2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

venerdì 29 ottobre 2021

Mortacci nostra, ancora: ARTE, CIBO, MAGONI, RISATE

 


L'anno scorso il 31 ottobre è stato un momento molto triste, c'eravamo già organizzati con il LaPE per la terza edizione di Mortacci nostra, ma poi la seconda edizione della pandemia ci ha costretti a bloccare tutto. Ho fatto comunque un collegamento online, una sorta di incontro tra spiriti poco eletti e molto elettrici, siamo stati bene stando un poco male, raccontandoci i motivi e le persone per cui eravamo lì, a guardarci nei pixel truccati da zombie...

Ma quest'anno invece ce la facciamo ad essere in presenza, e torniamo al PEF - Polo Ex Fienile di Torbellamonaca più macabri e felici che mai. Come ormai è tradizione, ci saranno racconti e poesie, cibo, risate e forse anche spazio per qualche lacrima.

Il fuoco, simbolo primigenio e fonte energetica, ci terrà uniti attorno alla pecora allo spiedo gestita da Franko e i suoi fidi paladini, poco più in là la porchetta calla calla sazierà sotto le mani esperte dei fienili norcini i dannati carnivori (tranquilli, faremo anche un po' di verdure alla griglia per i vegetariani), e poco più oltre sobbollirà appena appena una paella sopraffina grazie all'aiuto di Dzemila. Ma molti porteranno cibo di loro, immagino si saranno pietanze da molti paesi, con molti sapori, adatti per tutte le bocche e tutte le religioni.

Chi Come Noi, con Carlo, Mauro e QuattroFragole, ci racconterà dei rituali del carcere, la Santa Suerte, la vita oltre il limite, e ci faranno leggere qualche pagina dal libro di Mauro. Er Thenda ci farà la lapide in diretta, e potrete portavene via pure una stampata, quest'anno.  Daniele Casolino e Chiara Cappelli proporranno brani da ‘Renato Morto’ di Alessia Giovanna Matrisciano. Il fuoco, assolta la sua funzione gastronomica, riprenderà quell'altra sua, la conviviale, e ci terrà al caldo mentre raccontiamo le nostre storie, beviamo i nostri intrugli, condividiamo poesie, pensieri effimeri o pesantissimi.

Finiremo con un rituale che abbiamo già fatto in altre edizioni: chi vuole, potrà scrivere un biglietto per una persona cara che non c'è più, e lanciarlo nel fuoco (dopo averlo letto, se vuole, o silenziosamente, se preferisce) per farlo arrivare a destinazione.

Ingresso totalmente libero, salvo il greenpass da portare con sé per accedere agli spazi del Fienile, cibo da condividere, magoni da sciogliere, risate da condividere.

Vi aspettiamo romani di tutte le razze e di tutte le età, donne, uomini, e cantanti.

Per noi sarà ricevere un regalo, potervi conoscere e poter conoscere i vostri cari.

DOMENICA 31 OTTOBRE DALLE ORE 17 FINO A MEZZANOTTE - POLO EX FIENILE, LARGO MENGARONI 29 - TORBELLAMONACA - ROMA

giovedì 28 ottobre 2021

TESISTI CERCASI

 Se ci sono studenti o studentesse di Tor Vergata interessati /e a laurearsi con una tesi di Antropologia culturale sul PEF - POLO EX FIENILE di Torbellamonaca e le sue attività, in particolare su come il PEF ha saputo reagire alla pandemia, sappiano che la Regione Lazio mette a disposizione due borse di 2000 euro ciascuna e io sarei disposto a fare da relatore per tesi su questo tema. La scadenza per la domanda di partecipazione è il 26 novembre 2021. La discussione deve avvenire entro l'a.a. 2021/2022.

A questo link trovate tutte le informazioni. Chi fosse interessato mi contatti via mail

https://volontariatolazio.it/bando-per-2-borse-di-ricerca-per-tesi-su-volontariato-e-terzo-settore/

Bando per 2 borse di ricerca per tesi su volontariato e terzo settore – Scade il 26/11/21 – CSV Lazio
VOLONTARIATOLAZIO.IT
Bando per 2 borse di ricerca per tesi su volontariato e terzo settore – Scade il 26/11/21 – CSV Lazio
Bando per 2 borse di ricerca per tesi su volontariato e terzo settore – Scade il 26/11/21 Irene2021-10-26T13:53:14+00:00 Il Centro studi, ricerca e documentazione sul volontariato e terzo settore, in attuazione al Programma di attività 2021 del CSV Lazio propone la prima edizione del Bando per du...

mercoledì 27 ottobre 2021

PENSARE IN GRANDE: GLOBALIZZAZIONE E IMMAGINAZIONE (Lezione 09 registrata il 22 10 2021)

 


I significati sono costruzioni LOCALI. Le culture sono tentativi di creare un senso di adeguatezza per le pratiche e le azioni che si costruiscono nel nostro INTORNO, vale a dire nello spazio ordinario che ci circonda. Questo spazio sembra alquanto statico dal nostro punto di vista quotidiano, o almeno così ci è apparso tenuto conto che il mutamento sociale avviene per frazioni millesimali, per variazioni minuscole che il più delle volte apprezziamo solo in parte, e solo quando diventano appariscenti per accumulo o per frattura subitanea.

[MINUTO 05:33] Che cosa succede quando il movimento degli elementi culturali acquisisce una velocità e una distanza tale da renderlo perfettamente percepibile? Ecco, questo è quel che chiamiamo GLOBALIZZAZIONE dal punto di vista CULTURALE. La cultura è quello che tu sai “lì, in quel momento”. Cosa succede dunque quando quel lì e quel momento sembrano potersi espandere, stirare e sovrapporsi con altri “lì” e altre “contemporaneità”?

[MINUTO 06:55] Ripartiamo dall’IMMAGINAZIONE. Una volta che abbiamo sviluppato il nostro cervello nell’interazione con l’ambiente rendendolo uno strumento di pensiero, e quindi, dicevamo, di IMMAGINAZIONE, quali sono le SORGENTI di quell’immaginazione? Sono sostanzialmente due: il nostro SISTEMA PERCETTIVO, e la nostra capacità di RAPPRESENTAZIONE: la differenza sostanziale tra avere un terribile mal di testa, percepirlo direttamente; e invece farsi un’idea del fatto che qualcuno ha un terribile mal di testa. La rappresentazione è la messa in scena di qualcosa che non necessariamente abbiamo percepito direttamente o sperimentato personalmente.

[MINUTO 15:00] Mentre il nostro sistema percettivo è rimasto sostanzialmente inalterato negli ultimi 150mila anni (da quando la nostra specie homo sapiens si è consolidata), il nostro dispositivo di rappresentazione ha subito invece alcune trasformazioni radicali nelle ultime migliaia di anni, in particolare negli ultimi cinquemila anni o poco più, se diamo per compiuta la “rivoluzione cognitiva” circa 50-70mila anni fa. Attorno a 3000 PEC infatti si formano i primi sistemi di SCRITTURA, che è una tecnologia che cambia le regole del gioco della genesi delle rappresentazioni, che fino ad allora erano prodotte dalla mente di ciascuno oppure prodotte nell’interazione diretta con altri, che “raccontavano storie”. Con la scrittura si può superare la SINCRONIA della comunicazione, liberando la rappresentazione dall’hic et nunc della performance comunicativa. JACK GOODY, L’addomesticamento del pensiero selvaggio racconta proprio le conseguenze cognitive e culturali dell’acquisizione della scrittura (con un rapido accenno al Pensiero selvaggio di CLAUDE LÉVI-STRAUSS).

La scrittura, dunque, produce una mutazione profonda nel nostro sistema categoriale, nel nostro sistema di rappresentazione del reale e in generale nel nostro modo di pensare (e quindi di agire). Ma è con la STAMPA A CARATTERI MOBILI [MINUTO 32:10] che la scrittura diventa un bene disponibile generalmente, non limitato a una ristretta casta di specialisti, e può davvero creare masse popolari in grado di elaborare forme di rappresentazione inimmaginate (e soprattutto inimmaginabili) di sé stesse come masse, oltre che rappresentazioni del mondo. Si cominciano a produrre, con il CAPITALISMO A STAMPA, comunità immaginate sempre più ampie, che condividono, grazie alla scrittura, sistemi sempre più complessi e articolati di immaginazioni strutturate.

[MINUTO 40:24] Il passo successivo si attiva a partire dall’Ottocento, con l’introduzione della chimica, dell’elettricità e, appena possibile, dell’ELETTRONICA nel sistema della comunicazione: fotografia, telegrafo, cinematografo, fonografo, radio, televisione e interconnessione dati, in un crescendo esplosivo di fonti di rappresentazione sempre più parcellizzate, e progressivamente privatizzate o privatizzabili. Il salto della comunicazione elettronica è comparabile a quello della stampa a caratteri mobili:

scrittura manuale : capitalismo stampa = capitalismo a stampa : rivoluzione elettronica

 Questo per dire che, ANCHE dal punto di vista culturale, il salto che stiamo vivendo da qualche decennio è comparabile a quello che i nostri antenati hanno vissuto con l’introduzione della stampa a caratteri mobili.

In realtà, [MINUTO: 41:36] dobbiamo chiarire che c’è stato un passaggio forte, dentro questa ultima fase, dal periodo in cui il quasi MONOPOLIO dell’IMMAGINARIO era detenuto dagli stati nazionali al periodo più vicino a oggi, in cui invece lo stato nazionale ha perso questa prerogativa di controllo dell’immaginario collettivo e si è fatto affiancare da molti altri soggetti attivi (televisioni private su scala locale o nazionale, network o corporazioni transnazionali, produttori di contenuti divenuti distributori, come Disney, grandi player di Internet ormai di fatto broadcaster come Apple, Google, Amazon, e tutti i broadcaster internet come Netflix, cui si aggiungono i miliardi di utenti singoli che con le loro pagine personali, i blog e poi i social) che hanno reso l’elaborazione delle identità, personali e collettive, sempre più un gioco di corrispondenze, di scelte, di apparenti opzioni.

Per quelli della mia generazione, è ancora vividissimo il ricordo in cui lo stato nazionale (attraverso le sue agenzie culturali come la Rai, o comunque attraverso la disposizione monolinguistica in cui è stata gestita l’informazione per decenni anche da soggetti privati come gli editori di giornali, riviste e libri) poteva esercitare un’influenza molto forte ma anche molto discreta, per cui Mikey Mouse era Topolino, Popeye era Braccio di Ferro, e Charlie Brown per merenda mangiava panini con la marronata, perché non avevamo idea di cosa fosse il burro d’arachidi e toccava tradurlo in qualcosa di comprensibile, come il Grande Cocomero di Linus (che era in verità una Grande Zucca…). Tutto, letteralmente tutto veniva addomesticato, ricondotto a orizzonti consueti o comunque abbordabili.

Con la globalizzazione, la sorgente dell’immaginazione si scollega sempre più da un hic riconoscibile (la Londra della BBC, per esempio) e da un nunc condiviso (le audience oceaniche che vedevano tutte assieme lo stesso programma lo stesso momento) per frammentarsi in porzioni sempre più ridotte.

[MINUTO 50:30] Un antropologo che oltre trent’anni fa ha iniziato a porsi una serie di domande sistematiche sull’impatto di questo tipo di globalizzazione è ARJUN APPADURAI, di cui leggiamo il saggio Disgiuntura e differenza nell’economia culturale globale.

[MINUTO 57:00] Il concetto di passato come archivio sincronico della memoria è particolarmente utile e nel resto della lezione ho cercato proprio di dimostrare questo strano sentimento, la NOSTALGIA DA TAVOLINO come stato d’animo diffuso che prende la forma di una nostalgia per un passato che non abbiamo mai vissuto personalmente ma che possiamo suscitare in noi grazie all’esposizione mediatica a quel tipo di iconografia, di forma di rappresentazione prodotta altrove e fatta circolare insistentemente in contesti che non l’hanno originariamente prodotta.

[MINUTO 1:00:40] Il caso brevemente raccontato da Appadurai del karaoke filippino ci consente di capire dal vivo lo scollamento tra memoria, località e storia, per cui il passato di qualcuno (poniamo, i crooner americani degli anni 50) può essere attualizzato come il presente di qualcun altro (i giovani filippini degli anni Novanta), e il loro futuro potrebbe essere il passato di qualcun altro ancora (forse qualche artista coreano in ascesa?). Di chi è il passato? C’è un sovvertimento delle cronologie ordinarie della modernità, che per esempio riguarda anche noi italiani. Il famoso pezzo di Un americano a Roma, con il giovane Alberto Sordi che sogna un’America che ha pochissimo di reale o realistico, ci ricorda che siamo tutti, da molto tempo, esposti a queste fluttuazioni dell’immaginario.

Ma dobbiamo stare attenti a non cedere alla facile teoria dell’imperialismo culturale, secondo cui la cultura subalterna subirebbe passivamente l’impatto della cultura egemone, dato che uno degli aspetti importanti evidenziati dalla ricerca è proprio il carattere sempre attivo della ricezione, vale a dire il fatto che nessuno si limita a incorporare quel che gli viene proposto, e neppure imposto, senza una rielaborazione che può andare in direzioni assai diverse dalle intenzioni dell’emittente (è questo un tema delicato, ma la semiotica, la sociologia e l’antropologia dei media se ne sono occupate con dovizia di dettagli).

[MINUTO 1:07:25] con un paio di esempi concreti tratti dalla storia politica americana e da quella italiana abbiamo visto quanto la pervasività dell’immaginario in movimento riesca a farci sentire vicini personaggi oggettivamente lontani dalle nostre vite, e magari poco noti personaggi che invece dovremmo sentire vicini se la storia e la memoria si muovessero davvero per cerchi concentrici attorno a noi. Ma la storia collettiva e la memoria individuale e familiare si muovono a balzi, spostandosi nello spazio e nel tempo.

Il punto è che le sorgenti dell’autorità dell’informazione si sono inaridite almeno nella loro ovvietà o scontatezza. E la globalizzazione si può interpretare anche come una crisi nelle reti canoniche di trasmissione del sapere.

[MINUTO 1:22:20] Con un video di un’ecografia in 3d ho raccontato quanto questa pervasività dell’immaginario visivo possa toccarci nell’intimo delle nostre relazioni personali, consentendoci di creare

[MINUTO 1:31:00] In questo finale abbiamo rapidamente accennato al concetto di base del saggio di Appadurai, vale a dire che lo sforzo delle società umane è stato per millenni quello di costituire delle ECUMENE sempre più ampie impiegando la guerra, il commercio e la religione come mezzi per questa finalità integrativa, dovendosi sempre scontrare però con la “forza di gravità culturale”, vale a dire con l’inerzia della LOCALITÀ intesa proprio come l’hic et nunc del culturale, che sempre ha frammentato quei tentativi di integrazione almeno planetaria, se non regionale.

Con la messa in movimento su scala planetaria di persone (ETNORAMA), tecnologie (TECNORAMA), soldi (FINANZIORAMA), immagini (MEDIORAMA) e idee/ideologie (IDEORAMA) abbiamo bisogno di pensare alla cultura non più come un oggetto statico, ma piuttosto come un incrocio di flussi sovrapposti e spesso discordanti.


domenica 24 ottobre 2021

ETNOCENTRISMO E DIVERSITÀ (Lezione 08 REGISTRATA IL 20 10 2021)

 


Nei primi minuti della lezione abbiamo anticipato quel che dovremo dire sul ruolo del NAZIONALISMO nell’intensificare la convinzione (per altro indotta proprio dal nostro rapporto cognitivo con il mondo, per via della forma peculiarmente incompleta del nostro cervello e della sua capacità di relazionarsi con il mondo) che la CULTURA È CONDIVISA. Abbiamo detto che riprenderò questo punto importante con una lettura extra, connessa proprio alla lezione 06 (CONDIVISA DE CHE? CULTURA, APPARTENENZA, DIFFERENZA) e che caricherò appena sarà pronta.

[MINUTO 05:46] Poi ho aggiunto un’ulteriore promessa, che cioè dovrò tornare sulla parte teorica del saggio di Geertz sulla THICK DESCRIPTION e proverò a trovare il tempo per discutere una lunga serie di slide che ho dedicato a quel saggio, così centrale per capire cosa sia diventata l’antropologia culturale come scienza del simbolico (dopo essere nata come scienza dell’altro e dell’altrove, una specie di scienza del primitivo e del rurale, come ricordate).

[MINUTO 07:50] Da questo punto inizia la presentazione del saggio Gli usi della diversità, un saggio molto importante che ho cercato di spiegare in dettaglio rispetto all’idea di fondo che lo sostiene, che è in sostanza che L’ETNOCENTRISMO non aiuta certo la convivenza, non HA ALCUNA LEGITTIMAZIONE MORALE e non è affatto un COMPORTAMENTO NATURALE. Dopo aver detto alcune cose sulla biografia di Geertz, parlo rapidamente [minuto 23:30] di un pezzo del mio blog in cui indirettamente mi sono trovato a citare questo saggio, in una polemica con ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, che in un suo editoriale sul Corriere della Sera del 20 gennaio 2020 aveva giustificato l’etnocentrismo (distinguendolo dal RAZZISMO) sulla base di un vecchio saggio di CLAUDE LÉVI-STRAUSS (il più influente antropologo del secondo dopoguerra) che proprio Geertz aveva criticato in questo saggio che stiamo per leggere. Ricopio qui di seguito una mia sintesi di molti anni fa, che so può essere utile per guidare la lettura (Faccio solo notare che i rimandi alle pagine si riferiscono all’edizione che qui commento e che non è la stessa, come impaginazione, di quella assegnata agli studenti e alle studentesse del corso, che dovranno semmai trovare le pagine corrispondenti nell’edizione a loro disposizione).

 

GUIDA ALLA LETTURA DI “GLI USI DELLA DIVERSITÀ”, DI CLIFFORD GEERTZ, [1994, IN R. BOROFSKY (ED.), ASSESSING CULTURAL ANTHROPOLOGY, MCGRAW-HILL, PP.454-467]

1) LE DUE STRADE DELL’ANTROPOLOGIA L’antropologia si è sempre mossa tra universalità e particolarità, tra generalizzazione e idiosincrasia: “strutture e archetipi” da un lato, “cavoli e re” dall’altro (71).

2) OMOGENEIZZAZIONE CULTURALE E LEGITTIMAZIONE DELL’ETNOCENTRISMO Oggi molto spesso vi viene paventato il rischio dell’omogeneizzazione culturale: finiti i cacciatori di teste, finiti i cannibali… Anche se questo di per sé non costituisce un problema per l’antropologia in quanto disciplina scientifica, G. nota che questa “attenuazione del contrasto culturale” (“softening of variety”) ha prodotto una legittimazione (spesso implicita) dell’etnocentrismo da parte di quegli stessi intellettuali (cioè antropologi e filosofi) che più di tutti avrebbero il compito di difenderci dalle sue grinfie [L’etnocentrismo è quell’atteggiamento in base al quale la cultura, le abitudini e i valori sono considerati dal soggetto che li possiede naturalmente e intrinsecamente superiori a quelli dei soggetti di altri culture: la “mia” cultura è giusta, la “loro” è sbagliata].

3) CLAUDE LÉVI-STRAUSS: L’ETNOCENTRISMO È UN PRESERVATIVO NECESSARIO Il primo esempio di questo atteggiamento è preso da Lévi-Strauss, che afferma: “per non dissolversi, [le culture] hanno bisogno che… sussista tra loro una certa impermeabilità” (p. 73). L’etnocentrismo avrebbe quindi almeno un aspetto positivo, nella misura in cui previene l’omogeneizzazione rendendo le culture relativamente impermeabili le une alle altre. L’etnocentrismo, questa prospettiva lévi-straussiana, è un preservativo che ci protegge dal virus della globalizzazione culturale. Dato che esiste il virus, i preservativi sono utili. “Sarebbe pertanto illusorio non soltanto pensare che l’umanità possa liberarsi del tutto dall’etnocentrismo… se ciò accadesse, non sarebbe affatto una buona cosa” (p. 73). Poniamoci la seguente domanda: quale concezione della cultura è implicata da un simile apprezzamento dell’etnocentrismo?

4) IMPERMÉABILITÉ COME UNA VIA D’USCITA TRA RELATIVISMO E ASSOLUTISMO L’impermeabilità si rivela quindi, secondo Lévi-Strauss, un atteggiamento morale verso altre culture: mi tengo alla larga dalle altre forme culturali per non negare la mia propria, e soprattutto per non danneggiare la creatività insita nella mia cultura. Secondo Geertz, questa accettazione dell’etnocentrismo attraverso il distacco dall’altro è la conseguenza di uno stallo morale: “Non potendo abbracciare né il RELATIVISMO né l’ASSOLUTISMO – il primo perché inibisce la facoltà di giudizio, il secondo perché la rimuove dalla storia – i nostri filosofi, storici e scienziati sociali sembrano optare per quella sorta di imperméabilité dei noi-siamo-noi, voi-siete-voi raccomandata da Lévi-Strauss” (p. 75).

5) RICHARD RORTY: ABBIAMO BISOGNO DELL’ETNOCENTRISMO PERCHÉ ABBIAMO BISOGNO DI COESIONE SOCIALE E SOLIDARIETÀ DI COMUNITÀ La posizione del filosofo Rorty è leggermente differente, ma egualmente orientata a enfatizzare gli aspetti positivi dell’etnocentrismo. Rorty è un filosofo che unisce nella sua scrittura l’approccio ermeneutico (tedesco) e il pragmatismo (americano) [cfr. ad esempio il suo La filosofia e lo specchio della natura, del 1979]. Ha avuto un ruolo centrale nel diffondere un’idea di filosofia come genere letterario che rinuncia al compito di fondare la legittimazione della conoscenza e si accontenta di offrire una sponda intellettuale all’espressione di simpatia e solidarietà che i membri di una comunità hanno gli uni verso gli altri (Contingence, irony and solidarity, 1989). Questo sentimento nei confronti della propria comunità è completamente de-teorizzato e sottratto a qualunque implicazione di tipo universalistico (o, se è per questo, anche relativista). All’interno di questa struttura di solidarietà coi propri simili, le culture degli altri costituiscono nulla più che lo sfondo su cui si staglia “la dignità relativa di un gruppo… per effetto di contrasto, per via del confronto con altre, peggiori comunità” (cit. pp. 76-77). Insomma, la conoscenza dell’altro è utile nella misura in cui conferma la nostra superiorità.

6) DIFFERENZE TRA QUESTI DUE MODI DI LEGITTIMAZIONE DELL’ETNOCENTRISMO G. ha quindi presentato a chi legge due approcci all’etnocentrismo. Secondo il primo (antropologico e razionale), l’etnocentrismo è utile perché preserva l’integrità culturale, mentre per il secondo (filosofico e pragmatico) l’etnocentrismo rafforza il sentimento di appartenenza collettiva. Uno insiste sulle implicazioni intellettuali dell’etnocentrismo (se non ignoriamo l’altro, non possiamo salvare la nostra specificità intellettuale), l’altro su quelle emotive (abbiamo bisogno di disprezzare l’altro  per tenere unita la nostra comunità attraverso un senso di superiorità).

7) IL VERO PROBLEMA DELL’ETNOCENTRISMO: SOFFOCA L’IMMAGINAZIONE A questo punto Geertz espone il punto centrale della sua argomentazione: “vorrei dire che una facile resa ai comfort dell’essere semplicemente noi stessi, del coltivare la sordità e del rendere grazie per non essere nati tra i vandali o tra gli ik, sarebbe fatale per entrambe [le discipline, l’antropologia e la filosofia]” (p. 77).

Il vero problema dell’etnocentrismo non sta nel fatto – dice Geertz – che ci imprigionerebbe nelle credenze e nelle pratiche della nostra cultura e della nostra comunità (per definizione, siamo già intrappolati nella nostra rete semiotica, e non abbiamo certo bisogno dell’etnocentrismo a questo fine) ma piuttosto il fatto che soffoca la nostra capacità e la nostra voglia di immaginare (afferrare, com-prendere nel primo senso del termine) qualunque sensibilità che ci sia aliena: “…i problemi sollevati dal fatto della diversità culturale hanno a che fare più con la capacità di percepire alla nostra maniera sensibilità aliene, stili di vita che non ci appartengono… e che neppure ci apparterranno, che non con la possibilità di sfuggire al fatto che preferiamo quel che preferiamo” (p. 78).

8) RIFIUTARE L’ETNOCENTRISMO SIGNIFICA IN PRIMA ISTANZA RICONOSCERE LA DIVERSITÀ ALL’INTERNO DELLE NOSTRE SOCIETÀ Un’immediata conseguenza del prendere in considerazione questo aspetto sterilizzante (e non solo protettivo o contrastivo) dell’etnocentrismo è che si smette di pensare alle culture o alle comunità come se fossero unità indipendenti e dai confini nitidi. Se uno ha ancora voglia di immaginare “come sia essere un pipistrello” (Thomas Nagel, 1974 What it is like to be a bat?), immaginare cioè la diversità culturale, immediatamente prenderebbe consapevolezza del fatto che la diversità non inizia lontano, lontano da “noi”, ed è invece ben all’interno di noi. Nel momento in cui la diversità non è solo qualcosa che sappiamo che esiste ma dalla quale ci teniamo alla larga per rimanere più aderenti ai nostri principi (come vuole Lévi-Strauss), e non è neanche un semplice sfondo di conoscenza peggiore e di equivoci valori morali che confermano la nostra superiorità e unità (come vuole Rorty), ma è qualcosa che veramente ci interessa; nel momento in cui la diversità culturale non solo uno strumento per i nostri scopi (proteggere la mia cultura, unire la mia comunità), la sua presenza e pervasività diventa evidente

9) LINGUAGGIO, SOCIETÀ E RAPPRESENTAZIONI MONADICHE DELLE CULTURE Com’è stato quindi possibile presentare come plausibile questa concezione monadica delle culture (i treni, nella metafora di Lévi-Strauss)? È stato possibile perché si è applicata in modo scorretto l’idea che il significato sia costruito socialmente, nel senso che c’è un forte legame tra linguaggio e conoscenza o, per dirlo meglio, tra significato e società. Questa idea (che le idee e i significati non sono “nella testa” delle persone, ma circolano nella società attraverso i simboli della cultura) è stata interpretata in modo restrittivo “nel senso che i limiti del mio mondo sono i limiti del mio linguaggio”, offrendo quindi legittimazione alla chiusura culturale e all’isolamento morale, mentre per Geertz “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” (p. 80). Non si tratta di un gioco di parole più o meno insulso, e dovrebbe essere analizzato con attenzione. La prima frase, infatti, legittima l’indifferenza verso la diversità, mentre la seconda conduce alla curiosità, all’immaginazione e all’apertura mentale.

10) LE CULTURE ERANO VERAMENTE PURE E LE SOCIETÀ VERAMENTE OMOGENEE PRIMA DELLA RECENTE IBRIDAZIONE? FORSE GEERTZ STA ESAGERANDO? In un mondo in cui le differenze segnavano i limiti dell’appartenenza in modo nitido, era forse ancora possibile pensare alle culture come treni. Ma ora siamo di fronte a prospettive del tutto inedite: “le questioni morali sollevate dal fatto della diversità culturale… che un tempo sorgevano, quando sorgevano soprattutto tra le società… sorgono oggi soprattutto al loro interno” (pp. 81-82). Questo è forse un punto che potremmo spingerci a criticare nell’argomentazione geertziana. Per presentare lo stato attuale di ibridazione culturale, lo contrappone a un passato di uniformità, quando invece sappiamo che la diversità è stata la situazione normale  nella storia dell’umanità, se si eccettua l’enorme sforzo di uniformazioni nazionali occorso dalla fine del Settecento alla fine della seconda guerra mondiale.

11) UN APOLOGO DALLA MORALE INCERTA: L’INDIANO UBRIACONE E IL RENE ARTIFICIALE, OVVERO L’INCAPACITÀ DI IMMAGINARE L’ALTRO Per fornirci un esempio sia della “diversità entro una società” sia della sordità al richiamo di altri valori e dell’inutilità di un approccio di allegro distacco dall’altro, Geertz ci racconta la storia dell’indiano ubriacone e del rene artificiale. Il valore morale della storia ha è legato a quanto questa si sviluppa a seguito della mancanza di reciproca immaginazione, e alle conseguenze che questo comporta: “se fallimento vi è stato… esso ha riguardato l’incapacità, da ambo le parti, di comprendere la posizione dell’altro e, quindi, la propria… A far sembrare questo piccolo racconto così deprimente… è il fatto che essi [indiano e medici] non abbiano saputo escogitare, nel mistero della differenza, un modo per risolvere un’autentica asimmetria morale” (p. 84).

12) IL RUOLO DELL’ETNOGRAFIA NEL “COLMARE IL SALTO” DELLA DIVERSITÀ (O ALMENO NEL PROVARCI, NELL’IMMAGINARE LE POSSIBILITÀ DI RIEMPIRLO) Possiamo rimanere indifferenti di fronte a questi casi di diversità che intersecano la “nostra” definizione di cosa il termine “nostro” significa o dovrebbe includere? Geertz crede che nella maggior parte dei casi siamo chiamati a uno sforzo di comprensione, se veramente vogliamo vivere dentro una società, e non una mera accozzaglia di individui in soliloquio, ognuno sepolto inesorabilmente nelle sue idiosincrasie personali. Per poter fare questo, abbiamo bisogno di una “apertura immaginativa a (e l’ammissione di) una mentalità aliena” (p. 84). Gli etnografi sono da tempo i professionisti delle mentalità aliene: “Quantunque diversi fossero i nostri metodi o le nostre teorie, noi etnografi abbiamo condiviso la medesima ossessione professionale per i mondi altri, cercando di renderli comprensibili innanzitutto a noi stessi e, quindi, con l’ausilio di artifici concettuali non dissimili da quelli adoperati dagli storici e dai romanzieri, ai nostri lettori” (p. 84).

13) IL SAPERE ETNOGRAFICO È IMPORTANTE PERCHÉ IL RELATIVISMO (CHE PUÒ SENZ’ALTRO SORGERE DA QUEL SAPERE) È MOLTO MENO PERICOLOSO DELL’INDIFFERENZA ALLA DIVERSITÀ Ora che la diversità è all’interno del noi, l’etnografia, raffinando e ricalibrando i suoi strumenti e i suoi fini, può giocare un ruolo importante: “Gli usi dell’etnografia sono per lo più ancillari, e tuttavia reali. Come la compilazione dei dizionari o la molatura delle lenti, l’etnografia è, o dovrebbe essere, una disciplina che serve a qualcosa” (p. 86). L’etnografia può offrire la sua esperienza per quella che Geertz considera una speranza per un possibile futuro: un tentativo di reciproca comprensione tra le diversità.

14) CONCLUSIONI: L’ETNOGRAFIA È AL CONTEMPO UN’ESIGENZA SCIENTIFICA E MORALE DEI NOSTRI TEMPI Entro il complesso collage che costituisce l’attuale complessità e ibridità culturale, il relativismo senza scopo e la comparazione autocompiaciuta con l’altro sono due strategie del tutto inutili, anche se bisogna specificare che quest’ultima è ben più pericolosa del primo. “La prospettiva di un mondo popolato di persone così innamorate le une della cultura delle altre da aspirare soltanto a celebrarsi a vicenda non mi pare proprio un pericolo imminente; purtroppo, mi sembra di vedere invece un pericolo nella prospettiva di un mondo di persone tutte impegnate a glorificare i propri eroi e a demonizzare i propri nemici. Non è affatto necessario scegliere – anzi, è necessario non scegliere – tra un cosmopolitismo privo di contenuto e un campanilismo senza pietà. Nessuno dei due è di grande aiuto se si tratta di vivere in un collage” (pp. 88-89).

15) ESSERE ATTENTI AL DIVERSO È “INNATURALE” MA NECESSARIO. UN MANIFESTO DEL SAPERE SOCIO-ANTROPOLOGICO

Comprendere quello che, in un modo o nell’altro, ci è alieno (e tale rimarrà) senza cercare di minimizzarlo con vuoti balbettii sulla nostra comune umanità o di neutralizzarlo con l’indifferenza dell’a-ciascuno-il-suo, o ancora di liquidarlo come qualcosa di affascinante, persino grazioso, ma non perciò meno illogico – questa è un’abilità che dobbiamo faticosamente imparare; e una volta imparata, lavorare continuamente per tenerla in vita, poiché non si tratta di una facoltà innata, come la percezione della profondità o il senso dell’equilibrio, sulla quale si possa fare senz’altro affidamento. Gli usi della diversità – e dello studio della diversità – consistono proprio in questo: nel rafforzare la nostra immaginazione, la nostra capacità di comprendere ciò che ci sta di fronte.

Sunto

L’ETNOCENTRISMO, un tempo vivacemente contrastato dagli intellettuali e dagli esperti di scienze sociali, ha acquisito da qualche anno un nuovo fascino, come “una certa dose di sordità al richiamo di valori estranei” – che consentirebbe quindi la sopravvivenza delle differenze – oppure come “una matrice di confronto con comunità peggiori” – una pratica che rafforza la coesione della comunità di appartenenza. Confrontandosi con questa nuova attrattiva dell’etnocentrismo, e con la sua legittimazione da parte di autorevoli studiosi come Lévi-Strauss e Rorty, Geertz sostiene che un simile approccio alla diversità culturale ci impedisce di scoprire non solo quel che sono gli altri, ma anche quel che siamo noi, dato che la diversità è oggi altrettanto all’interno delle società di quanto un tempo fosse tra società. L’etnografia con il suo tradizionale pallino per la comprensione della diversità, ci offre ancora gli strumenti migliori per capire quel che ci è alieno, senza negarlo, renderlo innocuo o ignorarlo. All’interno dell’impresa etnografica, gli scopi morali e quelli scientifici si intrecciano: abbiamo bisogno di conoscere l’altro perché è dentro di noi (obiettivo scientifico della precisione e dell’adeguamento alla realtà) e perché solo questa conoscenza (che richiedere un vero sforzo di immaginazione) può contrastare una tendenza evidente a trasformare l’indifferenza verso l’altro in sospetto, e il sospetto in inimicizia.

 

[MINUTO 1:27:10] Per concludere in leggerezza, abbiamo fatto un piccolo test di verifica su alcuni temi (la cultura alta/bassa; cosa sia un oggetto tradizionale; in che senso la cultura è condivisa) con la piattaforma Mentimeter. Credo di non fare troppo danno se anticipo che il vincitore di questa gara è stato Magical Rhino…

venerdì 22 ottobre 2021

MERCANTI EBREI E DESCRIZIONI DENSE: L'ANTROPOLOGIA INTERPRETATIVA DI CLIFFORD GEERTZ (Lezione 07 del Modulo A, registrata il 18 ottobre 2021)

 


Il tema di questa lezione è l’INTERPRETAZIONE, ovvero quanto il dato etnografico sia in realtà costituito da un processo ermeneutico costante: sul campo, l’antropologa raccoglie letture stratificate e cerca di organizzarle in un quadro di senso.

[MINUTO 02:00] THIN DESCRIPTION e THICK DESCRIPTION. Uno dei concetti più elusivi della teoria della descrizione, possiamo riassumere dicendo che la thin è una descrizione INSENSATA, mentre la THICK è la descrizione che incorpora in sé il SENSO DELL’AZIONE DAL PUNTO DI VISTA DELL’ATTORE SOCIALE. [MINUTO 03:30] riprendo un po’ teatralizzata la storiella dell’OCCHIOLINO raccontata da Gylbert Ryle proprio per spiegare in cosa consista la differenza tra thin e thick.

[MINUTO 09:45] non è l’osservazione quel che conta per la vita umana, ma l’interpretazione del senso di quel che osserviamo. Se non abbiamo un quadro di senso, non osserviamo se non cose senza senso. L’antropologa sul campo si impegna cercare, nel reale che “osserva”, non tanto il suo senso, il punto di vista dell’osservatore ignorante, ma piuttosto il senso dell’attore sociale, il suo punto di vista.

[MINUTO 15:00] Un altro modo di raccontare questa differenza è con il racconto del MARZIANO che assiste a un BATTESIMO: La versione thin della storia, per quanto dettagliata, non ne coglie il senso, non ci dice quel che gli attori stanno facendo davvero (cioè quel che gli attori sociali immaginano di stare facendo).

[MINUTO 20:33] La cultura costituita dalle RETI DI SIGNIFICATO che gli umani hanno tessuto, secondo quando ci ha insegnato MAX WEBER (tramite Clifford Geertz)

[MINUTO 22:59] -EMIC vs -ETIC. La descrizione dal punto di vista dell’attore sociale (-emic) contrapposta alla descrizione condotta dal punto di vista dell’osservatore (-etic). La storia linguistica di questa opposizione, che ricalca in profondità quella tra thin (=etic) e thick (=emic). KENNETH PIKE (1953) ha contropposto phonetic a phonemic, per distinguere, rispettivamente, il livello delle differenze oggettive tra i suoni prodotti, e il livello delle differenze significative che quella lingua riconosce.

[MINUTO 31:30] Come non morire di noia quando si legge o si ascolta una storia. L’attenzione è garantita se riesci a infilarti in quella rete di significati. A questo punto, comincia la mia lettura effettiva della STORIA DI COHEN, che riprendo nella sintesi che ne ho dato nel mio La ninfa e lo scoglio.

L’antropologo che più ha insistito sulla dimensione interpretativa della cultura è stato CLIFFORD GEERTZ, e uno dei racconti più memorabili di questo lavorio culturale è stato quello del mercante ebreo Cohen nel Marocco agli albori del colonialismo francese, nel 1912.

Rovinato nell’onore da una banda di predoni berberi che gli hanno ucciso due clienti in casa, Cohen si rivolge ai militari francesi, arrivati da poco a presidiare la zona, per chiedere loro il permesso di riattivare il vecchio patto commerciale con lo sceicco della zona, che gli avrebbe garantito il suo diritto di farsi giustizia per questa patente violazione delle norme sociali della regione: non si interferisce con un mercante mentre ospita un cliente per una trattativa, e questa interferenza va ricompensata con un valore mercantile pari a quattro o cinque volte il danno subito, così che l’onore (’ar) del danneggiato sia reintegrato pubblicamente. I francesi non capiscono nulla di queste liturgie culturali locali, e scacciano Cohen con un secco “fai come ti pare!”. Il mercante ebreo interpreta pro domo sua questo disinteresse dei colonizzatori come un assenso implicito e parte a cercare giustizia sollevando dal torpore il suo sceicco (pensionato anzitempo dai francesi stessi, preoccupati di porsi come gli unici monopolisti della giustizia, in nome dell’incipiente modernizzazione che avrebbe trasceso le vecchie solidarietà tribali) e una banda di compaesani parimenti stralunati.

Cosa fa Cohen per chiedere giustizia in quel contesto culturale? Simula un furto di tutto il bestiame razziato fin lì dai predoni, e scappa. I predoni, quando si rendono conto che una banda di pazzi nottetempo si è presa la briga di immobilizzare il loro pastore e tagliare la corda con tutte le pecore, saltano sui cavalli e iniziano uno svogliato inseguimento, più che altro allibiti che qualcuno si sia preso un simile ardire, di andare cioè a rubare a casa dei ladri più feroci della zona. Quando però vedono a distanza la figura allampanata di Cohen che scappa con lo sceicco e le pecore, lo riconoscono e fanno: “Ah, è lui. Sediamoci e parliamo”.

La trattativa si conclude con Cohen che tutto felice è riuscito a spuntare ben cinquecento pecore come compenso e garanzia di vedere reintegrato il suo perduto onore di mercante in grado di proteggere i suoi clienti secondo i sacri dettami dell’ospitalità, ma quando torna in città, di nuovo i soldati francesi non capiscono nulla di quel che Cohen dice loro (che quel gregge in realtà è il suo ’ar, il suo onore restituito) e lo sbattono in prigione sequestrandogli le pecore, che loro credono siano la prova della sua connivenza coi predoni berberi, visto che lui ha insistito così tanto nell’ammettere che quel gregge gli è stato dato proprio dai predoni, ricercati di primo grado dai francesi.

Geertz ha scritto uno dei saggi più memorabili dell’antropologia culturale del novecento per spiegare questa storia, per spiegare cioè che ebrei, berberi e francesi in quel 1912 condividevano certo lo stesso mondo reale, ma lo interpretavano in modi non sempre sovrapponibili. Quel che un’ipotetica telecamera su un satellite spia avrebbe potuto registrare come un “furto notturno di bestiame nel deserto fuori Marmusha, in Marocco” è in realtà un’azione sociale completamente diversa.

Cohen compie un’azione simbolica, una dichiarazione politica: Ridatemi il mio onore, voi che mi avete disonorato! Sono costretto a simulare un’azione vergognosa, un abigeato notturno, per rammentarvi che avete fatto una cosa disonorevole, umiliandomi nella mia funzione di ospite dei miei clienti. Il “furto di pecore”, insomma, viene correttamente interpretato dai berberi, che condividono con Cohen un comune orizzonte morale legato al rispetto dell’onore e alla legittimità di riscattare la sua perdita. I predoni “vedono” nella farsa del furto delle pecore il senso che Cohen vi ha incorporato, lo comprendono e accettano di patteggiare la compensazione. Quando torna con il suo belante ’ar i francesi, di nuovo, non capiscono e si comportano come fanno sempre i dominatori, esercitando la forza lì dove loro manca il senso.

Tutto questo complesso simbolico di azioni (ammazzare clienti altrui, lamentarsi coi francesi, titillare l’orgoglio di un sceicco fuori gioco, rubare per burla, trattare sul serio, imprigionare perplessi) non è stato “osservato” dall’antropologo, dato che tutto quel che ha avuto Geertz sul campo, negli anni Sessanta, è stato il racconto di un vecchio mercante ebreo, che sornione e stanco ha raccontato allo straniero una storia incredibile che gli era capitata mezzo secolo prima, quando era solo un giovane sbruffone al limite dell’incoscienza.

Quel che voi avete ascoltato a lezione, dunque, è la mia interpretazione di quel che Geertz ha scritto in quel saggio, che condensa la sua interpretazione di quel che ha capito dal racconto tradotto da un mediatore di un vecchio mercante ebreo; racconto che era l’interpretazione, a cinquant’anni di distanza, di una serie di eventi che Cohen aveva vissuto e cercato di capire mentre li viveva. Ecco, questa è natura necessariamente interpretativa della ricerca antropologica.

[MINUTO 1:20:00] sintetizzo la seconda parte del saggio, anticipando una lettura più dettagliata in una lettura che caricherò come bonus track di questa lezione.


mercoledì 20 ottobre 2021

CONDIVISA DE CHE? CULTURA, APPARTENENZA, DIFFERENZA (Lezione 06 del Modulo A, registrata il 15 ottobre 2021)

 



Abbiamo iniziato la lezione ricordando i due punti raggiunti finora: la cultura è APPRESA, e la cultura è SIMBOLICA. Dovremo quindi oggi chiederci in modo esplicito se la cultura sia anche CONDIVISA secondo quel che ci sembra ovvio quando pensiamo ai gruppi, alle etnie, alle nazioni (ci sono un Francese, un Tedesco e un Italiano…)

[MINUTO 05:00] Abbiamo però prima ripreso la questione della nascita dell’antropologia (e delle scienze sociali) e il mutamento che l’antropologia ha attraversato negli ultimi settant’anni.

Siamo quindi partiti dalla MODERNITÀ come il superamento progressivo di una concezione del potere come emanato da un centro e irraggiantesi il più lontano possibile da quel centro con intensità sempre minore, fino a sovrapporsi all’influenza di un altro centro di potere. Questa concezione “a mandala” del potere come gioco geometrico di centri che inglobano centri minori in costante mutamento è stata progressivamente sostituita proprio nel passaggio della modernità da una concezione invece del nuovo potere dello STATO NAZIONALE, che si esercita nel modo più uniforme possibile in tutte le porzioni di spazio controllate. Questa geometrizzazione dell’appartenenza (si è sempre più chiaramente o francesi o italiani, a seconda di dove cada il confine, ora; con margini sempre più ridotti per appartenenze ibride) produce modifiche anche sulla concezione di SOGGETTO e INDIVIDUO: come gli stati perdono la loro permeabilità, anche i soggetti si fanno IN-DIVIDUI, vale a dire compatti e separati, (in-dividuo in greco è a-tomo). Questa concezione del soggetto è in gran parte nuova, e abbiamo accennato a MARYLIN STRATHERN, antropologa britannica che ha lavorato in Melanesia, e che parla di “dividuo” per intendere proprio un soggetto la cui identità non è ristretta nel suo proprio corpo, ma è sentita come condivisa tra più soggetti, in particolare quelli collegati attraverso forme sentite come naturali di appartenenza, come “la parentela” (tema su cui avremo molto modo di tornare nelle prossime lezioni).

Così attorno all’idea di modernità si coagula una nuova concezione del potere statale, della psicologia dell’individuo, del mercato come spazio autoregolato gestito da attori anonimi: la filosofia politica, la sociologia, la psicologia e l’economia nascono proprio per fare i conti con questo mutamento attivato dal passaggio nella modernità.

Vista alla luce della modernità, nell’Ottocento progressivo e in espansione tecnologica e militare, la diversità culturale umana appare come disporsi lungo un’unica SCALA EVOLUTIVA, con il nord bianco posto nel presente e tutte le altre culture, verso Est e verso Sud sempre più relegate in un altrove spaziale che diventa un PRECEDENTE CRONOLOGICO, come se i nostri contemporanei, nella misura in cui erano percepiti come diversi, fossero anche “antecedenti” cronologicamente, residui di un passato “barbaro” o “primitivo”. Quindi, mentre tutto il mondo si muoveva (nella concezione ideologica della modernità che stiamo analizzando) verso un futuro dominato dalla “civiltà Occidentale” che prima di tutte stava affrontando la crisi della modernizzazione, bisognava capire che farsene di quelli “rimasti indietro”, nelle campagne non urbanizzate, nelle colonie ovviamente “arretrate” e nel mondo “primitivo” ancora sconosciuto.

In questo senso l’antropologia nasce come scienza del RESIDUALE.

Sul piano metodologico, l’antropologia nasce come figlia naturale del Positivismo ottocentesco, convinta che il lavoro primario sia quello di produrre una documentazione adeguata di mondi (rurali o esotici) segnati dal destino dell’estinzione, che vanno quindi recuperati o almeno registrati per quanto possibile, prima che sia troppo tardi.

[MINUTO 19.30] Per descrivere questo mondo arcaico o primitivo, si usa il PRESENTE STORICO perché non sono considerati soggetti storici, ma ancora naturali. JOHANNES FABIAN, Il tempo e gli altri (1983).

La crisi epistemologica di questa visione empirica si condensa nel passaggio progressivo dell’attenzione dell’antropologia dalle CAUSE ai SIGNIFICATI rispetto ai fenomeni studiati.

BRONISLAW MALINOWSKI aveva descritto questo punto insistendo sul fatto che l’antropologia studia le cose “dal punto di vista dei nativi”, non indaga cioè quali siano i criteri universali di bellezza femminile, ma cerca di capire cosa significhi il concetto di Ochobo per i giapponesi.

[MINUTO 27:27] La crisi epistemologica che induce a ripensare l’oggettiva datità del mondo, ora visto sempre più nitidamente come una rete di significati da districare con pazienza e umiltà, si accompagna nel secondo dopoguerra anche a una crisi politica fortissima: la tragedia degli stermini di massa, le sacrosante lotte per l’indipendenza di molte colonie e il ripensamento delle gerarchie sociali e di genere dentro le culture Occidentali impongono un cambiamento radicale (nel doppio senso di fondamentale, ma anche profondamente antagonistico) dei modi canonici di condurre la ricerca sociale.

Si contesta il canone del sapere ricevuto, si ipotizzano MODERNITÀ MULTIPLE, vale a dire percorsi peculiari verso la modernità, che non seguono necessariamente il modello della secolarizzazione+libero mercato+democrazia parlamentare, ma che trovano, ad esempio anche sbocchi nel FONDAMENTALISMO come esito paradossale di un percorso alternativo verso la modernità.

[MINUTO 30:55] A questa crisi che è epistemologica (cosa crediamo di sapere), metodologica (come possiamo arrivarci) e politica (che cosa ci facciamo con quel sapere) l’antropologia risponde in vari modi, ma soprattutto comprende che il suo ruolo non è necessariamente relegato ai margini della modernità. L’antropologia diventa così lo studio della costruzione simbolica dei sistemi di valore, e diventa ad esempio antropologia URBANA e DELLA CONTEMPORANEITÀ.

Nei saggi di FABIO DEI e UGO FABIETTI che abbiamo aggiunto nelle letture (file 007 e 008) si parla di questo mutamento del metodo e del senso profondo della nostra disciplina.

[MINUTO 37:55] Un rapido accenno alla DIFFERENZA tra FILOSOFIA e ANTROPOLOGIA, partendo dalla sintesi che ne ha dato TIM INGOLD: L’antropologia è filosofia con la gente dentro.

[MINUTO 44:20] iniziamo davvero ad affrontare la questione centrale di questa lezione, cioè quanto e in che senso la cultura sia condivisa. L’abbiamo fatto partendo da uno spezzone di un documentario che ho realizzato anni fa (con la regia dell’allora mio studente Federico Gnemmi, che ha fatto la sua tesi realizzando questo video). Si vede una anziana signora trasteverina che racconta quando il suo quartiere sia cambiato.

Questo video iniziale (spero prima o poi di poterlo montare online in qualche modo) ci consente di introdurre proprio la questione dell’appartenenza e della compresenza della diversità, confrontando la vita della signora Giuliana con quella di suo nipote ventenne e con quella di una ipotetica signora ucraina che fa la badante in una casa dello stesso quartiere: quale vita somiglia più a quale altra? La comune appartenenza nazionale e addirittura un legame diretto di parentela sono garanzie di somiglianza tra le persone? Viceversa, la diversità di nazionalità è una condizione sufficiente per ipotizzare senza verifiche una differenza abissale tra due persone?

Il modo in cui ci aggreghiamo, in cui ci sentiamo parte di un gruppo, sono le più varie e non è facile stabilire a priori quali siano le variabili che ci fanno sentire parte di quel gruppo. In questo video, l’identità collettiva, cioè il senso di condivisione, è ben raffigurata nella sua complessità, e comprendiamo che non dovrebbe essere ridotta a una o due variabili, ma dovrebbe essere compresa nella sua costante mutevolezza.

Noi tendiamo a pensare “spontaneamente” (in realtà dipende da due fattori determinanti) che tutte le culture si possano suddividere in modo che tutti i membri di una specifica cultura siano nettamente distinti da tutti i membri di qualunque altra cultura, e che tra loro non vi siano sovrapposizioni.

In realtà, questa fantasia del CONFINE NETTO tra noi e loro dipende proprio dalla necessità di dare solidità cognitiva al mondo che ci circonda, e uno dei mezzi più efficaci che la cultura ha trovato per fare questo (non ti preoccupare, il mondo è proprio così, come lo vedi “naturalmente”, e soprattutto è sempre stato così, per noi) è insistere sul concetto di TRADIZIONE, sull’idea cioè che quel modo di essere o fare è radicato nella profondità storica e la sua origine si perde nella notte dei tempi.

In verità, sappiamo che questa dimensione tradizionale ha sempre una componente ideologica, è insomma anche una costruzione, volta proprio a garantire valore morale e psicologico per quelle cose tradizionali. Esempi [MINUTO 58:40] del tè inglese, della pasta col pomodoro italiana e della nduja calabrese. Riferimento a ERIC HOBSBAWM e TERENCE RANGER, L’invenzione della tradizione, un libro del 1983 anche criticabile e criticato, ma comunque un testo che ha costretto tutti a riflettere in modo nuovo sul concetto di TRADIZIONE, non più concepita come una pratica dotata necessariamente di una profondità storica, ma piuttosto una pratica socialmente condivisa che è stata assunta come tale, vale a dire come propria del gruppo che la pratica anche se la sua introduzione può essere relativamente recente.

[MINUTO 1:10:20] Questi processi di patrimonializzazione, di riconoscimento di tradizioni, sono essenziali per individuare le appartenenze, che non sono incluse una nell’altra come scatole cinesi, ma si incrociano a diversi livelli. Dobbiamo insomma sempre avere chiarezza del fatto che l’identità è sempre la risultante di un incrocio tra IDENTIFICAZIONE INTERNA, cioè il modo in cui definiamo noi stessi, e la CATEGORIZZAZIONE ESTERNA (cioè il modo in cui classifichiamo “gli altri”).

[MINUTO 1:16:50] questo ci deve rendere consapevoli che quando diciamo che “la cultura è condivisa” stiamo dicendo una cosa molto complicata dal punto di vista oggettivo, dato che la condivisione è sempre dipendente dall’interrelazione, da quanto cioè le persone che “da fuori” categorizziamo come appartenenti allo stesso gruppo (“gli extracomunitari”) al loro interno possono essere i portatori di una complicatissima varietà che non si riconosce affatto nell’etichetta che noi abbiamo dato loro. I gruppi culturali e anche le culture in generale sono flussi magmatici che si muovono nel tempo e nello spazio, e che in determinati tempi e determinati luoghi noi tendiamo a vedere come statiche, come se facessimo una fotografia di una fiume in movimento e poi chiamassimo quell’onda la cultura X e quell’altra la cultura Y.

[MINUTO 1:23:55] Vi è quindi una tendenza generale a SOVRASTIMARE LA CONDIVISIONE CULTURALE, ci viene facile pensare che gli italiani siano mediamente molto diversi dagli ucraini e che quindi, prendendo un italiano a caso (la signora Giuliana) e un ucraino a caso (la badante di Trastevere) ci troveremo di fronte a differenze comunque maggiori che non tra due italiani o due ucraini qualunque. Questa sovrastima, come anticipavamo all’inizio, dipende da due fattori:

1. Il primo è già stato indicato ed è proprio la nostra necessità di affidarci, in quanto animali culturali, a schemi e filtri che ci consentano di ridurre in formato maneggevole le troppe sollecitazioni cognitive del mondo in cui siamo immersi. Non possiamo tener conto di tutto, tracciare tutto, cercare di capire tutto, e quindi necessariamente tagliamo fuori dal nostro interesse quel che non ci pare consono, adeguato, “normale”, oppure lo etichettiamo come pericoloso, ponendolo in rilievo. L’evitazione produce quindi la tendenza a marcare enfaticamente dal punto di vista cognitivo ciò che è diverso, per produrre specularmente una sorta di ottundimento cognitivo, con cui diamo per assodato che attorno a noi le “solite” percezioni siano sempre più o meno le stesse, e quindi sottovalutiamo percettivamente e cognitivamente differenze che altrimenti dovremmo riconoscere.

2. Il secondo motivo è invece di ordine politico: negli ultimi duecento anni sempre più umani sono cresciuti dentro lo spazio dello stato nazionale dato come scontato, e lo spazio nazionale, per ragioni che non possiamo riassumere in questa lezione ma che abbiamo affrontato nel saggio inedito Dal punto di vista dei nazionalisti, è uno spazio sociale che pretende l’uniformità interna, e quando (come sempre) non la trova, semplicemente inizia a lavorare (in un processo di costruzione della nazione) per produrla, un tema importante su cui spero potremo tornare in una sintesi video che conto di pubblicare a breve, una bonus track per questa lezione.


sabato 16 ottobre 2021

UOMINI COTTI E DONNE CRUDE: LA RETE DI SEGNI CHE CHIAMIAMO CULTURA (Lezione 05 del 13/10/2021 del modulo A di Antropologia culturale)



Visto che questa lezione avrebbe dovuto essere sul motivo per cui durante queste prime lezioni non ho presentato quasi mai esempi “esotici” e ho invece fatto soprattutto riferimenti alla “nostra” cultura, ho rapidamente introdotto la questione storica che ha fatto sì che l’antropologia culturale OGGI è prima di tutto la scienza della dimensione simbolica del reale sociale, mentre è nata in realtà con tutt’altro fine, vale a dire come lo spazio di riflessione sul residuale della modernità. Le scienze sociali in effetti sono nate nel corso dell’800 per affrontare il grande tema della MODERNITÀ, con i problemi connessi dell’urbanizzazione, della secolarizzazione, dell’anomia, e in generale della frammentazione della cultura TRADIZIONALE. L’antropologia, come scienza minore, inizia dunque a occuparsi di quel che è RESIDUALE rispetto a questo cammino della modernità, vale a dire la cultura RURALE e le culture PRIMITIVE. Ma riprenderemo questo tema nella prossima lezione.

[MINUTO 05:00] Anche se finora ho raccontato più che altro un’antropologia dedita allo studio della “nostra” cultura, per non dimenticarci da dove viene l’antropologia e perché vale la pena di apprezzarne l’archivio, abbiamo di fatto aperto la lazione traducendo [MINUTO 07:00] qualche battuta di un’intervista che MARSHALL SAHLINS (1930-2021) ha rilasciato a un suo giovane allievo, in cui riprendeva un suo saggio degli anni 80 (Raw Women, Cooked Men and Other “Great Things” From Fiji, «Le Débat», 19, 2, 1982, pp. 121-145) e ricostruiva le strane parole di un vecchio capo delle isole Fiji, raccolte da un antropologo negli anni Venti del Novecento. Il capo voleva offrire un dono ai suoi maestri d’ascia per la superba canoa doppia che gli avevano costruito, e se ne uscì con queste parole: “Nei bei tempi antichi, vi avrei ringraziato donandovi un uomo cotto o una donna cruda, ma ora il Cristianesimo ha rovinato tutto!”. Sahlins spiega che, se si passa abbastanza tempo in quelle isole, si capisce che l’uomo cotto è la vittima sacrificale di un rituale cannibalico, e ha la funzione, in quanto dono agli dei, di favorire la fertilità di chi lo mangiava. Con “donna cruda”, invece, il capo intendeva la figlia vergine di un capo, che parimenti era molto efficace nel consentire al gruppo che l’acquisiva di riprodursi nel tempo con i frutti del suo ventre. Uomo cotto e donna cruda, dunque, significano in entrambi i casi un dono che, in modo diretto (donna) o indiretto (uomo) consente a chi lo riceve di investire sul proprio futuro come gruppo che continuerà a riprodursi.

Sahlins dice che esempi come questo sono la prova che il mondo degli antropologi e quello dei fisici sembrano funzionare in direzioni opposte: un fisico parte dall’ovvietà delle percezioni sensoriali (un tavolo che suona pieno sotto le dita) per arrivare a scoprire che invece c’è un sacco di vuoto tra nucleo e elettroni e addirittura, su scala quantistica, a farsi una rappresentazione del mondo del tutto incomprensibile per il senso comune, mentre l’antropologia fa la strada opposta: parte da una stranezza incomprensibile (uomini cotti e donne crude) per arrivare lentamente a renderla sensata ricostruendone il contesto culturale di occorrenza.

[MINUTO 15:10] L’acqua benedetta e l’acqua di rubinetto sono indistinguibili per un chimico o un fisico, ma per un antropologo, che cerca di ricostruire come vedono le cose “gli altri”, sono ben diverse. Si può dire che il senso dell’antropologia stia tutto qui, nell’imparare a distinguere l’acqua benedetta che ogni cultura produce,

[MINUTO 17:08], visto che a Tor Vergata non c’è più nessuno che insegni SEMIOTICA, dobbiamo toccare un poco la questione del SEGNO, e come si incrocia in profondità con quella di CULTURA.

Abbiamo distinto un SEGNO GENERICO o Segno1 (qualcosa che sta al posto di qualcos’altro da qualche punto di vista) da un SEGNO IN SENSO STRETTO o Segno2 (che invece è la correlazione univoca tra un SIGNIFICANTE e un SOLO SIGNIFICATO). Il Segno2 si oppone al SIMBOLO (che è invece costituito da un significante che può assumere molteplici significati). La distinzione tra Segno2 e Simbolo si dispone lungo un continuo, con il che si intende che i segni ordinari non sono né Segno2 perfetto, né Simbolo perfetto, ma qualcosa a metà. Mentre i linguaggi formali (come quello della matematica) utilizzano solo Segni2 (il segno significa una cosa sola “diverso da”) il linguaggio religioso o politico utilizza simboli molto ampli (la croce per il cristianesimo, per esempio, o il segno “democrazia” per la politica).

Fatta questa premessa, per i nostri scopi introduttivi parleremo solo di Segni in senso generico, e

[MINUTO 23:58] Distinguiamo in modo tecnico tra SIGNIFICANTE e SIGNIFICATO. Il primo è semplice: si tratta della componente materiale del segno, del suo supporto fisico. Non siamo angeli, e siamo dunque costretti a comunicare facendo trasportare i significati da mezzi fisici: le onde sonore, il gesso, l’inchiostro, ma anche il metallo di un anello, o i petali di un fiore, se il fiore è un dono. Oppure il movimento del corpo in un passo di danza.

Il SIGNIFICATO invece è più complicato da spiegare. Diciamo che per molti secoli è prevalsa una TEORIA REFERENZIALE del significato, che dice che il significato è costituito dal referente materiale o dall’immagine mentale del segno, ma questo modello teorico può funzionare molto bene per la comunicazione animale (che in effetti, come abbiamo visto, è sostanzialmente referenziale: guarda, lì ci sono banane, andiamo! Oppure: guarda, lì c’è un leone, scappiamo!) mentre è una teoria incompleta se riferita al linguaggio umano, che molto spesso non è affatto referenziale, ma tratta di concetti come “Ochobo”, che non hanno alcun referente materiale immediato, oppure di connettivi come “quindi”, “oppure”, che non producono alcuna immagine mentale, o di concetti/simboli troppo complessi per poter essere indicati (guarda, la “democrazia”, andiamo a prenderla! Oh, ecco la “violenza”, scappiamo!)

Così, la riflessione filosofica e linguistica dell’ultimo secolo ha elaborato (abbiamo ancora nominato LUDWIG WITTGENSTEIN [1889-1951]) una TEORIA DELL’USO, per cui il significato di un segno dipende interamente dall’uso che se ne fa entro quella comunità linguistico-culturale. Il significato è quindi costituito dall’insieme degli script, delle potenziali sceneggiature entro cui potrei usare quel segno.

[MINUTO 40:50] questa teoria dell’uso possiede una qualità interessante: ogni segno, dunque, è collegato ad altri segni che lo “definiscono”, che costituiscono il quadro dei suoi script, delle cose che si possono dire con quel segno. Così si comincia a vedere la “rete di significati” di cui parlava MAX WEBER: ogni cultura tesse attorno a noi una rete complicata di segni interrelati in QUEL MODO SPECIFICO, e il lavoro dell’antropologia è proprio la ricostruzione di “altre” reti di segni prodotte fuori dalla rete ordinaria cui l’antropologa sente di appartenere.

In realtà, non ci sono due reti individuali di segni che si sovrappongano perfettamente, ma chiamiamo “culture” quei raggruppamenti che prevedono almeno alcune sovrapposizioni parziali, nel continuo semiotico del sociale. Come dice RALPH DANTO, “la diversità inizia lì dove finisce la mia pelle” e questa tensione costante tra la rete di significato in cui noi siamo individualmente immersi e qualunque altra rete di significato, una volta assunta a oggetto specifico di analisi, costituisce il fondamento della ricerca antropologica. In un certo senso, quando comunichiamo stiamo sempre, misteriosamente, condividendo le nostre reti di significato, ma il lavoro dell’antropologia è la presa in carico ESPLICITA e CONSAPEVOLE di questo lavoro, che altrimenti e comunemente facciamo subconsciamente, vivendo la nostra vita ordinaria.

L’antropologa al lavoro sa invece che la sua rete di segni è molto, molto distante dalla rete di segni delle persone con cui interloquisce, e il suo lavoro consiste proprio nel ricostruirne almeno qualche porzione ragionevole.

[MINUTO 52:57] Come si organizza, dunque, questa rete dentro le specifiche culture? Il passaggio importante è la costruzione di CATEGORIE CULTURALI. Come qualunque altro animale, siamo in grado di accorpare una parte rilevante degli stimoli sensoriali in categorie naturali, (SCATOLE, le chiama ROBERT SAPOLSKY) o TIPI, che ci consentono un ragionevole posizionamento di noi stessi nel mondo. Ma come umani, proprio perché abbiamo iniziato molto tempo fa (prima di diventare umani, in realtà) ad affidarci all’apprendimento e quindi a contare sempre meno sulla trasmissione biologica anche di categorie innate, abbiamo un bisogno disperato di CATEGORIE APPRESE, che ovviamente verranno apprese secondo lo STILE COGNITIVO di ciascuna cultura. Il video del bambino che “non riesce” a categorizzare alcune figurine è piuttosto interessante (oltre che buffo).

Di seguito [MINUTO 1:02:00], abbiamo visto un rapidissimo video in cui si spiega proprio la distinzione tra TIPO e OCCORRENZA (TYPE e TOKEN, in inglese)

[MINUTO 1:06:30] un rapido accenno al lavoro di DOUGLAS HOFSTADTER, Gödel, Escher, Bach: un'eterna ghirlanda brillante, un libro del 1979 in cui molti di questi temi su come avvenga la categorizzazione e come gli umani facciano uso del loro dispositivo simbolico e in generale cosa sia il SIGNIFICATO e cosa intendiamo per COMUNICAZIONE. Di seguito, abbiamo accennato anche al libro di GEORGE LAKOFF, e MARK JOHNSON, Metafora e vita quotidiana, in cui il rapporto tra concezione referenziale e simbolica del linguaggio è indagato con spirito antropologico, partendo dall’importantissima nozione di METAFORA.

Se non avessimo queste categorie, saremmo ridotti come Funes, il personaggio di JORGE LUIS BORGES che non dimenticava nulla e che era costretto a sottrarsi alla vita, per non affastellare nel suo animo ulteriori ricordi di singoli Tokens privi di qualunque Type dove collocarli. Il grande neuroscienziato russo ALEKASDR LURIJA (1902-1977) nel 1968 aveva pubblicato uno studio su un uomo che davvero “non dimenticava nulla”.

[MINUTO 1:13:15] Questi casi patologici, di memorie che non hanno Tipi e che collezionano Occorrenze singole, ci spingono a riflettere sui meccanismi che negli umani, oltre la scarna disposizione biologica, ci consentono di elaborare CATEGORIE, MODELLI e SCHEMI DI AZIONE. Abbiamo già detto gli animali possono basarsi su schemi di “coordinazione motoria ereditaria” o, in inglese “FIXED ACTION PATTERNS”, vale a dire che in moltissimi contesti gli animali “sanno già” come comportarsi. Di fronte all’odore di un felino un topo attiva istintivamente un movimento del corpo all’indietro, e di fronte a una montagna di sterco alcuni scarabei sanno perfettamente come arrotolarne una pallina. Gli umani sono invece molto carenti su questo piano (proprio perché, abbiamo visto, a un certo punto della loro evoluzione animale hanno iniziato ad affidarsi sempre più a schemi esterni, a modelli appresi, vale a dire alla cultura) e quindi hanno la necessità di trovare da qualche parte questi “pacchetti di azione” (che implica anche il giudizio, dato che anche il pensiero è una forma di azione). Questi modelli di azione APPRESI possono essere sintetizzati nella parola RITO. Gli uomini si creano questi pacchetti predisposti, che trasmettono e incorporano. Abbiamo quindi letto un passo da DANIEL A. BELL che racconta come nel testo cinese XUNZI del Terzo secolo P.E.C. il rituale sia descritto come un sistema che consente di superare la nostra condizione animale: “Il principale scopo del rituale è quello di civilizzare la nostra natura animale”.

Abbiamo accennato quindi al concetto di ANTROPOIESI, elaborato da FRANCESCO REMOTTI per indicare proprio quella pratica tipicamente umana di produzione dell’umanità secondo modelli condivisi socialmente.

Se non avessimo questi modelli appresi di azione, saremmo o totalmente imbelli o in balia del mondo e delle sue attrattive, un po’ come Gurdulù Omobono, lo scudiero del Cavaliere inesistente di ITALO CALVINO, che si identificava totalmente con le cose del mondo con cui interagiva, senza avere più alcun confine indentitario.