Francesco Giavazzi dixit hodie (sul Corriere, e io non ho proprio nulla da aggiungere):
"Per rinnovare davvero l'università occorre cominciare da due cose (atteso che mi pare che nessuno abbia il coraggio di affrontare il nodo del valore legale del titolo di studio). Primo, alzare in modo cospicuo le tasse di iscrizione - che oggi costituiscono un trasferimento dai poveri ai ricchi - e utilizzare i nuovi fondi per assegnare borse di studio "vere" ai meritevoli. Secondo, attribuire i fondi pubblici alle università in modo competitivo, sulla base della valutazione della loro ricerca. Queste valutazioni già esistono, ma il ministro Mussi di rifiuta di considerarle perché furono richieste dal suo predecessore. Invece il ministro ha creato una nuova Agenzia per la valutazione che, se tutto andrà bene, produrrà i suoi primi risultati fra un paio d'anni. Nel frattempo il governo utilizzerà le valutazioni che già esistono, oppure continuerà ancora per due anni ad assegnare i fondi a tutti gli atenei in modo indifferenziato?"
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI
martedì 27 febbraio 2007
lunedì 26 febbraio 2007
Recensione: Arthur e il popolo dei Minimei
Guarda, non so se i piccoli si divertiranno con questa storia, forse un po’ troppo scontata (a me, tranne l’ipnotico dettaglio di cui dico fuori di questa parentesi, è piaciuto soprattutto l’album di nonno Archibald, riprodotto con una bellissima fedeltà realistica, e il cattivone di turno, che nell’originale inglese è doppiato da David Bowie), ma sono sicuro che tutti i papà apprezzeranno il modo in cui è stata disegnata la principessa Selenia, soprattutto quando la rimireranno nelle numerosissime riprese in cui si lascia vedere, diciamo così, “di spalle”… A Madonna (che presta la voce alla principessa nella versione inglese) avevano già rifatto le mani in qualche foto dell’autunno scorso, ma un culo così se lo sognava anche vent’anni fa.
Oscar al volo
Allora, commento solo quel che ho visto. Sono contento che il saccente Babel sia stato trombato. A me quell’aria da “guardate che film strafigo sto facendo” mi aveva proprio dato ai nervi. Dopo Crash qualunque tentativo di parlare di conflittualità etnica deve mirare ben più in alto, in termini di compattezza narrativa e spessore dei personaggi.
Sono dubbioso sui due Oscar vinti da Little miss Sunshine (miglior attore non protagonista allo strepitoso Alan Arkin, amorevolissimo nonno fattone e miglior sceneggiatura originale a Michael Arndt). Proprio perché a me il film è piaciuto tantissimo (ne avevo già scritto a suo tempo) e ha già fatto man bassa agli Spirit Awards, versione alternativa dei patinati Oscar, il premio mi puzza di voglia di inclusione: proprio l’America ferocemente criticata nel film decide di premiare il suo castigator di costumi per tentare di ammansirlo blandedolo. Speriamo che i due registi (Jonathan Dayton e Valerie Faris, marito e moglie, che bello) tengano duro.
Sono dubbioso sui due Oscar vinti da Little miss Sunshine (miglior attore non protagonista allo strepitoso Alan Arkin, amorevolissimo nonno fattone e miglior sceneggiatura originale a Michael Arndt). Proprio perché a me il film è piaciuto tantissimo (ne avevo già scritto a suo tempo) e ha già fatto man bassa agli Spirit Awards, versione alternativa dei patinati Oscar, il premio mi puzza di voglia di inclusione: proprio l’America ferocemente criticata nel film decide di premiare il suo castigator di costumi per tentare di ammansirlo blandedolo. Speriamo che i due registi (Jonathan Dayton e Valerie Faris, marito e moglie, che bello) tengano duro.
Sciocchezze inessenziali
Ho seguito con apprensione la vicenda di Pasque di sangue fin dalla prima recensione/ anticipazione di Sergio Luzzatto ormai diverse settimane fa. Non ho detto nulla della decisione di Ariel Toaff di ritirare il libro, un po’ per la mia cronica carenza di tempo, un po’ perché mi sembrava il caso di rispettare anche con il silenzio una decisione sicuramente sofferta. Siccome ne torna a parlare Luzzatto sul Corriere di oggi, per sollevare una questione più generale, provo a sintetizzare la questione per come l’ho vista fino a questo punto.
Uno storico rispettato nella sua comunità “scientifica” e con tutti i quarti di nobiltà a posto in quella “etnica” manda alle stampe un saggio che mette in crisi l’immagine ortodossa del popolo cui appartiene.
Travolto dalle critiche pregiudiziali (non potevano che essere tali gli anatemi lanciati prima di poter leggere il libro, che ancora non era uscito) e dal rischio serio di perdere non solo la faccia, non solo la stima, ma anche il lavoro, Toaff decide di ritirare il libro e di chiedere scusa agli ebrei di Israele e del mondo. Leggo che Elio Toaff avrebbe commentato così la decisione del figlio di studiare un argomento tanto scabroso: “Non è parlando di sciocchezze come queste che si salvaguarda la vera essenza dell’ebraismo”.
Chi mi conosce professionalmente sa che appizzo immediatamente le orecchie quando sento parlare di “vera essenza”, soprattutto se contrapposta, come in questo caso alle “sciocchezze”. È una tipica accusa rivolta agli antropologi (soprattutto quelli con una vocazione al vernacolo, al rimasuglio, al locale, al rurale) quella di occuparsi di sciocchezze “inessenziali”, e trovo estremamente interessante che questa volta l’accusato sia uno storico, in un dramma para-edipico dai contorni difficilmente delineabili nella loro interezza.
Mi basta dire che se la questione dei sacrifici umani rituali nel quadro dell’ebraismo medievale fosse stata veramente una sciocchezza, non si sarebbe montato tutto questo caso. E che forse ha ragione Michael Herzfeld quando insiste che è proprio su inessenzialità come queste che si fonda l’intimità culturale (e quindi una porzione non trascurabile dell’identità) di una comunità.
Resta il fatto doloroso di una ricerca storica condannata alla salvaguardia dell’onore etnico. Un onore, paradossalmente, che può rimanere integro solo se rimane intonsa la figura sacrificale dell’ebreo. Strano destino di un popolo, vittima per lungo tempo, che si vorrebbe vittima sempre, prima e al di là di qualunque analisi storica. La vittima necessaria. Se questo sta bene al Dio di Isacco, mi chiedo che ne pensa il Dio di Abramo.
Uno storico rispettato nella sua comunità “scientifica” e con tutti i quarti di nobiltà a posto in quella “etnica” manda alle stampe un saggio che mette in crisi l’immagine ortodossa del popolo cui appartiene.
Travolto dalle critiche pregiudiziali (non potevano che essere tali gli anatemi lanciati prima di poter leggere il libro, che ancora non era uscito) e dal rischio serio di perdere non solo la faccia, non solo la stima, ma anche il lavoro, Toaff decide di ritirare il libro e di chiedere scusa agli ebrei di Israele e del mondo. Leggo che Elio Toaff avrebbe commentato così la decisione del figlio di studiare un argomento tanto scabroso: “Non è parlando di sciocchezze come queste che si salvaguarda la vera essenza dell’ebraismo”.
Chi mi conosce professionalmente sa che appizzo immediatamente le orecchie quando sento parlare di “vera essenza”, soprattutto se contrapposta, come in questo caso alle “sciocchezze”. È una tipica accusa rivolta agli antropologi (soprattutto quelli con una vocazione al vernacolo, al rimasuglio, al locale, al rurale) quella di occuparsi di sciocchezze “inessenziali”, e trovo estremamente interessante che questa volta l’accusato sia uno storico, in un dramma para-edipico dai contorni difficilmente delineabili nella loro interezza.
Mi basta dire che se la questione dei sacrifici umani rituali nel quadro dell’ebraismo medievale fosse stata veramente una sciocchezza, non si sarebbe montato tutto questo caso. E che forse ha ragione Michael Herzfeld quando insiste che è proprio su inessenzialità come queste che si fonda l’intimità culturale (e quindi una porzione non trascurabile dell’identità) di una comunità.
Resta il fatto doloroso di una ricerca storica condannata alla salvaguardia dell’onore etnico. Un onore, paradossalmente, che può rimanere integro solo se rimane intonsa la figura sacrificale dell’ebreo. Strano destino di un popolo, vittima per lungo tempo, che si vorrebbe vittima sempre, prima e al di là di qualunque analisi storica. La vittima necessaria. Se questo sta bene al Dio di Isacco, mi chiedo che ne pensa il Dio di Abramo.
venerdì 23 febbraio 2007
Immagini e immaginazione
Come si capisce dal roboante silenzio che gli dedico, le vicende dell'ex governo Prodi non mi entusiasmano.
Tutto proteso a contemplare il mio magnifico ombelico, stavo riflettendo su una correlazione di cui comincio a sospettare. Al mattino ricordo con molta più nitidezza i sogni della notte la sera prima non ho visto televisione e se ho letto narrativa. Come se avessi una quota giornaliera di immagini che posso spendere comprandole già fatte o che invece mi devo costruire da me nel sonno. Qualcuno ha notato qualcosa di simile nella sua esperienza? Se fosse vero che ci ricordiamo meno i sogni quanto più veniamo esposti alle immagini dei mass media, si aprirebbe un interessante spazio di riflessione su pragmatismo e idealismo, su voglia di cambiare (voi, sognatori) e rassegnazione (voi, sottoposti). Si accettano volentieri esperienze e suggerimenti in proposito.
Tutto proteso a contemplare il mio magnifico ombelico, stavo riflettendo su una correlazione di cui comincio a sospettare. Al mattino ricordo con molta più nitidezza i sogni della notte la sera prima non ho visto televisione e se ho letto narrativa. Come se avessi una quota giornaliera di immagini che posso spendere comprandole già fatte o che invece mi devo costruire da me nel sonno. Qualcuno ha notato qualcosa di simile nella sua esperienza? Se fosse vero che ci ricordiamo meno i sogni quanto più veniamo esposti alle immagini dei mass media, si aprirebbe un interessante spazio di riflessione su pragmatismo e idealismo, su voglia di cambiare (voi, sognatori) e rassegnazione (voi, sottoposti). Si accettano volentieri esperienze e suggerimenti in proposito.
venerdì 16 febbraio 2007
Non ci sono più i bei brigatisti di una volta
Tiziano Scarpa commenta al Corriere gli arresti di un due giorni fa: “Io le ho già viste, tutte ’ste cose, per colpa di cinquecento persone la mia generazione l’ha pagata cara, molto cara... è un giochetto sporco che abbiamo già visto, adesso verranno demonizzati tutto il sindacato, tutti i no global, tutti i centri sociali e la sinistra, gli intellettuali... Soprattutto non vorrei che per quindici o venti criminali folli finissero per pagarla i ventenni di oggi, non appena alzeranno il ditino per dire “non sono d’accordo” ci sarà qualcuno che dirà loro: zitti, terroristi!”.
Condivido (se non altro per ragioni anagrafiche e geografiche) le considerazioni di Tiziano. Non vorrei però sembrassero solo un’accusa (giusta) contro la demonizzazione e ci facessero trascurare l’idiozia criminale che purtroppo la giustifica.
Per quelli della nostra età (oltre i quaranta e sotto i cinquanta, diciamo) e ancor più se del Veneto, i bastardi che facevano “politica” picchiando e tirando molotov prima e poi giocando al piccolo partigiano che gambizza e ammazza i nemici del popolo, sono stati più castranti di qualunque padre-padrone, più inibenti di qualunque “perfetta madre ebraica”. Ci hanno tolto qualunque legittimazione al dissenso in età preadolescenziale, e abbiamo fatto uno sforzo enorme per recuperare una dimensione morale del dire “no”.
Dal loro giocare (quasi sempre sulla pelle degli altri, poi bastava pentirsi) alla rivoluzione, l’unico risultato che ne hanno ricavato è stato una condizione di repressione costante e diffusa. A 19 anni lavoravo d’estate in un bar a Venezia, e non c’era verso di evitare un controllo di polizia tornando a casa (a piedi!) dopo le 23, tanto che ormai mi ci ero abituato. Certo, qualcuno l’avrà già detto, ma anche senza ipotizzare improbabili complotti e Grandi Vecchi, mi pare evidente che il gioco di quei sociopatici paranoici sia stato (e ancora lo è, nella misura in cui ci giocano) tutto teso a favorire le istituzioni intese proprio come apparati ideologici dello Stato. Quel che ha detto due giorni fa Giuliano Amato in Parlamento è sintomatico: guardate che va a finire che la manifestazione di Vicenza diventa una scusa per mettere assieme il “movimento” con la criminalità (e con gli ultrà, perché no) in una guerra contro le forze dell’ordine. Il problema di questo tipo di allarmi è che da un lato corrisponde purtroppo a un dato di fatto, ma dall’altro costituisce una rete di senso, che viene strascicata sul fondale melmoso della politica sia dalle “autorità” (che poi manganellano in stile Diaz) sia dalla follia secondoposizionista, che trova una conferma della sua strategia di infiltrarsi nel movimento antagonista e cavalcare l’onda che passa (qualunque sia).
Tutto quello che abbiamo ottenuto dagli anni di piombo è stato il senso di colpa del dissentire, l’isolamento e la privatizzazione della critica politica, l’ispessirsi delle faglie di frattura interne alle classi subalterne, l’inasprimento delle forme di controllo, la militarizzazione di spezzoni della politica, la diffusione di un culto machista per la “bella morte” e per la violenza in quanto tale, non strumento ma fine. Io non voglio che quella merda di clima ritorni in alcun modo e questa volta è bene che lorsignorini lo sappiano: se ci toccherà scegliere di nuovo, molti di noi stavolta non avranno dubbi: con lo Stato.
Un consiglio alle “istituzioni”. Smettetela di fare intercettazioni ambientali e di infiltrare poliziotti attorno ai centri sociali. Mandateci invece una vagonata di psicologi, psichiatri e psicoanalisti per tenere a bada troppi edipi non risolti e narcisi fuori controllo.
È vero, come dice Erri De Luca sempre sul Corriere di ieri, che la retata di due giorni fa ha raccolto più che altro “sprovveduti”, ma non poteva essere altrimenti. Come non c’era alcuna vera consapevolezza politica nei “veri” brigatisti degli anni Settanta-Ottanta (sfido chiunque a dimostrarmi qualunque sensatezza o progettualità nel loro delirio di parole e azioni), tutti tesi a lottare in un teatro che si erano costruiti per conto loro, senza alcun contatto con la realtà se non il sangue dei poveri innocenti che chiamavano a fare comparsate sul palco del loro egocentrismo piccoloborghese, così non ce ne può essere negli arrestati di questi giorni, emarginati sociali che ovviamente non speravano altro che di essere catturati, in modo da garantirsi finalmente un senso eroico per il loro blaterale a vanvera e il loro giocare a soldatini. Se la Digos smettesse veramente di controllarli, quasi tutti i coglioni paranoici che gravitano speranzosi ai margini della criminalità antistatale non troverebbero più alcuna ragione di confabulare e progettare la rivoluzione sparando ai manichini in mezzo alla campagna veneta.
Un’ultima cosa, per chi pensa che queste cose le posso dire perché sono un borghese che non vuole capire come funziona, da sempre, il conflitto di classe. Chi ha ancora voglia di fare retorica “di classe” si chieda come possa essere credibile come icona proletaria una che si chiama “Nadia Desdemona”, manco fosse una latifondista brasiliana.
Condivido (se non altro per ragioni anagrafiche e geografiche) le considerazioni di Tiziano. Non vorrei però sembrassero solo un’accusa (giusta) contro la demonizzazione e ci facessero trascurare l’idiozia criminale che purtroppo la giustifica.
Per quelli della nostra età (oltre i quaranta e sotto i cinquanta, diciamo) e ancor più se del Veneto, i bastardi che facevano “politica” picchiando e tirando molotov prima e poi giocando al piccolo partigiano che gambizza e ammazza i nemici del popolo, sono stati più castranti di qualunque padre-padrone, più inibenti di qualunque “perfetta madre ebraica”. Ci hanno tolto qualunque legittimazione al dissenso in età preadolescenziale, e abbiamo fatto uno sforzo enorme per recuperare una dimensione morale del dire “no”.
Dal loro giocare (quasi sempre sulla pelle degli altri, poi bastava pentirsi) alla rivoluzione, l’unico risultato che ne hanno ricavato è stato una condizione di repressione costante e diffusa. A 19 anni lavoravo d’estate in un bar a Venezia, e non c’era verso di evitare un controllo di polizia tornando a casa (a piedi!) dopo le 23, tanto che ormai mi ci ero abituato. Certo, qualcuno l’avrà già detto, ma anche senza ipotizzare improbabili complotti e Grandi Vecchi, mi pare evidente che il gioco di quei sociopatici paranoici sia stato (e ancora lo è, nella misura in cui ci giocano) tutto teso a favorire le istituzioni intese proprio come apparati ideologici dello Stato. Quel che ha detto due giorni fa Giuliano Amato in Parlamento è sintomatico: guardate che va a finire che la manifestazione di Vicenza diventa una scusa per mettere assieme il “movimento” con la criminalità (e con gli ultrà, perché no) in una guerra contro le forze dell’ordine. Il problema di questo tipo di allarmi è che da un lato corrisponde purtroppo a un dato di fatto, ma dall’altro costituisce una rete di senso, che viene strascicata sul fondale melmoso della politica sia dalle “autorità” (che poi manganellano in stile Diaz) sia dalla follia secondoposizionista, che trova una conferma della sua strategia di infiltrarsi nel movimento antagonista e cavalcare l’onda che passa (qualunque sia).
Tutto quello che abbiamo ottenuto dagli anni di piombo è stato il senso di colpa del dissentire, l’isolamento e la privatizzazione della critica politica, l’ispessirsi delle faglie di frattura interne alle classi subalterne, l’inasprimento delle forme di controllo, la militarizzazione di spezzoni della politica, la diffusione di un culto machista per la “bella morte” e per la violenza in quanto tale, non strumento ma fine. Io non voglio che quella merda di clima ritorni in alcun modo e questa volta è bene che lorsignorini lo sappiano: se ci toccherà scegliere di nuovo, molti di noi stavolta non avranno dubbi: con lo Stato.
Un consiglio alle “istituzioni”. Smettetela di fare intercettazioni ambientali e di infiltrare poliziotti attorno ai centri sociali. Mandateci invece una vagonata di psicologi, psichiatri e psicoanalisti per tenere a bada troppi edipi non risolti e narcisi fuori controllo.
È vero, come dice Erri De Luca sempre sul Corriere di ieri, che la retata di due giorni fa ha raccolto più che altro “sprovveduti”, ma non poteva essere altrimenti. Come non c’era alcuna vera consapevolezza politica nei “veri” brigatisti degli anni Settanta-Ottanta (sfido chiunque a dimostrarmi qualunque sensatezza o progettualità nel loro delirio di parole e azioni), tutti tesi a lottare in un teatro che si erano costruiti per conto loro, senza alcun contatto con la realtà se non il sangue dei poveri innocenti che chiamavano a fare comparsate sul palco del loro egocentrismo piccoloborghese, così non ce ne può essere negli arrestati di questi giorni, emarginati sociali che ovviamente non speravano altro che di essere catturati, in modo da garantirsi finalmente un senso eroico per il loro blaterale a vanvera e il loro giocare a soldatini. Se la Digos smettesse veramente di controllarli, quasi tutti i coglioni paranoici che gravitano speranzosi ai margini della criminalità antistatale non troverebbero più alcuna ragione di confabulare e progettare la rivoluzione sparando ai manichini in mezzo alla campagna veneta.
Un’ultima cosa, per chi pensa che queste cose le posso dire perché sono un borghese che non vuole capire come funziona, da sempre, il conflitto di classe. Chi ha ancora voglia di fare retorica “di classe” si chieda come possa essere credibile come icona proletaria una che si chiama “Nadia Desdemona”, manco fosse una latifondista brasiliana.
O tempora o mores
Il leghista Maurizio Parma commenta la notizia che Adriano Sofri è stato invitato a Bologna come relatore a un convegno su “Gli ebrei e Israele” asserendo di non volere in città “un ex brigatista, sia pure amnistiato” (no, niente errori di battitura, non ho assunto droghe e non soffro di disturbi percettivi, ha detto proprio così: “ex brigatista” e “amnistiato”).
Ora, io non sono in grado di esprimere un giudizio sulla vita e le opere del signor Maurizio Parma (di cui nulla so, per mia colpevole ignoranza, tranne che fa il leghista a Bologna, e dev’essere comunque dura), ma vista la sintesi con cui riesce a dare sfoggio di insipienza, lo propongo all’attenzione del Ministro Mussi per una laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione con la seguente motivazione:
“Per essere riuscito, in un’unica frase, a unire stupidità, cattiveria e ignoranza, qualità di certo non rare nel genere umano, ma spesso sparse nella moltitudine, che certamente ben poche volte hanno avuto la fortunata ventura di accompagnarsi con tanta simmetrica armonia e sintetica concettosità in un unico individuo”.
Ora, io non sono in grado di esprimere un giudizio sulla vita e le opere del signor Maurizio Parma (di cui nulla so, per mia colpevole ignoranza, tranne che fa il leghista a Bologna, e dev’essere comunque dura), ma vista la sintesi con cui riesce a dare sfoggio di insipienza, lo propongo all’attenzione del Ministro Mussi per una laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione con la seguente motivazione:
“Per essere riuscito, in un’unica frase, a unire stupidità, cattiveria e ignoranza, qualità di certo non rare nel genere umano, ma spesso sparse nella moltitudine, che certamente ben poche volte hanno avuto la fortunata ventura di accompagnarsi con tanta simmetrica armonia e sintetica concettosità in un unico individuo”.
mercoledì 14 febbraio 2007
No, non si può dire
Venerdì scorso (9 febbraio) era ospite a Ventotto minuti Anna Maria Mori, figlia di profughi istriani, che presentava il suo libro Nata in Istria (Rizzoli). Durante l’amabile conversazione con Barbara Palombelli parlava delle bellezze dell’Istria e delle bruttezze dell’esilio. “Quelle terre che - possiamo dirlo? Massì possiamo - sono nostre”. Queste (a memoria mia) le parole della conduttrice.
Se le parole di Napolitano sono benvenute e benedette, perché offrono un conforto a cuori maltrattati per decenni, non credo che questo ci autorizzi a dire che quelle terre “sono nostre” se, come sembrava dal contesto, si tratta di una rivendicazione nazionale.
Il dramma di troppe terre come l’Istria è stato quello di non veder riconosciuto da un certo momento in poi il proprio carattere multiculturale e meticcio. Aree come la Macedonia, l’Irlanda del Nord, i Paesi Baschi, il Kosovo, la Bosnia sono costitutivamente molteplici e multiformi, attraversate dalla diversità (di volta in volta linguistica, culturale, religiosa, “razziale”, o un insieme di queste variabili), ed è quando questo dato di fatto è stato negato (spesso prima dagli stati “proprietari” e poi dai gruppi maggiormente presenti in determinate fase storiche) che sono successi i peggio casini.
L’Istria era una regione in cui convivevano tradizioni culturali slave (di lingua slovena e croata) e italiche (di lingua veneta) e se è vero che le città più importanti avevano nomi italiani ciò dipende dal fatto che la stratificazione sociale coincideva con quella etnica, per cui salire lungo la scala sociale significava anche cambiare quadro di riferimento culturale. Dato che una certa cultura urbana e imprenditoriale si era sedimentata durante il possesso veneziano, urbanizzarsi e passare dalla condizione di contadino a quella di commerciante implicava di fatto un processo di italianizzazione. Viceversa, scendere lungo la scala sociale era inevitabilmente collegato a una progressiva slavizzazione culturale. Sono innumerevoli gli esempi storici di questi passaggi culturali associati a un cambiamento di status sociale, che a noi sembrano particolarmente strani perché siamo cresciuti (quasi sempre inconsapevolmente) dentro la religione delle radici culturali, che ci sembrano un dato di fatto immutabile (ma aspettiamo che prenda veramente piede la retorica del Dna, e poi vedremo che succederà).
L’Istria è vissuta di questo, l’Istria è stata questo per diversi secoli: una terra in cui nelle città tutti sapevano parlare il veneto e un po’ la lingua dell’altro perché l’altro spesso non era poi così lontano (a volte era parente dimenticato) e nelle campagne si parlavano lo sloveno e il croato sperando spesso di poter imparare un po’ di veneto. Dire, oggi, che quelle erano “terre nostre” rischia di nutrire una nostalgia rancorosa che non serve a nessuno, né a chi ha sofferto il dramma delle morti, delle fughe e dell’esilio, né a chi è rimasto cercando di dimenticare, né ai nuovi arrivati spostati dalle aree orientali della Jugoslavia da Tito per de-italianizzare la regione in modo definitivo e che comunque sono lì da sessant’anni e non si capisce perché, dopo tanti anni, ormai nati e cresciuti nell’Istria jugoslava e poi slovena e croata, dovrebbero sentirsi ospiti sulla terra di qualcun altro.
Come sempre in questi casi, il confine tra il cinismo politico da un lato (il negazionismo di cui parla Gianni Cervetti sul Corriere del 12 febbraio) e il furore nazionalista dall’altro (che nessuno spazio di legittimità aveva lasciato agli “slavi” nell’Istria italiana) è flebile e sottile, e bisogna passarci dentro senza farsi pizzicare dall’orgoglio o dal calcolo, per arrivare a capire davvero il dolore dei popoli esiliati, senza per questo mettersi a giocare agli apprendisti stregoni con le alchimie dei confini politici. L’Istria, vivaddio, non è “terra nostra” in quanto italiana, è terra di dolore che appartiene agli individui che l’hanno costruita, calpestata, coltivata, amata, senza dare precedenze a una lingua o all’altra, a uno stato o all’altro. Benedetta l’Unione Europea, da questo punto di vista: appena anche la Croazia vi farà ingresso, potremo tutti dire che l’Istria è “cosa nostra”, di noi Europei.
Se le parole di Napolitano sono benvenute e benedette, perché offrono un conforto a cuori maltrattati per decenni, non credo che questo ci autorizzi a dire che quelle terre “sono nostre” se, come sembrava dal contesto, si tratta di una rivendicazione nazionale.
Il dramma di troppe terre come l’Istria è stato quello di non veder riconosciuto da un certo momento in poi il proprio carattere multiculturale e meticcio. Aree come la Macedonia, l’Irlanda del Nord, i Paesi Baschi, il Kosovo, la Bosnia sono costitutivamente molteplici e multiformi, attraversate dalla diversità (di volta in volta linguistica, culturale, religiosa, “razziale”, o un insieme di queste variabili), ed è quando questo dato di fatto è stato negato (spesso prima dagli stati “proprietari” e poi dai gruppi maggiormente presenti in determinate fase storiche) che sono successi i peggio casini.
L’Istria era una regione in cui convivevano tradizioni culturali slave (di lingua slovena e croata) e italiche (di lingua veneta) e se è vero che le città più importanti avevano nomi italiani ciò dipende dal fatto che la stratificazione sociale coincideva con quella etnica, per cui salire lungo la scala sociale significava anche cambiare quadro di riferimento culturale. Dato che una certa cultura urbana e imprenditoriale si era sedimentata durante il possesso veneziano, urbanizzarsi e passare dalla condizione di contadino a quella di commerciante implicava di fatto un processo di italianizzazione. Viceversa, scendere lungo la scala sociale era inevitabilmente collegato a una progressiva slavizzazione culturale. Sono innumerevoli gli esempi storici di questi passaggi culturali associati a un cambiamento di status sociale, che a noi sembrano particolarmente strani perché siamo cresciuti (quasi sempre inconsapevolmente) dentro la religione delle radici culturali, che ci sembrano un dato di fatto immutabile (ma aspettiamo che prenda veramente piede la retorica del Dna, e poi vedremo che succederà).
L’Istria è vissuta di questo, l’Istria è stata questo per diversi secoli: una terra in cui nelle città tutti sapevano parlare il veneto e un po’ la lingua dell’altro perché l’altro spesso non era poi così lontano (a volte era parente dimenticato) e nelle campagne si parlavano lo sloveno e il croato sperando spesso di poter imparare un po’ di veneto. Dire, oggi, che quelle erano “terre nostre” rischia di nutrire una nostalgia rancorosa che non serve a nessuno, né a chi ha sofferto il dramma delle morti, delle fughe e dell’esilio, né a chi è rimasto cercando di dimenticare, né ai nuovi arrivati spostati dalle aree orientali della Jugoslavia da Tito per de-italianizzare la regione in modo definitivo e che comunque sono lì da sessant’anni e non si capisce perché, dopo tanti anni, ormai nati e cresciuti nell’Istria jugoslava e poi slovena e croata, dovrebbero sentirsi ospiti sulla terra di qualcun altro.
Come sempre in questi casi, il confine tra il cinismo politico da un lato (il negazionismo di cui parla Gianni Cervetti sul Corriere del 12 febbraio) e il furore nazionalista dall’altro (che nessuno spazio di legittimità aveva lasciato agli “slavi” nell’Istria italiana) è flebile e sottile, e bisogna passarci dentro senza farsi pizzicare dall’orgoglio o dal calcolo, per arrivare a capire davvero il dolore dei popoli esiliati, senza per questo mettersi a giocare agli apprendisti stregoni con le alchimie dei confini politici. L’Istria, vivaddio, non è “terra nostra” in quanto italiana, è terra di dolore che appartiene agli individui che l’hanno costruita, calpestata, coltivata, amata, senza dare precedenze a una lingua o all’altra, a uno stato o all’altro. Benedetta l’Unione Europea, da questo punto di vista: appena anche la Croazia vi farà ingresso, potremo tutti dire che l’Istria è “cosa nostra”, di noi Europei.
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martedì 13 febbraio 2007
Quarantene comunicative
Elie Wiesel, scrittore premio nobel per la pace, è stato aggredito da un negazionista qualche giorno fa nell'ascensore dell'albergo dove alloggiava, a San Francisco. Un giovane (tale Eric Hunt), secondo la ricostruzione di Wiesel, gli si è avvicinato "prentendendo" con la forza di intervistarlo. Al suo rifiuto Hunt ha messo in atto il tentativo di portarlo a forza nella sua stanza, tentativo da cui ha desistito dopo che Wiesel ha iniziato a invocare aiuto.
Di questo spiacevole incidente mi ha colpito in particolare la motivazione: "I negazionisti esistono in tutto il mondo e la mia regola è sempre stata di non concedere loro l'onore di un dibattito, perché li considero moralmente malati. Per questo mi odiano".
In sostanza, dice Wiesel, la sua strategia è quella di negare ai negazionisti uno spazio di discussione pubblica. Attenzione, non si tratta di un divieto di parola, ma di una sanzione morale che li nega come interlocutori legittimi. Parlate pure, dite quel che vi pare a chi vi pare, ma non avrete mai l'onore di parlare "con me".
Chissà se in questo stile comunicativo si può rinvenire qualche spiraglio tra il monologo delle dittature e la cacofonia dello sbragamento politically correct. Così, a spanne, sembra un criterio interessante. Pensiamo a come si potrebbe applicare nel mondo della comunicazione di massa. Come direttore di giornale, non pretenderei certo che la realtà sociale si uniformi ai miei giudizi e ai miei criteri di moralità, ma potrei semplicemente dire: nel mio giornale certe opinioni non voglio che abbiano spazio, per non concedere credibilità morale a chi le emette.
Esempio pratico: sullo stesso numero del Corriere della Sera che riporta la notizia di Wiesel si riportano le interviste ad alcuni conoscenti dell'adolescente catanese accusato di essere l'assassino dell'ispettore Filippo Raciti. Tra queste la voce di Salvo, 16 anni: "Ma quale ultrà? È uno bonaccione"; e quella del gestore del locale dove sono state raccolte le interviste: "Sono picciriddi e lui era il più debole del gruppo. Comunque sono tutti figli di lavoratori e gente onesta. Niente malavita. Gli ultrà pericolosi sono da altre parti". Forse, ma dico forse, un direttore di giornale che provasse a usare la strategia di Wiesel dovrebbe assumersi la responsabilità di non pubblicare cose del genere, perché "moralmente malate". Certo, quella che per un editore privato di contenuti potrebbe risultare un'opzione morale forse anche vantaggiosa come strategia di marketing (quanti sceglierebbero felici un giornale sapendo che lì, poniamo, non si citano mai gli interventi di Mario Borghezio o di Vittorio Sgarbi, per fare un paio di esempi al volo?) porrebbe dei seri problemi per il servizio pubblico, ma visto che buona parte dell'informazione è in mano ai privati, tanto vale pensarci. Un patto con gli utenti del tipo: "Sieti adulti e senzienti, se volete leggere/vedere schifezze su questo tema e quest'altro non avete che da accomodarvi altrove. Mica vogliamo impedire a chiunque di dire sconcezze e a chiunque di esserne utente, ma noi preferiamo fare altro". Io dico che un patto del genere reggerebbe.
Di questo spiacevole incidente mi ha colpito in particolare la motivazione: "I negazionisti esistono in tutto il mondo e la mia regola è sempre stata di non concedere loro l'onore di un dibattito, perché li considero moralmente malati. Per questo mi odiano".
In sostanza, dice Wiesel, la sua strategia è quella di negare ai negazionisti uno spazio di discussione pubblica. Attenzione, non si tratta di un divieto di parola, ma di una sanzione morale che li nega come interlocutori legittimi. Parlate pure, dite quel che vi pare a chi vi pare, ma non avrete mai l'onore di parlare "con me".
Chissà se in questo stile comunicativo si può rinvenire qualche spiraglio tra il monologo delle dittature e la cacofonia dello sbragamento politically correct. Così, a spanne, sembra un criterio interessante. Pensiamo a come si potrebbe applicare nel mondo della comunicazione di massa. Come direttore di giornale, non pretenderei certo che la realtà sociale si uniformi ai miei giudizi e ai miei criteri di moralità, ma potrei semplicemente dire: nel mio giornale certe opinioni non voglio che abbiano spazio, per non concedere credibilità morale a chi le emette.
Esempio pratico: sullo stesso numero del Corriere della Sera che riporta la notizia di Wiesel si riportano le interviste ad alcuni conoscenti dell'adolescente catanese accusato di essere l'assassino dell'ispettore Filippo Raciti. Tra queste la voce di Salvo, 16 anni: "Ma quale ultrà? È uno bonaccione"; e quella del gestore del locale dove sono state raccolte le interviste: "Sono picciriddi e lui era il più debole del gruppo. Comunque sono tutti figli di lavoratori e gente onesta. Niente malavita. Gli ultrà pericolosi sono da altre parti". Forse, ma dico forse, un direttore di giornale che provasse a usare la strategia di Wiesel dovrebbe assumersi la responsabilità di non pubblicare cose del genere, perché "moralmente malate". Certo, quella che per un editore privato di contenuti potrebbe risultare un'opzione morale forse anche vantaggiosa come strategia di marketing (quanti sceglierebbero felici un giornale sapendo che lì, poniamo, non si citano mai gli interventi di Mario Borghezio o di Vittorio Sgarbi, per fare un paio di esempi al volo?) porrebbe dei seri problemi per il servizio pubblico, ma visto che buona parte dell'informazione è in mano ai privati, tanto vale pensarci. Un patto con gli utenti del tipo: "Sieti adulti e senzienti, se volete leggere/vedere schifezze su questo tema e quest'altro non avete che da accomodarvi altrove. Mica vogliamo impedire a chiunque di dire sconcezze e a chiunque di esserne utente, ma noi preferiamo fare altro". Io dico che un patto del genere reggerebbe.
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Pasque di sangue
In diverse librerie Pasque di sangue di Ariel Toaff risulta già esaurito. Forse il libro non ha avuto una promozione adeguata e questo sarebbe un male (se cosí fosse, ce ne sarebbe da dire sulla promozione della saggistica in Italia), forse l'attenzione è veramente altissima, e questo sarebbe un male. Io lo cerco, e me lo leggo. Poi magari ne parliamo.
Travagli più antichi
Mi ricordavo che Travaglio l'aveva sparata grossa contro Sofri anni fa (lo citava anche il figlio Luca, al quale rivolgo intanto le mie scuse per avergli stupidamente dato del "moscio" anni fa, mentre è invece uno dei migliori giornalisti del nostro Paese) ma non avevo il riferimento preciso né il tempo di andarlo a cercare. Ci ha pensato Adriano Sofri a rinfrescarmi la memoria nella sua Piccola Posta del Foglio di sabato scorso (10 febbraio). Lo riporto tanto perché ci si ricordi della pasta di cui è fatto l'uomo:
Preoccupato per la sobrietà con la quale, interpellato dal Corriere, Travaglio si era accontentato d iintimarmi un dignitoso silenzio, ho spedito al Corriere la solita letterina, tesa a far conoscere anche a quei lettori la versione di Travaglio cui resto attaccatissimo. Questa letterina: "Gentile direttore, ho notato la nuova moderazione con la quale Marco Travaglio si è pronunciato ieri sul mio conto, limitandosi a segnalare che sono stato condannato, e che 'trafficavo con Craxi e Martelli' (sic). Eppure, trattandosi della mia partecipazione a una discussione assai pubblica, aveva l'occasione apropriata alle più nitide parole che sul mio conto scrisse dieci anni fa: 'Quando uscirà di galera, lo faccia in punta di piedi, scrisciando contro i muri magari nottetempo, senza farsi vedere né sentire... Meglio che scompaia dalla circolazione. Perché a qualcuno, sentendolo ancora parlare, potrebbe venire la tentazione di ripensarci e di andarlo a cercare. Lievemente incazzato'. Da allora io non ho cambiato le mie abitudini e, quando non sono in galera, vado a piedi, prendo l'autobus, viaggio in treno (a mie spese, anche quando mi invitano a un dibattito) e non sono fisicamente in gran forma: non ho ancora visto comparire sulla mia strada Travaglio, squadrista per conto terzi. Cordiali saluti". Cordiali saluti.
Una mia postilla: Travaglio è quello che in sostanza vorrebbe che Adriano Sofri rimanga in prigione non per essere responsabile dell'omicidio Calabresi (colpevolisti, mettetevi il cuore in pace: sul quel fatto NON CI SONO PROVE, solo un cumulo di contraddizioni di Leonardo Marino, leggete i documenti e giudicate da voi) ma invece per aver detto cose terribili più di trent'anni fa, cose che possono aver istigato l'odio. Mi domando come giudicherebbe l'intera faccenda, il buon Travaglio, se quell'uomo da lui condannato per le sue opinioni e minacciato con toni paramafiosi la pensasse allo stesso modo sul suo conto. Pensasse cioè che è giusto condannare un uomo a vent'anni di galera per avere (forse) istigato qualcuno a commettere del male.
Preoccupato per la sobrietà con la quale, interpellato dal Corriere, Travaglio si era accontentato d iintimarmi un dignitoso silenzio, ho spedito al Corriere la solita letterina, tesa a far conoscere anche a quei lettori la versione di Travaglio cui resto attaccatissimo. Questa letterina: "Gentile direttore, ho notato la nuova moderazione con la quale Marco Travaglio si è pronunciato ieri sul mio conto, limitandosi a segnalare che sono stato condannato, e che 'trafficavo con Craxi e Martelli' (sic). Eppure, trattandosi della mia partecipazione a una discussione assai pubblica, aveva l'occasione apropriata alle più nitide parole che sul mio conto scrisse dieci anni fa: 'Quando uscirà di galera, lo faccia in punta di piedi, scrisciando contro i muri magari nottetempo, senza farsi vedere né sentire... Meglio che scompaia dalla circolazione. Perché a qualcuno, sentendolo ancora parlare, potrebbe venire la tentazione di ripensarci e di andarlo a cercare. Lievemente incazzato'. Da allora io non ho cambiato le mie abitudini e, quando non sono in galera, vado a piedi, prendo l'autobus, viaggio in treno (a mie spese, anche quando mi invitano a un dibattito) e non sono fisicamente in gran forma: non ho ancora visto comparire sulla mia strada Travaglio, squadrista per conto terzi. Cordiali saluti". Cordiali saluti.
Una mia postilla: Travaglio è quello che in sostanza vorrebbe che Adriano Sofri rimanga in prigione non per essere responsabile dell'omicidio Calabresi (colpevolisti, mettetevi il cuore in pace: sul quel fatto NON CI SONO PROVE, solo un cumulo di contraddizioni di Leonardo Marino, leggete i documenti e giudicate da voi) ma invece per aver detto cose terribili più di trent'anni fa, cose che possono aver istigato l'odio. Mi domando come giudicherebbe l'intera faccenda, il buon Travaglio, se quell'uomo da lui condannato per le sue opinioni e minacciato con toni paramafiosi la pensasse allo stesso modo sul suo conto. Pensasse cioè che è giusto condannare un uomo a vent'anni di galera per avere (forse) istigato qualcuno a commettere del male.
lunedì 12 febbraio 2007
Identità e ricerca
Ariel Toaff ha da poco pubblicato un libro, Pasque di sangue, dimostrando un coraggio intellettuale spropositato. Avere l'ardire anche solo di concepire un simile programma di ricerca storica è sufficiente per farci togliere il cappello di fronte a un'impresa del genere. Non riesco a pensare un oggetto di ricerca che metterebbe in discussione la mia identità individuale, familiare e nazionale con una simile "compatezza". Toaff è riuscito con un libro solo a inimicarsi i suoi compatrioti, i suoi correligionari e la sua famiglia. E lo sapeva, sicuramente lo sapeva che stava scherzando coi santi, attività notoriamente rischiosa. Onore a lui. Se nell'ambiente della ricerca circolasse solo un centesimo del suo fegato, gli effetti sociali sarebbero sconvolgenti.
sabato 10 febbraio 2007
Travagli
Marco Travaglio è una persona intelligente. Lo si capisce da quello che scrive, da come scrive, dalla capacità di argomentare le sue posizioni, anche quando non considivisibili.
Marco Travaglio sembra anche una persona a modo, un piemontese fedele al suo stereotipo etnico di persona "cortese". Lo si vede da come parla, sempre compito, senza bisogno di alzare la voce perché lui porta la forza degli argomenti.
Ecco, se Marco Travaglio è veramente intelligente e a modo, non capisco cosa lo trattenga dal leggere le carte dei processi in cui è stato coinvolto Adriano Sofri con la stessa cura e la stessa lucidità con cui ha letto le carte dei molti processi a Berlusconi e ad altri personaggi del suo entourage. Se lo facesse, proprio perché ha dimostrato in diverse occasioni di essere intelligente e compito, non potrebbe non rendersi conto che (indipendentemente dalle effettive responsabilità di Adriano Sofri nell'omicidio del commissario Calabresi) i processi che tengono in galera Sofri sono stati condotti in modo indecente.
Che Sofri abbia detto e scritto cose terribili quando era a capo di Lotta Continua non è una ragione sufficiente per essere condannato alla galera per omicidio senza la minima prova, tanto più se Sofri ha dimostrato da tempo, molto prima di essere arrestato, il suo totale ravvedimento rispetto a quelle parole.
Che la vedova D'Antona abbia da ridire se Sofri partecipa a un incontro in cui si discute delle sorti del Partito Democratico è una scelta che merita rispetto: chi si è visto sottrarre un proprio caro in quel modo barbaro e devastante ha il diritto al risentimento.
Ma Travaglio no, a meno che non ci sia qualcosa del suo passato che non sappiamo. Se è veramente quel che sembra, se il suo spirito coincide con l'immagine che dà di sé in pubblico, allora si legga le carte dei processi Calabresi, e la smetta di fare del male a un uomo mite in galera da troppi anni e alla sua stessa immagine di giornalista inflessibile ma non prevenuto.
Marco Travaglio sembra anche una persona a modo, un piemontese fedele al suo stereotipo etnico di persona "cortese". Lo si vede da come parla, sempre compito, senza bisogno di alzare la voce perché lui porta la forza degli argomenti.
Ecco, se Marco Travaglio è veramente intelligente e a modo, non capisco cosa lo trattenga dal leggere le carte dei processi in cui è stato coinvolto Adriano Sofri con la stessa cura e la stessa lucidità con cui ha letto le carte dei molti processi a Berlusconi e ad altri personaggi del suo entourage. Se lo facesse, proprio perché ha dimostrato in diverse occasioni di essere intelligente e compito, non potrebbe non rendersi conto che (indipendentemente dalle effettive responsabilità di Adriano Sofri nell'omicidio del commissario Calabresi) i processi che tengono in galera Sofri sono stati condotti in modo indecente.
Che Sofri abbia detto e scritto cose terribili quando era a capo di Lotta Continua non è una ragione sufficiente per essere condannato alla galera per omicidio senza la minima prova, tanto più se Sofri ha dimostrato da tempo, molto prima di essere arrestato, il suo totale ravvedimento rispetto a quelle parole.
Che la vedova D'Antona abbia da ridire se Sofri partecipa a un incontro in cui si discute delle sorti del Partito Democratico è una scelta che merita rispetto: chi si è visto sottrarre un proprio caro in quel modo barbaro e devastante ha il diritto al risentimento.
Ma Travaglio no, a meno che non ci sia qualcosa del suo passato che non sappiamo. Se è veramente quel che sembra, se il suo spirito coincide con l'immagine che dà di sé in pubblico, allora si legga le carte dei processi Calabresi, e la smetta di fare del male a un uomo mite in galera da troppi anni e alla sua stessa immagine di giornalista inflessibile ma non prevenuto.
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Che fastidio
Non ho la forza per fare una recensione a Apocalypto. E avendo letto poco i giornali nel periodo in cui era dibattuto, rischierei di spacciare solo un po’ di acqua calda. A me il film è piaciuto, e mi basta sintetizzare questo, senza cercare di spiegare perché.
Voglio però segnalare uno dei possibili punti di fastidio. A me almeno, in certi momenti ha fatto l’effetto che mi fecero Piccolo grande uomo e Soldato blu, e cioè la magra scoperta che il sistema buoni/cattivi non era quello che avevo appreso al cinema dell’oratorio di don Ettore, e che ci poteva essere del male dove mi avevano insegnato regnava il bene.
Certo, ho deciso di studiare antropologia sedotto proprio dalle culture mesoamericane (in particolare gli Aztechi) e quindi avevo presente il sistema dei sacrifici umani e la violenza degli stati messicani precolombiani. Ma la forza “espressiva” di Mel Gibson porta paradossalmente alla luce tutta la distanza che c’è tra conoscenza ed esperienza.
Apocalypto, la tensione di due ore di inseguimento, mi ha costretto a fare i conti con i notevoli residui che mi porto dentro del mito del buon selvaggio. Io, che insegno agli studenti a diffidare del buonismo ecologista e naturalista, mi sono accorto che vedere il male “nativo” in tutto la sua possanza mi ha messo a disagio.
Leggendo Mary Douglas (Come pensano le istituzioni) forse ho capito una delle fonti di quel fastidio. È una tesi provocatoria, che l’antropologa britannica butta lì alla ricerca di tutt’altro quadro esplicativo, ma mi pare regga e valga la pena di essere verificata o almeno pensata a fondo.
Gli studi sulle motivazioni dell’azione sociale (perché mai accettiamo l’idea di collaborare, se la collaborazione spesso non porta vantaggi immediati. Insomma: perché tutti gli uomini tendono a vivere in società e non isolatamente) hanno enucleato una originaria “comunità” (che oggi avrebbe la forma residuale delle comuni fricchettone, dei villaggi contadini speduti, e delle popolazioni “native”) che non avrebbe ancora raggiunto la dimensione tale per essere sottoposta alla pressione della “razionalità economica” e che quindi vedrebbe la sua azione sociale organizzarsi sulla base di altri principi, non “razionali” in senso di stretto tornaconto individuale. Contestando che sia la dimensione ridotta a garantire la possibilità di evitare l’assalto dell’homo oeconomicus, Douglas dice che questo fantomatico soggetto “comunitario” che non ha impulsi competitivi o egoistici potrebbe essere null’altro che una deformazione prospettiva dovuta agli effetti del contesto coloniale. Ecco le sue parole:
Naturalmente, nel contesto delle condizioni coloniali era più facile immaginare una comunità non coercitiva. Infatti alle popolazioni sottomesse non veniva più permesso di continuare i loro precedenti fruttuosi traffici di fucili, di avorio e di schiavi. Né era loro più consentito lottare per il primato nella caccia alle teste o in rischiose razzie di bestiame, né tendere imboscate, rubare mogli o eseguire vendette sanguinose. Nell’ambito dell’economia coloniale, dove l’unico incentivo economico a lavorare consisteva nei bassi redditi derivanti dalla vendita dei prodotti agricoli, era facile supporre che la comunità originale non offrisse alcun incentivo individuale al guadagno (pp. 58-59).
Mi pare che Apocalypto faccia definitivamente a pezzi quell’immagine dell’indio “buon diavolo”, che a me piace tanto (più che ai tzotzil del Subcomandante Marcos, penso ai poveri diavoli guidati da Nestor Cerpa Cartolini, che sequestrarono il personale dell’ambasciata giapponese del Perù nel 1997 e furono massacrati dai corpi speciali di Fujimori mentre giocavano a pallone con le loro presunte vittime).
Voglio però segnalare uno dei possibili punti di fastidio. A me almeno, in certi momenti ha fatto l’effetto che mi fecero Piccolo grande uomo e Soldato blu, e cioè la magra scoperta che il sistema buoni/cattivi non era quello che avevo appreso al cinema dell’oratorio di don Ettore, e che ci poteva essere del male dove mi avevano insegnato regnava il bene.
Certo, ho deciso di studiare antropologia sedotto proprio dalle culture mesoamericane (in particolare gli Aztechi) e quindi avevo presente il sistema dei sacrifici umani e la violenza degli stati messicani precolombiani. Ma la forza “espressiva” di Mel Gibson porta paradossalmente alla luce tutta la distanza che c’è tra conoscenza ed esperienza.
Apocalypto, la tensione di due ore di inseguimento, mi ha costretto a fare i conti con i notevoli residui che mi porto dentro del mito del buon selvaggio. Io, che insegno agli studenti a diffidare del buonismo ecologista e naturalista, mi sono accorto che vedere il male “nativo” in tutto la sua possanza mi ha messo a disagio.
Leggendo Mary Douglas (Come pensano le istituzioni) forse ho capito una delle fonti di quel fastidio. È una tesi provocatoria, che l’antropologa britannica butta lì alla ricerca di tutt’altro quadro esplicativo, ma mi pare regga e valga la pena di essere verificata o almeno pensata a fondo.
Gli studi sulle motivazioni dell’azione sociale (perché mai accettiamo l’idea di collaborare, se la collaborazione spesso non porta vantaggi immediati. Insomma: perché tutti gli uomini tendono a vivere in società e non isolatamente) hanno enucleato una originaria “comunità” (che oggi avrebbe la forma residuale delle comuni fricchettone, dei villaggi contadini speduti, e delle popolazioni “native”) che non avrebbe ancora raggiunto la dimensione tale per essere sottoposta alla pressione della “razionalità economica” e che quindi vedrebbe la sua azione sociale organizzarsi sulla base di altri principi, non “razionali” in senso di stretto tornaconto individuale. Contestando che sia la dimensione ridotta a garantire la possibilità di evitare l’assalto dell’homo oeconomicus, Douglas dice che questo fantomatico soggetto “comunitario” che non ha impulsi competitivi o egoistici potrebbe essere null’altro che una deformazione prospettiva dovuta agli effetti del contesto coloniale. Ecco le sue parole:
Naturalmente, nel contesto delle condizioni coloniali era più facile immaginare una comunità non coercitiva. Infatti alle popolazioni sottomesse non veniva più permesso di continuare i loro precedenti fruttuosi traffici di fucili, di avorio e di schiavi. Né era loro più consentito lottare per il primato nella caccia alle teste o in rischiose razzie di bestiame, né tendere imboscate, rubare mogli o eseguire vendette sanguinose. Nell’ambito dell’economia coloniale, dove l’unico incentivo economico a lavorare consisteva nei bassi redditi derivanti dalla vendita dei prodotti agricoli, era facile supporre che la comunità originale non offrisse alcun incentivo individuale al guadagno (pp. 58-59).
Mi pare che Apocalypto faccia definitivamente a pezzi quell’immagine dell’indio “buon diavolo”, che a me piace tanto (più che ai tzotzil del Subcomandante Marcos, penso ai poveri diavoli guidati da Nestor Cerpa Cartolini, che sequestrarono il personale dell’ambasciata giapponese del Perù nel 1997 e furono massacrati dai corpi speciali di Fujimori mentre giocavano a pallone con le loro presunte vittime).
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Recensione: sms2go
È il servizio di Trenitalia per chi viaggia spesso e vuole sapere prima di arrivare alla stazione se il treno che deve prendere è in ritardo, in modo da potersi eventualmente organizzare altrimenti.
L’ho provato il 7 febbraio 2007 per la prima volta. Ho lasciato con la macchina l’università di Arcavacata alle 14.50, per prendere a Paola l’eurostar 9376 da Reggio Calabria per Roma, previsto per le 15.48. Da Arcavacata a Paola sono poco più di 25 km, diciamo che ci vuole una mezz’oretta senza correre. Prima di partire ho mandato il seguente sms
#9376
al numero 482021.
Dopo pochi secondi, al costo di 50 centesimi (non pochissimo, in effetti), ho ricevuto un messaggio in cui venivo informato che il treno viaggiava con 7 minuti di ritardo e che il rilievo era stato effettuato quattro minuti prima.
In questo modo ho potuto pianificare la mia partenza calcolando un treno puntuale. Dato che sulla direttrice sud-nord non sono rari i ritardi di 30, 40 e anche 60 minuti, il servizio è particolarmente utile per chi, come me, deve spostarsi spesso proprio su quella linea e preferisce poter passare un’altra mezz’ora alla scrivania, piuttosto che sul marciapiede del binario 3 della stazione di Paola.
Impressionante la velocità con cui ho ricevuto l’informazione. Non credo siano passati 120 secondi da quando ho inviato il mio sms a quando ho ricevuto il sms2go.
Farò altre prove, ma per ora il giudizio è positivo.
Sull’aumento dei biglietti dovrei postare a parte, appena faccio due conti.
L’ho provato il 7 febbraio 2007 per la prima volta. Ho lasciato con la macchina l’università di Arcavacata alle 14.50, per prendere a Paola l’eurostar 9376 da Reggio Calabria per Roma, previsto per le 15.48. Da Arcavacata a Paola sono poco più di 25 km, diciamo che ci vuole una mezz’oretta senza correre. Prima di partire ho mandato il seguente sms
#9376
al numero 482021.
Dopo pochi secondi, al costo di 50 centesimi (non pochissimo, in effetti), ho ricevuto un messaggio in cui venivo informato che il treno viaggiava con 7 minuti di ritardo e che il rilievo era stato effettuato quattro minuti prima.
In questo modo ho potuto pianificare la mia partenza calcolando un treno puntuale. Dato che sulla direttrice sud-nord non sono rari i ritardi di 30, 40 e anche 60 minuti, il servizio è particolarmente utile per chi, come me, deve spostarsi spesso proprio su quella linea e preferisce poter passare un’altra mezz’ora alla scrivania, piuttosto che sul marciapiede del binario 3 della stazione di Paola.
Impressionante la velocità con cui ho ricevuto l’informazione. Non credo siano passati 120 secondi da quando ho inviato il mio sms a quando ho ricevuto il sms2go.
Farò altre prove, ma per ora il giudizio è positivo.
Sull’aumento dei biglietti dovrei postare a parte, appena faccio due conti.
lunedì 5 febbraio 2007
Soluzioni
Mancur Olson, cercando di spiegare oltre quarant’anni fa la Logica dell’azione collettiva, affronta la questione dei beni pubblici, beni cioè il cui godimento dovrebbe essere a disposizione di tutti (le strade, l’istruzione, per fare due esempi). Senza farla lunga, Olson dice che in un sistema razionale (in cui cioè ogni individuo pensa immediatamente al proprio tornaconto) l’azione collettiva che produce beni pubblici è impraticabile. Sintetizzando: in un sistema razionale i beni pubblici non dovrebbero essere prodotti. Per due ragioni.
La prima è dovuta alla natura stessa del bene prodotto. Un bene collettivo (un parco pubblico, un’università, una strada asfaltata) per essere tale presuppone necessariamente lo sforzo di molti. Allora l’individuo “razionale” pensa: “Be’, visto che già sono molti a pensarci, perché mi ci dovrei impegnare io? Che contribuisca o meno farà poca differenza!”, e quindi tende, in quanto individuo razionale, a non contribuire, sperando di usufruire gratis del bene (che è per definizione godibile da tutti, anche da quelli che non hanno contribuito alla sua realizzazione.).
La seconda ragione dipende dalla scala dell’utenza. Quanto più un bene è “affollato”, tanto meno sarà utile collettivamente, cessando di essere un bene pubblico (una spiaggia libera con migliaia di bagnanti accalcati cessa la sua funzione pubblica di produttrice di relax; un’autostrada intasata da sovraffollamento cessa la sua funzione pubblica di collegamento rapido). “Quindi” – dice sempre l’individuo razionale – “meno siamo meglio stiamo. Meno il bene è funzionale, meno sarà usato, quindi più sarà funzionale!”. E così non partecipa alla produzione del bene per ridurre il numero dei potenziali fruitori.
Se quindi tutti si comportassero razionalmente, i beni pubblici non verrebbero mai realizzati. Ora, non so se questa teoria è giusta, ma se Olson ha ragione nella premessa, ha ragione anche nella conseguenza: visto che “razionalmente” i beni pubblici non sono producibili, e che la storia invece ci dimostra che possono essere prodotti, allora la motivazione che tiene in piedi la produzione e il mantenimento dei beni pubblici dev’essere di altro ordine.
Olson dice che l’azione collettiva può essere spiegata solo in due modi:
a. con la coercizione (il bastone) per cui il singolo teme una punizione se non partecipa.
b. con qualche forma di incentivo al singolo (la carota) che viene spinto al suo tornaconto personale dalla convinzione che se partecipa ottiene un premio.
Pensavo, così, tra le altre cose, che uno dei problemi fondamentali dell’Università italiana è quello di essere un bene pubblico senza bastone e senza carota. Non c’è nessuna forma di coercizione per imporre certi standard nella didattica, nella ricerca e nella gestione; e non esiste nessuna forma di incentivo che spinga i singoli a contribuire.
Detto altrimenti: non credo che l’Università possa migliorare fin quando propone a molti stipendi minimi (nessun incentivo) e controlli assenti (nessuna coercizione). È inevitabile che in questo quadro la tendenza sia quella prevista da Olson, e cioè: “Lasciamola fare a qualcun altro”, qualunque cosa sia la cosa da fare.
Io non voglio uno stipendio di 1.000 euro al mese per il resto della vita senza che nessuno verifichi come e se lavoro. Voglio uno stipendio di 4.000 al mese per un semestre. E come me tutti gli altri. E poi il contratto per altri sei mesi lo ottengono i “migliori”, valutati come si valutano i docenti in tutti gli atenei civili (pubblicazioni e didattica). Datemi questo, e poi ne riparliamo di crisi dell’Università.
La prima è dovuta alla natura stessa del bene prodotto. Un bene collettivo (un parco pubblico, un’università, una strada asfaltata) per essere tale presuppone necessariamente lo sforzo di molti. Allora l’individuo “razionale” pensa: “Be’, visto che già sono molti a pensarci, perché mi ci dovrei impegnare io? Che contribuisca o meno farà poca differenza!”, e quindi tende, in quanto individuo razionale, a non contribuire, sperando di usufruire gratis del bene (che è per definizione godibile da tutti, anche da quelli che non hanno contribuito alla sua realizzazione.).
La seconda ragione dipende dalla scala dell’utenza. Quanto più un bene è “affollato”, tanto meno sarà utile collettivamente, cessando di essere un bene pubblico (una spiaggia libera con migliaia di bagnanti accalcati cessa la sua funzione pubblica di produttrice di relax; un’autostrada intasata da sovraffollamento cessa la sua funzione pubblica di collegamento rapido). “Quindi” – dice sempre l’individuo razionale – “meno siamo meglio stiamo. Meno il bene è funzionale, meno sarà usato, quindi più sarà funzionale!”. E così non partecipa alla produzione del bene per ridurre il numero dei potenziali fruitori.
Se quindi tutti si comportassero razionalmente, i beni pubblici non verrebbero mai realizzati. Ora, non so se questa teoria è giusta, ma se Olson ha ragione nella premessa, ha ragione anche nella conseguenza: visto che “razionalmente” i beni pubblici non sono producibili, e che la storia invece ci dimostra che possono essere prodotti, allora la motivazione che tiene in piedi la produzione e il mantenimento dei beni pubblici dev’essere di altro ordine.
Olson dice che l’azione collettiva può essere spiegata solo in due modi:
a. con la coercizione (il bastone) per cui il singolo teme una punizione se non partecipa.
b. con qualche forma di incentivo al singolo (la carota) che viene spinto al suo tornaconto personale dalla convinzione che se partecipa ottiene un premio.
Pensavo, così, tra le altre cose, che uno dei problemi fondamentali dell’Università italiana è quello di essere un bene pubblico senza bastone e senza carota. Non c’è nessuna forma di coercizione per imporre certi standard nella didattica, nella ricerca e nella gestione; e non esiste nessuna forma di incentivo che spinga i singoli a contribuire.
Detto altrimenti: non credo che l’Università possa migliorare fin quando propone a molti stipendi minimi (nessun incentivo) e controlli assenti (nessuna coercizione). È inevitabile che in questo quadro la tendenza sia quella prevista da Olson, e cioè: “Lasciamola fare a qualcun altro”, qualunque cosa sia la cosa da fare.
Io non voglio uno stipendio di 1.000 euro al mese per il resto della vita senza che nessuno verifichi come e se lavoro. Voglio uno stipendio di 4.000 al mese per un semestre. E come me tutti gli altri. E poi il contratto per altri sei mesi lo ottengono i “migliori”, valutati come si valutano i docenti in tutti gli atenei civili (pubblicazioni e didattica). Datemi questo, e poi ne riparliamo di crisi dell’Università.
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