secolarizzazione+libero mercato+democrazia parlamentare,
ma che trovano, ad esempio anche sbocchi nel FONDAMENTALISMO
come esito paradossale di un percorso alternativo verso la modernità.
[MINUTO
30:55] A questa crisi che è epistemologica
(cosa crediamo di sapere), metodologica (come
possiamo arrivarci) e politica (che cosa ci facciamo
con quel sapere) l’antropologia risponde in vari modi, ma soprattutto comprende
che il suo ruolo non è necessariamente relegato ai margini della modernità. L’antropologia
diventa così lo studio della costruzione simbolica dei sistemi di
valore, e diventa ad esempio antropologia URBANAe DELLA CONTEMPORANEITÀ.
Nei saggi di FABIO DEI e UGO
FABIETTI che abbiamo aggiunto nelle letture (file 007 e 008) si parla di
questo mutamento del metodo e del senso profondo della nostra disciplina.
[MINUTO
37:55] Un rapido accenno alla DIFFERENZA tra FILOSOFIAe ANTROPOLOGIA, partendo dalla sintesi che ne ha
dato TIM INGOLD: L’antropologia è filosofia con la gente dentro.
[MINUTO
44:20] iniziamo davvero ad affrontare la questione centrale
di questa lezione, cioè quanto e in che senso la cultura sia condivisa.
L’abbiamo fatto partendo da uno spezzone di un documentario che ho realizzato
anni fa (con la regia dell’allora mio studente Federico Gnemmi, che ha
fatto la sua tesi realizzando questo video). Si vede una anziana signora trasteverina
che racconta quando il suo quartiere sia cambiato.
Questo video iniziale (spero prima o poi di
poterlo montare online in qualche modo) ci consente di introdurre proprio la questione
dell’appartenenza e della compresenza della diversità, confrontando la
vita della signora Giuliana con quella di suo nipote ventenne e con quella di
una ipotetica signora ucraina che fa la badante in una casa dello stesso
quartiere: quale vita somiglia più a quale altra? La comune appartenenza
nazionale e addirittura un legame diretto di parentela sono garanzie di
somiglianza tra le persone? Viceversa, la diversità di nazionalità è una condizione
sufficiente per ipotizzare senza verifiche una differenza abissale tra due
persone?
Il modo in cui ci aggreghiamo, in
cui ci sentiamo parte di un gruppo, sono le più varie e non è facile stabilire
a priori quali siano le variabili che ci fanno sentire parte di quel
gruppo. In questo video, l’identità
collettiva, cioè il senso di condivisione, è ben raffigurata nella
sua complessità, e comprendiamo che non dovrebbe essere ridotta a una o due
variabili, ma dovrebbe essere compresa nella sua costante mutevolezza.
Noi tendiamo a pensare “spontaneamente” (in
realtà dipende da due fattori determinanti) che tutte le culture
si possano suddividere in modo che tutti i membri di una specifica
cultura siano nettamente distinti da tutti i membri di qualunque
altra cultura, e che tra loro non vi siano sovrapposizioni.
In realtà, questa fantasia del CONFINE NETTO tra noi e loro dipende proprio dalla
necessità di dare solidità cognitiva al mondo che ci circonda, e uno dei mezzi
più efficaci che la cultura ha trovato per fare questo (non ti preoccupare,
il mondo è proprio così, come lo vedi “naturalmente”, e soprattutto è sempre
stato così, per noi) è insistere sul concetto di TRADIZIONE, sull’idea cioè che quel modo di essere o fare è radicato
nella profondità storica e la sua origine si perde nella notte dei
tempi.
In verità, sappiamo che questa dimensione tradizionale
ha sempre una componente ideologica, è insomma anche una costruzione,
volta proprio a garantire valore morale e psicologico per quelle cose
tradizionali. Esempi [MINUTO
58:40] del tè inglese, della pasta col pomodoro italiana e della nduja
calabrese. Riferimento a ERIC HOBSBAWM e TERENCE RANGER, L’invenzione
della tradizione, un libro del 1983 anche criticabile e criticato, ma
comunque un testo che ha costretto tutti a riflettere in modo nuovo sul concetto
di TRADIZIONE, non più concepita come una pratica dotata necessariamente
di una profondità storica, ma piuttosto una pratica socialmente condivisa che è
stata assunta come tale, vale a dire come propria del gruppo che
la pratica anche se la sua introduzione può essere relativamente recente.
[MINUTO
1:10:20] Questi processi di patrimonializzazione,
di riconoscimento di tradizioni, sono essenziali per individuare le appartenenze,
che non sono incluse una nell’altra come scatole cinesi, ma si incrociano
a diversi livelli. Dobbiamo insomma sempre avere chiarezza del fatto che l’identità
è sempre la risultante di un incrocio tra IDENTIFICAZIONEINTERNA, cioè il modo in cui definiamo noi
stessi, e la CATEGORIZZAZIONEESTERNA(cioè il modo in cui classifichiamo “gli
altri”).
[MINUTO
1:16:50] questo ci deve rendere consapevoli che
quando diciamo che “la cultura è condivisa” stiamo dicendo una cosa molto complicata
dal punto di vista oggettivo, dato che la condivisione è sempre dipendente
dall’interrelazione, da quanto cioè le persone che “da fuori”
categorizziamo come appartenenti allo stesso gruppo (“gli extracomunitari”) al
loro interno possono essere i portatori di una complicatissima varietà
che non si riconosce affatto nell’etichetta che noi abbiamo dato loro. I gruppi
culturali e anche le culture in generale sono flussi magmatici che si
muovono nel tempo e nello spazio, e che in determinati tempi e
determinati luoghi noi tendiamo a vedere come statiche, come se
facessimo una fotografia di una fiume in movimento e poi chiamassimo quell’onda
la cultura X e quell’altra la cultura Y.
[MINUTO
1:23:55] Vi è quindi una tendenza generale a SOVRASTIMARE
LA CONDIVISIONE CULTURALE, ci viene facile pensare che gli italiani siano mediamente
molto diversi dagli ucraini e che quindi, prendendo un italiano a caso (la
signora Giuliana) e un ucraino a caso (la badante di Trastevere) ci troveremo
di fronte a differenze comunque maggiori che non tra due italiani o due
ucraini qualunque. Questa sovrastima, come anticipavamo all’inizio, dipende da due
fattori:
1.Il primo è già stato indicato ed è proprio
la nostra necessità di affidarci, in quanto animali culturali, a schemi
e filtri che ci consentano di ridurre in formato maneggevole le troppe sollecitazioni
cognitive del mondo in cui siamo immersi. Non possiamo tener conto di tutto,
tracciare tutto, cercare di capire tutto, e quindi necessariamente tagliamo fuori
dal nostro interesse quel che non ci pare consono, adeguato, “normale”, oppure
lo etichettiamo come pericoloso, ponendolo in rilievo. L’evitazione
produce quindi la tendenza a marcare enfaticamente dal punto di vista
cognitivo ciò che è diverso, per produrre specularmente una sorta di ottundimento
cognitivo, con cui diamo per assodato che attorno a noi le “solite” percezioni
siano sempre più o meno le stesse, e quindi sottovalutiamo percettivamente
e cognitivamente differenze che altrimenti dovremmo riconoscere.
2.Il secondo motivo è invece di ordine politico:
negli ultimi duecento anni sempre più umani sono cresciuti dentro lo spazio
dello stato nazionale dato come scontato, e lo spazio nazionale, per
ragioni che non possiamo riassumere in questa lezione ma che abbiamo affrontato
nel saggio inedito Dal punto di
vista dei nazionalisti, è uno spazio sociale che pretende l’uniformità
interna, e quando (come sempre) non la trova, semplicemente inizia a lavorare
(in un processo di costruzione della nazione) per produrla, un tema importante su
cui spero potremo tornare in una sintesi video che conto di pubblicare a breve,
una bonus track per questa lezione.
Visto che questa lezione avrebbe dovuto
essere sul motivo per cui durante queste prime lezioni non ho presentato quasi
mai esempi “esotici” e ho invece fatto soprattutto riferimenti alla “nostra”
cultura, ho rapidamente introdotto la questione storica che ha fatto sì che
l’antropologia culturale OGGI è prima di tutto la scienza della dimensione
simbolica del reale sociale, mentre è nata in realtà con tutt’altro fine, vale
a dire come lo spazio di riflessione sul residuale della modernità. Le
scienze sociali in effetti sono nate nel corso dell’800 per affrontare il
grande tema della MODERNITÀ, con i
problemi connessi dell’urbanizzazione, della secolarizzazione,
dell’anomia, e in generale della frammentazione della cultura TRADIZIONALE.
L’antropologia, come scienza minore, inizia dunque a occuparsi di quel che è RESIDUALErispetto
a questo cammino della modernità, vale a dire la cultura RURALEe le culture
PRIMITIVE. Ma riprenderemo questo tema
nella prossima lezione.
[MINUTO
05:00] Anche se finora ho raccontato più che altro
un’antropologia dedita allo studio della “nostra” cultura, per non dimenticarci
da dove viene l’antropologia e perché vale la pena di apprezzarne l’archivio, abbiamo
di fatto aperto la lazione traducendo [MINUTO 07:00] qualche battuta di un’intervista che MARSHALL
SAHLINS (1930-2021) ha rilasciato a un suo giovane allievo, in cui
riprendeva un suo saggio degli anni 80 (Raw Women, Cooked Men and Other
“Great Things” From Fiji, «Le Débat», 19, 2, 1982, pp. 121-145) e ricostruiva
le strane parole di un vecchio capo delle isole Fiji, raccolte da un
antropologo negli anni Venti del Novecento. Il capo voleva offrire un dono ai
suoi maestri d’ascia per la superba canoa doppia che gli avevano costruito, e se
ne uscì con queste parole: “Nei bei tempi antichi, vi avrei ringraziato donandovi
un uomo cotto o una donna cruda, ma ora il Cristianesimo ha rovinato
tutto!”. Sahlins spiega che, se si passa abbastanza tempo in quelle isole, si
capisce che l’uomo cotto è la vittima sacrificale di un rituale cannibalico, e
ha la funzione, in quanto dono agli dei, di favorire la fertilità di chi
lo mangiava. Con “donna cruda”, invece, il capo intendeva la figlia vergine di
un capo, che parimenti era molto efficace nel consentire al gruppo che l’acquisiva
di riprodursi nel tempo con i frutti del suo ventre. Uomo cotto e donna
cruda, dunque, significano in entrambi i casi un dono che, in modo diretto
(donna) o indiretto (uomo) consente a chi lo riceve di investire sul proprio futuro
come gruppo che continuerà a riprodursi.
Sahlins dice che esempi come questo sono
la prova che il mondo degli antropologi e quello dei fisici sembrano
funzionare in direzioni opposte: un fisico parte dall’ovvietà delle percezioni
sensoriali (un tavolo che suona pieno sotto le dita) per arrivare a
scoprire che invece c’è un sacco di vuoto tra nucleo e elettroni e addirittura,
su scala quantistica, a farsi una rappresentazione del mondo del tutto incomprensibile
per il senso comune, mentre l’antropologia fa la strada opposta: parte
da una stranezza incomprensibile (uomini cotti e donne crude) per
arrivare lentamente a renderla sensata ricostruendone il contesto
culturale di occorrenza.
[MINUTO
15:10] L’acqua benedetta e l’acqua di rubinetto sono
indistinguibili per un chimico o un fisico, ma per un antropologo, che cerca di
ricostruire come vedono le cose “gli altri”, sono ben diverse. Si può dire che
il senso dell’antropologia stia tutto qui, nell’imparare a distinguere l’acqua
benedetta che ogni cultura produce,
[MINUTO
17:08], visto che a Tor Vergata non c’è più
nessuno che insegni SEMIOTICA, dobbiamo toccare un poco la questione del
SEGNO, e come si incrocia in profondità
con quella di CULTURA.
Abbiamo distinto un SEGNO GENERICO
o Segno1(qualcosa
che sta al posto di qualcos’altro da qualche punto di vista) da un SEGNO IN
SENSO STRETTO o Segno2(che invece è la correlazione univoca tra un SIGNIFICANTEe un
SOLO SIGNIFICATO). Il Segno2 si oppone al
SIMBOLO(che
è invece costituito da un significante che può assumere molteplici
significati). La distinzione tra Segno2 e Simbolo si dispone lungo un continuo,
con il che si intende che i segni ordinari non sono né Segno2 perfetto, né Simbolo
perfetto, ma qualcosa a metà. Mentre i linguaggi formali (come quello
della matematica) utilizzano solo Segni2 (il segno ≠
significa una cosa sola “diverso da”) il linguaggio religioso o politico
utilizza simboli molto ampli (la croce per il cristianesimo, per esempio, o il
segno “democrazia” per la politica).
Fatta questa premessa, per i nostri scopi
introduttivi parleremo solo di Segni in senso generico, e
[MINUTO
23:58] Distinguiamo in modo tecnico tra SIGNIFICANTEe SIGNIFICATO. Il primo è semplice: si tratta della componente
materiale del segno, del suo supporto fisico. Non siamo angeli, e siamo
dunque costretti a comunicare facendo trasportare i significati da mezzi fisici:
le onde sonore, il gesso, l’inchiostro, ma anche il metallo di un anello, o i petali
di un fiore, se il fiore è un dono. Oppure il movimento del corpo in un passo
di danza.
Il SIGNIFICATOinvece è più complicato da spiegare. Diciamo che per
molti secoli è prevalsa una TEORIA REFERENZIALEdel significato, che dice che il significato è
costituito dal referente materiale o dall’immagine mentale del
segno, ma questo modello teorico può funzionare molto bene per la comunicazione
animale (che in effetti, come abbiamo visto, è sostanzialmente referenziale: guarda,
lì ci sono banane, andiamo! Oppure: guarda, lì c’è un leone, scappiamo!) mentre
è una teoria incompleta se riferita al linguaggio umano, che molto
spesso non è affatto referenziale, ma tratta di concetti come “Ochobo”, che non
hanno alcun referente materiale immediato, oppure di connettivi come “quindi”, “oppure”,
che non producono alcuna immagine mentale, o di concetti/simboli troppo
complessi per poter essere indicati (guarda, la “democrazia”, andiamo a
prenderla! Oh, ecco la “violenza”, scappiamo!)
Così, la riflessione filosofica e
linguistica dell’ultimo secolo ha elaborato (abbiamo ancora nominato LUDWIG
WITTGENSTEIN[1889-1951]) una TEORIA DELL’USO,
per cui il significato di un segno dipende interamente dall’uso che se ne fa
entro quella comunità linguistico-culturale. Il significato è quindi costituito
dall’insieme degli script, delle potenziali sceneggiature entro
cui potrei usare quel segno.
[MINUTO
40:50] questa teoria dell’uso possiede una qualità
interessante: ogni segno, dunque, è collegato ad altri segni che lo “definiscono”,
che costituiscono il quadro dei suoi script, delle cose che si possono dire con
quel segno. Così si comincia a vedere la “rete di significati” di cui
parlava MAX WEBER: ogni cultura tesse attorno a noi una rete complicata
di segni interrelati in QUEL MODO SPECIFICO, e il lavoro dell’antropologia
è proprio la ricostruzione di “altre” reti di segni prodotte fuori dalla
rete ordinaria cui l’antropologa sente di appartenere.
In realtà, non ci sono due reti
individuali di segni che si sovrappongano perfettamente, ma chiamiamo “culture”
quei raggruppamenti che prevedono almeno alcune sovrapposizioni parziali,
nel continuo semiotico del sociale. Come dice RALPH DANTO, “la diversità
inizia lì dove finisce la mia pelle” e questa tensione costante tra la rete di
significato in cui noi siamo individualmente immersi e qualunque altra rete di
significato, una volta assunta a oggetto specifico di analisi, costituisce il fondamento
della ricerca antropologica. In un certo senso, quando comunichiamo stiamo
sempre, misteriosamente, condividendo le nostre reti di significato, ma il
lavoro dell’antropologia è la presa in carico ESPLICITA e CONSAPEVOLE
di questo lavoro, che altrimenti e comunemente facciamo subconsciamente,
vivendo la nostra vita ordinaria.
L’antropologa al lavoro sa invece che la
sua rete di segni è molto, molto distante dalla rete di segni delle persone
con cui interloquisce, e il suo lavoro consiste proprio nel ricostruirne
almeno qualche porzione ragionevole.
[MINUTO
52:57] Come si organizza, dunque, questa rete dentro
le specifiche culture? Il passaggio importante è la costruzione di CATEGORIE
CULTURALI. Come qualunque altro animale, siamo in grado di accorpare una parte
rilevante degli stimoli sensoriali in categorie naturali, (SCATOLE, le
chiama ROBERT SAPOLSKY) o TIPI, che ci consentono un ragionevole
posizionamento di noi stessi nel mondo. Ma come umani, proprio perché abbiamo
iniziato molto tempo fa (prima di diventare umani, in realtà) ad affidarci all’apprendimento
e quindi a contare sempre meno sulla trasmissione biologica anche di categorie
innate, abbiamo un bisogno disperato di CATEGORIE APPRESE, che
ovviamente verranno apprese secondo lo STILE COGNITIVO di ciascuna
cultura. Il video del bambino che “non
riesce” a categorizzare alcune figurine è piuttosto interessante (oltre che
buffo).
Di seguito [MINUTO 1:02:00], abbiamo visto un rapidissimo video in cui si spiega
proprio la distinzione tra TIPOe OCCORRENZA(TYPEe TOKEN, in
inglese)
[MINUTO
1:06:30] un rapido accenno al lavoro di DOUGLAS
HOFSTADTER, Gödel, Escher, Bach: un'eterna ghirlanda brillante, un
libro del 1979 in cui molti di questi temi su come avvenga la categorizzazione
e come gli umani facciano uso del loro dispositivo simbolico e in generale cosa
sia il SIGNIFICATO e cosa intendiamo per COMUNICAZIONE. Di
seguito, abbiamo accennato anche al libro di GEORGE LAKOFF, e MARK
JOHNSON, Metafora e vita quotidiana, in cui il rapporto tra concezione
referenziale e simbolica del linguaggio è indagato con spirito antropologico,
partendo dall’importantissima nozione di METAFORA.
Se non avessimo queste categorie, saremmo
ridotti come Funes,
il personaggio di JORGE LUIS BORGES che non dimenticava nulla e che era
costretto a sottrarsi alla vita, per non affastellare nel suo animo ulteriori
ricordi di singoli Tokens privi di qualunque Type dove
collocarli. Il grande neuroscienziato russo ALEKASDR LURIJA (1902-1977) nel
1968 aveva pubblicato uno studio su un uomo che davvero “non
dimenticava nulla”.
[MINUTO
1:13:15] Questi casi patologici, di memorie che
non hanno Tipi e che collezionano Occorrenze singole, ci spingono a riflettere
sui meccanismi che negli umani, oltre la scarna disposizione biologica, ci consentono
di elaborare CATEGORIE, MODELLI e SCHEMI DI AZIONE. Abbiamo
già detto gli animali possono basarsi su schemi di “coordinazione motoria
ereditaria” o, in inglese “FIXED ACTION PATTERNS”,
vale a dire che in moltissimi contesti gli animali “sanno già” come comportarsi.
Di fronte all’odore di un felino un topo attiva istintivamente un movimento del
corpo all’indietro, e di fronte a una montagna di sterco alcuni scarabei sanno
perfettamente come arrotolarne una pallina. Gli umani sono invece molto carenti
su questo piano (proprio perché, abbiamo visto, a un certo punto della loro
evoluzione animale hanno iniziato ad affidarsi sempre più a schemi esterni,
a modelli appresi, vale a dire alla cultura) e quindi hanno la necessità
di trovare da qualche parte questi “pacchetti di azione” (che implica
anche il giudizio, dato che anche il pensiero è una forma di
azione). Questi modelli di azione APPRESI possono essere sintetizzati
nella parola RITO. Gli uomini si creano
questi pacchetti predisposti, che trasmettono e incorporano. Abbiamo
quindi letto un passo da DANIEL A. BELL che racconta come nel testo
cinese XUNZI del Terzo secolo P.E.C. il rituale sia descritto
come un sistema che consente di superare la nostra condizione animale: “Il
principale scopo del rituale è quello di civilizzare la nostra natura
animale”.
Abbiamo accennato quindi al concetto di ANTROPOIESI,
elaborato da FRANCESCO REMOTTI per indicare proprio quella pratica
tipicamente umana di produzione dell’umanità secondo modelli condivisi
socialmente.
Se non avessimo questi modelli appresi di
azione, saremmo o totalmente imbelli o in balia del mondo e delle sue
attrattive, un po’ come Gurdulù Omobono, lo scudiero del Cavaliere
inesistente di ITALO CALVINO, che si identificava totalmente con le
cose del mondo con cui interagiva, senza avere più alcun confine indentitario.