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venerdì 3 novembre 2006

Clifford Geertz (1926-2006)


Ho saputo con qualche giorno di ritardo della scomparsa di Clifford Geertz. Stamattina, durante un appuntamento di lavoro, mi è sembrato inevitabile riportare questa triste notizia a un amico, un bravo storico dai molteplici interessi intellettuali. Di Geertz non sapeva nulla. Sì, forse aveva sentito il suo nome da qualche parte, ma non riusciva minimamente a collocarlo nel panorama delle scienze umane.
Credo che sia questo uno degli aspetti su cui, oggi, dopo la sua scomparsa, vale la pena di riflettere. Per chi si occupa di antropologia il nome di Geertz e il suo lavoro costituiscono punti imprescindibili di confronto. Che la si ami o la si detesti, che la si consideri un’apertura innovativa o un cul de sac che non lascia scampo, l’“antropologia interpretativa” geertziana resta il termine di confronto del dibattito internazionale e nazionale.
Se si comparano le bibliografie di riferimento di due antropologi, è probabile che la sovrapposizione sia minima, ed è ancora più probabile che tra i pochi testi in comune vi siano quelli di Clifford Geertz. Eppure questo non è bastato – almeno in Italia, dato che negli Stati Uniti il suo ruolo di intellettuale gli era riconosciuto da tempo – a rendere il suo nome noto al di fuori dei nostri pascoli domestici. Se a un giornalista di qualche redazione culturale dici “Lévi-Strauss”, gli vedrai brillare l’occhio e lo sentirai chiederti di che si tratta. Se gli nomini Clifford Geertz a malapena ti chiederà chi è.
Destino curioso per un uomo che ha fatto della sua disciplina un campo totale di riflessione sull’uomo partendo sempre da contesti concreti (la “descrizione densa”, come ormai ci piace chiamare la pratica della scrittura etnografica) con finalità insieme conoscitive e politiche.
Nonostante i suoi detrattori si siano sforzati di dimostrare il contrario, Geertz considerava l’antropologia una scienza, ed era convinto che il suo approccio ermeneutico potesse migliorare l’antropologia, non certo renderla imbelle o fuori moda. Forse non gli ha giovato il tono ironico, o la capacità di scudisciare i suoi avversari (ma già è improprio parlare di avversari, pensando a Geertz) sempre in punta di penna, quella penna che sapeva usare con una maestria rara nelle nostre scritture. Eppure non era solo un parafricchettone come a volte è stato descritto, con la sua barba natalizia, il candido capello incolto, le sue cravatte a farfalla. Era uno studioso convinto che uno sforzo ermeneutico applicato alla cultura in generale potesse liberare spazi di convivenza civica e civile, e che l’antropologia culturale avesse un ruolo di primo nello stimolare l’apertura di quegli spazi.
Con un’ironia che era tutta sua, aveva indicato nella ex Jugoslavia un modello di convivenza tra Paese e Nazione, un luogo paradossale da cui provare a ripensare il rapporto tra Stato e identità collettive. Dato che aveva capito il ruolo che le emozioni e i sentimenti giocano nel nostro senso di appartenenza, e aveva giustamente notato che le comunità nazionali si fondano su una serie di elementi considerati dati e immutabili, era stato accusato di essere un primordialista, mentre lui cercava solo di restare fedele al mandato malinowskiano di studiare e presentare le culture “dal punto di vista dei nativi”.
Con le sue riflessioni sulla religione (concepita ovviamente come “sistema culturale”, una categoria fintamente onnicomprensiva nelle sue pubblicazioni, in realtà una parodia terminologica che avrebbe dovuto scardinare il lettore dalle sue ossessioni catalogatrici del reale) aveva aperto già negli anni Sessanta un quadro teorico fortemente innovativo rispetto alla tradizione dei nostri studi, quadro che oggi potrebbe dirci molto sul rapporto religione/politica, in Italia e nel mondo, se solo venisse ripreso e aggiornato.
Per ricordare l’attualità del pensiero di Geertz basterà dire che risale alla metà degli anni Ottanta la stesura di un saggio (“Anti-antirelativismo”) che, se letto con attenzione – il che significa accettandone la sfida intellettuale e insieme stilistica, che non consente letture frettolose – ci costringerebbe a chiudere definitivamente perlomeno il modo con cui si è troppo spesso riaperta la querelle del relativismo, in antropologia e, ancor più oggi, nel generale dibattito della società civile.
Ma anche sulla differenza, sull’incontro con il diverso e sul senso di quell’incontro Geertz ha saputo dirci parole che devono ancora essere ascoltate veramente. La poderosa polemica contro l’etnocentrismo di Lévi-Strauss e Rorty che sottende la stesura de “Gli usi della diversità” si fa contemporaneamente beffe della chiusura “tradizionalista” e dell’apertura “multiculturale”, due opzioni apparentemente senza alternative nel quadro politico delle migrazioni globali.
Le accuse di eccesso di testualismo sono senza dubbio degne di attenzione, ma evidenziano più le sue idiosincrasie come studioso ed etnografo che non punti deboli del suo impianto teorico (e chiedo scusa a Geertz per il semplice fatto di attribuirgli una “teoria”). Tenere a mente la natura semiotica della cultura continua ad essere un approccio proficuo, che sta a noi applicare al visuale, alla cultura materiale, alla prossemica o a qualunque altra interazione non linguistica.
In Italia (ma considerazioni simili si possono estendere a tutti i paesi europei con una forte tradizione di studi di “cultura popolare”) i saggi di Geertz hanno avuto, tra l’altro, l’innegabile merito di costringere al confronto la tradizione “sociale” e quella “umanistica” degli studi antropologici. L’approccio chiaramente “letterario” con cui ha affrontato i temi classici della ricerca antropologica ha avuto cioè il duplice merito di restituire prestigio a un settore di studi spesso relegato nella marginalità del “non scientifico” e di riportare la conoscenza qualitativa entro l’alveo della scienza. Che tutto questo sia accaduto tra polemiche, ripensamenti, critiche e avanzamenti è del tutto normale, ovvio e sano. Quel che premeva a Geertz era che la nostra disciplina non perdesse il proprio senso inseguendo chimere di purezza operazionalizzabile oppure sbracasse definitivamente in un balbettio politicamente corretto ma conoscitivamente senza senso. Convinto che il compito degli antropologi fosse, nel quadro delle scienze in generale, quello dei monelli che scombinano le certezze depositate dalle altre discipline, che rovesciano il servizio buono nel tinello della zia, Geertz è rimasto fedele alle sue idee, per quanto ci potessero irritare o annoiare. Del resto, come disse in chiusura di “Anti-antirelativismo”, ricordando proprio il ruolo inevitabilmente provocatore dell’antropologia, costretta a fare i conti con le stranezze della diversità culturale: “se volevamo verità domestiche, avremmo fatto meglio a starcene a casa”.
Ora che Geertz a casa ci è tornato, a noi resta il compito, fin quando ci sarà concesso, di continuare a viaggiare dentro quelle reti di significati che lui – senza provare orgoglio disciplinare ma anche senza vergogna – chiamava culture.