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mercoledì 23 luglio 2025

Cucire assieme i ricordi

Creta è un posto assurdo, che non conosco affatto anche se la mia specializzazione geografica è la Grecia. Io ho lavorato nella Sterèa Elleda, la Grecia continentale, balcanica, dove si mangia lingua di manzo, l’unico pesce è quello di lago e d’inverno si è investiti da tormente di neve (almeno quando ci stavo io, tra trenta e venticinque anni fa).

Creta invece è un’isola mediterranea per quanto ancora riconoscibilmente veneziana, piena di suoni insoliti per il greco standard che si insegna a scuola. Piena di gente strana, un po’ la Sardegna della Grecia, senza che nessuno si offenda: un’isola che insieme si porta una sua specificità etnica e la forza morale di essere un bastione della nazione “maggiore” cui appartiene, per amore e un po’ per forza.

A Creta si cantano (e ancor più si ballano) le madinadhes. Lo scrivo così, non mantinades, che è una traslitterazione dall’alfabeto greco, visto che la lingua greca non ha il suono “d” autonomo, ma lo produce solo come sonorizzazione della “t” dopo nasale, per cui Freud viene traslitterato SIGMOUNT FROYNT (Σίγκμουντ Φρόυντ) con diversi problemi di resa di pronuncia (si rischia di dire “Sigmud”, oppure “Froind”).

Insomma, madinadha al singolare, parola veneziana: versi di 15 sillabe in rima baciata, spesso improvvisati, come la poesia popolare di tutto il Mediterraneo (o del mondo, ma non lo so, non sono esperto). So però che il modello “alto” della lingua greca cretese è l’Erotocritos di Vitsentzos Kornaros (si può scrivere in diversi modi) che era fratello cretese-greco del veneziano-italiano Andrea Cornaro. Due fratelli: uno scrive il poema fondativo della letterarietà greco-cretese, l’altro scrive centinaia di poesie in italiano (il suo cognome è spesso riportato in veneziano: Corner, con l’accento sulla è, mi raccomando).

Cose che capitano tra i levantini…

Le madinadhes parlano di amori spesso sofferti e questa canzone di Antonis Martsakis mi ha conquistato per come riprende certi temi tipici di questa struttura popolare, ma con una sensibilità e con un “culto della fedeltà” che risale all’Erotokritos e che sento molto vicina a me in questa fase della mia vita. L’immagine del limone e poi dei fiori è quasi stucchevole, certo, ma c’è una consapevolezza della forza del linguaggio che mi commuove.

Non importa che il lume che faceva luce si sia spento, basta la forza della passione a generare dal volto di lei una luce che gli consente di usare anche l’ago e il filo del ricordo. Tenere assieme le cose, nonostante tutto, cucire i pezzi con l’amore anche se quei pezzi, materialmente, non ci sono più. La lampada potrà pure invecchiare, ma la luce che promana dall’amore non può invecchiare, per definizione.

 


https://youtu.be/z4aS66J7Fxg?si=OMFvV342621xwVwE

 

 

ΓΙΑ ΤΟ ΘΕΟ ΜΑΝΑ ΜΟΥ

PER L’AMOR DI DIO, MAMMA MIA

Η λεμονιά που ερέχτηκα σάλλο μοιράσι πέφτει
Για ένα κλαδί λεμονανθό θα με ποδώσει κλέφτη
Αυγή κι ηλιοβασίλεμα λένε ομορφιές του κόσμου
Όσοι δεν εγνωρίσανε τα δυο σου μάτια φως μου

La pianta di limone che amavo è caduta in un altro destino,
per un ramo di fiori di limone mi faranno passare per ladro.
Alba e tramonto chiamano bellezze del mondo,
ma chi non ha visto i tuoi occhi, luce mia, non sa che cos'è bellezza.

Δεντρί που σε καμάρωνα καθημερνή και σχόλη
Κι εδά έγυρες τους κλώνους σου σε ξένο περιβόλι
Όσο περνάει ο καιρός η φλόγα μεγαλώνει
Καίει τα φύλλα της καρδιάς και το κορμί το λιώνει

Albero che ammiravo nei giorni feriali e nei festivi,
ora hai piegato i tuoi rami in un giardino straniero.
Più passa il tempo, più cresce la fiamma,
brucia le foglie del cuore e consuma il corpo.

Θα σαρνηθώ άμα θα δεις δύο φεγγάρια βράδυ
Δυο ήλιους το ξημέρωμα να πορπατούνε ομάδι
Δεν είσαι αγάπη στην καρδιά προσωρινά βαλμένη
Μα είσαι σ ούλο το κορμί μηλιά μου ριζωμένη

Ti rinnegherò solo quando vedrai due lune nella notte,
due soli all’alba camminare insieme.
Non sei un amore passeggero piantato nel cuore,
ma sei radicata in tutto il mio corpo, mio melo.

 

Μηλιά μου κιτρολεμονιά, ρόδο και γιασεμί μου
Ανασασμέ και ανάσα μου και κάθε αναπνοή μου
Ως και ταγριολούλουδα εμπήκανε στη μέση
Και να θαυμάσω δεν μπορώ το ρόδο που μαρέσει

Melo mia, limone e cedro, rosa e gelsomino mio,
respiro e fiato mio, ogni mio respiro sei tu.
Perfino i fiori selvatici si sono messi in mezzo,
e non posso più ammirare la rosa che mi piaceva.

Κάμετε άνθη του μπαξέ στη μέση μονοπάτι
Να δω κι εγώ τη βιόλα μου τη μοσχομυρωδάτη
Έσβησε ο λύχνος που έφεγγα μα δεν το λογαριάζω
Στη λάμψη του προσώπου σου βελόνα μπελονιάζω

Fate, fiori del giardino, un sentiero in mezzo,
che possa anch’io vedere la mia viola profumata.
Si è spento il lume che mi faceva luce, ma non ci bado,
con la luce del tuo volto infilo l’ago e cucio.

Ως κι αν αλλάζουν οι καιροί, ως κι αν περνούνε οι χρόνοι
Παλιώνει ο λύχνος, μα ποτέ το φως του δεν παλιώνει

Anche se i tempi cambiano, anche se passano gli anni,
invecchia la lampada, ma la sua luce non invecchia mai.

 

lunedì 21 luglio 2025

Il problema è il nichilismo

Non è colpa dei giovani se il mondo occidentale sembra diventato un enorme laboratorio di empatia suicidaria (Gad Saad docet): è colpa di chi ha preso il pensiero di Nietzsche e l’ha photoshoppato per Instagram, rendendolo fruibile in pillole anti-motivazionali per adolescenti depressi.

Nietzsche era un pensatore ferocemente elitario, uno che avrebbe sputato in faccia ai suoi stessi fan club. Ma, come tutte le cose complesse e pericolose, una volta democratizzato, il nichilismo è diventato uno strumento di autolesionismo collettivo.

A furia di spiegare che Dio è morto e che i valori sono una costruzione culturale, abbiamo generato un’intera generazione convinta che non valga la pena vivere. E una società convinta che, siccome è colpevole di tutto, la cosa più giusta da fare sia spararsi nei piedi a ripetizione.

Perché il punto è esattamente questo: l’odio per “il Mondo” diventa l’odio per il mondo che ho sotto il culo, quello che mi tocca vivere con questo corpo, questi limiti, questa storia. E se quella storia è occidentale, allora tutto ciò che è Occidente va rifiutato, insultato, sabotato.

Così:

  • visto che in Occidente maschi e femmine hanno avuto ruoli distinti, allora viva ogni forma di ambiguità di genere;
  • visto che in Occidente prevale lo Stato di diritto, allora viva il caos, il tribalismo, le gang, i regimi;
  • visto che in Occidente il monoteismo amorevole ha costituito per duemila anni il quadro morale, allora viva chi lo vuole distruggere: paganesimi, culti della foresta, ayatollah e demoni assortiti;
  • visto che in Occidente si è faticosamente costruita l’accoglienza per le differenze, allora viva chi quelle differenze le sradica, le punisce, le imprigiona: i Putin, i Kadyrov, i Sinwar.

E ancora:

  • visto che l’Occidente ha costruito la razionalità scientifica, allora viva il sentire, le emozioni come metro assoluto, lo scandalo come epistemologia;
  • visto che l’Occidente ha inventato la democrazia rappresentativa, allora viva i leader carismatici, i generali col culto della personalità e i referendum manipolabili;
  • visto che l’Occidente ha teorizzato la rappresentanza politica, allora viva la piazza gridata, lo spontaneismo digitale, la giuria popolare del web;
  • visto che l’Occidente ha creduto nel progresso tecnico, allora viva la decrescita felice, la candela al posto della lampadina, il parto in casa col tamburello;
  • visto che l’Occidente ha elaborato la critica storica, allora viva il mito non verificato, il culto dell’autoctonia e dell’indigenismo, l’epopea anti-coloniale con contorno di mitragliatori.

E infine:

  • visto che in Occidente abbiamo conservato i classici, allora che vengano decostruiti, riscritti, sostituiti con storie inventate da attivisti;
  • visto che in Occidente il femminismo ha lottato per l’autonomia della donna, allora viva chi dice che il corpo femminile è solo un costrutto e può essere affittato a ore;
  • visto che l’Occidente ha istituito le discipline umanistiche come presidio di libertà, allora viva chi le usa per giustificare il terrorismo e mettere in discussione la civiltà stessa che le ha create.

Insomma, questo nichilismo mimetizzato da giustizia sociale è il risultato di tre passaggi:

A. Il nichilismo è, per natura, un pensiero elitario, inadatto alle masse, come l’eroina o la metafisica. Ma nel Novecento, con la crisi delle religioni, delle ideologie e dell’autorità, il nichilismo è diventato pop.

B. Le masse, che non hanno strumenti per pensare filosoficamente, traducono il concetto di “il mondo è privo di senso” in “odio la mia vita”, “odio il mio Paese”, “odio chi mi ha generato”, “odio il mio corpo”, “odio la mia cultura”. Non riescono a decostruire con finezza, quindi si limitano a distruggere con rabbia.

C. Questo nichilismo empatico, sprovvisto di trascendenza e tragicamente immanente, prende la forma di un auto-disprezzo culturale che si chiama, con tutta evidenza, anti-occidentalismo.

Nietzsche voleva “trasvalutare tutti i valori”. Instagram li ha semplicemente ribaltati, come si fa con una frittata. Il risultato è una cultura autoimmune, in cui ogni valore viene percepito come sintomo di un’infezione da estirpare.

Se un tempo c’erano i giovani sovversivi, oggi abbiamo i giovani woke, nichilisti per procura, partigiani pronti ad arruolarsi per la Giusta Causa, ma solo dal 26 aprile in avanti. Uomini e donne che odiano ciò che li ha generati. Si lamentano della gabbia occidentale mentre usano i suoi strumenti, parlano la sua lingua, si muovono sulla sua rete e rivendicano i suoi diritti.

Ma a forza di mordersi la mano che li nutre, stanno rimanendo a digiuno di senso.

 

domenica 20 luglio 2025

Il quarto modo, ovvero dell’arte di sorprendere i già sorpresi

 Pascal Boyer, che non è un nemico della critica sociale, ma neanche un chierichetto del poststrutturalismo, ha scritto qualche anno fa un saggio lucidissimo sulla condizione penosa dell’antropologia culturale. La tesi, detta con garbo accademico ma con la forza di una bastonata: non ci fila più nessuno. I giornali non ci citano, i politici non ci consultano, i cittadini non ci leggono. Gli antropologi culturali sono diventati, nel migliore dei casi, commentatori da margine, e nel peggiore, sacerdoti di culti autoreferenziali. La ragione? Hanno smesso di praticare i primi due modi possibili dell’indagine (la scienza e l’erudizione) per dedicarsi anima e corpo al terzo: le connessioni sorprendenti.

Intendiamoci: nulla di male, in teoria. Le connessioni sorprendenti sono una forma d’arte: vedere l’amante di Shakespeare come un colono dell’Impero, i tamburi dei padri omosessuali di Trinidad come espressione del tardo capitalismo secondo Benjamin, il fondamentalismo islamico come teatro rituale della fragilità dello Stato moderno. Il problema – ci dice Boyer – è che queste connessioni sorprendono sempre meno. In realtà, sorprendono solo l’ambiente stesso che le produce, e mai quello che dovrebbe riceverne l’effetto: il pubblico. Che, comprensibilmente, passa ad altro.

Nel frattempo, però, arriva Alfonso Berardinelli sul Foglio, con un’aria un po’ stanca ma sempre nobile, e difende la dignità dell’intellettuale come figura critica, osante, kantiana. Chi osa, chi “pensa in pubblico”, chi ha il coraggio di uscire dalla specializzazione per parlare del tutto. La sua è un’apologia della Kulturkritik, quella nobile attività che da Baudelaire a Pasolini pretendeva di dire “qualcosa di vero” sulla società tutta, non solo su una sua piega.

Ora, ci sarebbe quasi da commuoversi. Ma è proprio qui che si innesta il problema. Perché quella che Berardinelli chiama Kulturkritik, oggi, è divenuta in realtà un sottogenere delle connessioni sorprendenti: un modo di fingere il coraggio intellettuale mentre si praticano formule vuote, ripetitive e autoreferenziali. La connessione sorprendente è ormai la rima baciata di ogni saggio postilluminato: X (qualsiasi X) in realtà è una forma di Potere. X = Il Potere. Non importa se X è Barbie, la carbonara, i parrucchieri, il razzismo sistemico o l’allevamento intensivo delle capre tibetane. Basta usare parole come performativo, dispositivo, resistenza e il gioco è fatto. Ti danno pure una cattedra, se azzecchi il riferimento a Byung-Chul Han o, per i più visionari, a Yuk Hui, che è come dire: qui si ragiona di trasparenza pornografica o di cosmotecnica asiatica, mica di banali categorie eurocentriche.

Ma chi sorprende tutto questo? Non certo gli addetti ai lavori, che ci sguazzano da trent’anni. E nemmeno il popolo, che nel frattempo si è spostato su altri canali, più pratici o più polemici. Questa “Kulturkritik delle connessioni sorprendenti” ha perso la sorpresa e pure la critica. È diventata un esercizio di stile, uno sport da club, una pantomima accademica. Si pretende di parlare “a nome della società”, ma si parla sempre e solo al proprio simposio. Si finge di “svelare” il potere, ma si è diventati il suo migliore alibi simbolico, su cui lucrare per quanto possibile, come ci ha spiegato Musa al-Gharbi parlandoci dei “capitalisti simbolici”. Si fa la mosca nocchiera, ma si è solo una mosca fastidiosa che ronza nella stanza dove il carro non passa più da tempo.

E allora viene quasi da rimpiangere la figura dell’intellettuale che, se non altro, sapeva delle cose. Quello che studiava davvero Aristotele, o il diritto romano, o la metrica del latino medievale. Che magari non “osava” parlare di tutto, ma quando parlava, almeno lo faceva da una posizione di conoscenza, non di spavalderia. Che non si vergognava di essere erudito. E se era anche scienziato, tanto meglio.

Ma oggi il terzo modo – quello delle connessioni sorprendenti – ha fagocitato tutto. E si presenta con l’etichetta della critica, della cultura, della consapevolezza, della giustizia. È diventato un modo automatico di dire cose che sembrano intelligenti anche quando non lo sono. Il meccanismo si ripete: prendi un fenomeno marginale, associagli un Autore Nobile, inquadralo in una genealogia di potere, condisci con lamentele sulla “narrazione dominante” e voilà: hai prodotto un altro contributo al pensiero critico che non critica nulla. E non spiega nulla.

Questo, a ben vedere, non è solo un problema epistemologico. È anche – e forse soprattutto – un problema morale. Perché si finge un atto di verità mentre si fa solo spettacolo simbolico. E si confonde, come accade ormai sistematicamente, il dominio con il prestigio, il potere con la reputazione, il comando con la stima. Si riduce tutto all’etichetta generica e minacciosa del “Potere”, secondo l’eterna scorciatoia foucaultiana che permette di non distinguere tra chi opprime e chi è solo stimato. Così anche l’accademico con la poltrona, il budget, la visibilità e lo stipendio, si convince di essere un dissidente perseguitato, perché osa criticare lo “sguardo normativo”. È l’ultimo lusso del capitale simbolico: essere riconosciuto proprio perché ti dichiari nemico del riconoscimento.

Ma di questo – promesso – parleremo un’altra volta. Quando sarà il momento di rileggere Joe Henrich. Che, almeno, le cose le studia sul serio.

Riferimenti:

Berardinelli, Alfonso. 2025. Meditate, intellettuali: dovete osare, non potete essere solo degli esperti. Il Foglio, 19 luglio, p. 2.

Boyer, Pascal. 2012. «From Studious Irrelevancy to Consilient Knowledge: Modes of Scholarship and Cultural Anthropology». In Creating consilience: integrating the sciences and the humanities, a cura di Edward Slingerland e Mark Collard, pp. 113-129. Oxford University Press.

Gharbi, Musa al-. 2024. We Have Never Been Woke: The Cultural Contradictions of a New Elite. Princeton University Press.

Henrich, Joseph Patrick. 2016. The secret of our success: how culture is driving human evolution, domesticating our species, and making us smarter. Princeton University Press.