Un libro importante nella storia dell’antropologia è l’etnografia di Edward E. Evans-Pritchard, pubblicata nel 1940, e titolata The Nuer. A Description of the Modes of Livelihood and Political Institutions of a Nilotic People, (London, Oxford University Press). È stato tradotto in italiano nel 1975 da Bernardo Bernardi, con un sottotitolo diverso, su cui tornerò tra poco: I Nuer. Un’anarchia ordinata (Milano, Franco Angeli).
Evans-Pritchard non era un’anima candida, durante la seconda guerra mondiale lavorò in Africa per il governo di Sua Maestà Britannica addestrando gruppi di guerriglieri locali da attivare contro gli occupanti italiani, e alcune foto della fine degli anni Venti lo ritraggono mentre i “suoi” azande porgono il saluto militare. Eppure, nonostante la sua complicata biografia (si convertì al cattolicesimo nel 1944) le sue etnografie sono ancor oggi considerate dei classici e la loro lettura e discussione è un passo canonico nella formazione degli studenti di questa disciplina. A parte la cura etnografica per la descrizione, e anche senza tener conto dello spessore teorico di alcune sue importanti riflessioni, i testi di Evans-Pritchard sono importanti e affascinanti perché continuano a mantenere fresca quel che oggi si chiama la dimensione allegorica dell’etnografia. Non so quanto consapevolmente, quindi, questo brillante spirito britannico riusciva a parlare di popoli strani attirando l’attenzione dei suoi lettori. Evidentemente perché parlava di “altri” riuscendo a dire cose interessanti anche per “noi”. Molti secoli dopo la Lettera a Cangrande della Scala, in cui si teorizza il quadruplice livello di lettura della Divina Commedia, l’antropologia professionale del Novecento sembra in grado di rivitalizzare quel modello di scrittura: ti racconto una storia, e una storia che ti appassionerà di suo, ma dentro la quale, se vorrai, potrai trovare altri strati, altri sensi, che magari riguardano direttamente proprio te che ascolti.
Ora, prendiamo il caso di un giovane inglese borghese negli anni Venti del Novecento, del tutto conscio della rigidità della struttura sociale del suo paese (certo sapete quanto ancor oggi la stratificazione sociale sia nitida in Gran Bretagna: scuole frequentate, quartieri abitati e spazi sociali praticati segmentano la popolazione in una struttura quasi piramidale) che decide di fare l’antropologo e di andare a studiare le popolazioni indigene del Sudan meridionale (allora territorio britannico). Supponiamo inoltre che questo stesso giovane e brillante studioso abbia interiorizzato l’idea – dopo aver studiato Hobbes, non a caso un inglese, e aver apprezzato l’efficienza del sistema postale britannico ogni mattino – che la ripida scala gerarchica che sta cercando di scalare sia necessaria al mantenimento dell’ordine sociale, che altrimenti andrebbe in frantumi. Ecco, se avete immaginato tutto questo, avrete un’idea credo grossolana ma non del tutto errata di come si sentiva Evans-Pritchard prima di diventare un antropologo che conduce ricerche sul campo.
Ora portatelo in Africa, e fategli scoprire poco a poco che la popolazione che ha deciso di studiare, i nuer (dopo aver studiato la stregoneria tra gli azande) è strutturata dal punto di vista sociale in modo meno semplice di quanto si sarebbe potuto supporre standosene a Londra. I nuer, è vero, non hanno un centro politico, la loro vita di pastorizia nomade esclude lo sviluppo di villaggi troppo strutturati. I nuer non sembrano avere neppure capi equivalenti ai nostri (inglesi) re, autorità poste al vertice della piramide sociale cui tutti sono tenuti ad obbedire. Mancano le figure intermedie della burocrazia gentilizia, mancano insomma i segni evidenti di una strutturazione gerarchica della società. Ma non per questo manca una struttura, anzi. Si tratta di reticoli mobili, basati sul principio della “segmentazione” per cui i gruppi competono quando sono di pari livello e possono cooperare quando invece devono competere con un raggruppamento di livello superiore. In pratica, io litigo con mio fratello per le risorse, ma assieme noi fratelli competiamo coi cugini, e assieme ai cugini competiamo contro i lignaggi rivali, e unendo i lignaggi del nostro clan combattiamo i clan rivali, e più clan si uniscono per combattere una tribù rivale. Insieme, in quando nuer, razziamo i dinka, nostri avversari di sempre. Questa rete segmentaria ha la qualità di essere dinamica e contestuale, adattandosi al livello di cooperazione necessaria allo scopo. Soprattutto, la rete fa della gerarchia una funzione del tempo, non una costante atemporale. Alcuni anziani dei clan più potenti godono di un potere ovviamente maggiore, ma nulla garantisce la continuità di quel potere: il clan si può indebolire nel tempo per semplici ragioni demografiche, il capo dalla pelle di leopardo può perdere prestigio per una serie di decisioni errate, altri capi possono acquisire prestigio e aggregare gruppi clienti.
Tutto questo, per Evans-Pritchard, costituisce lo scandalo di una “anarchia ordinata”: anche se infatti l’espressione non compare nel titolo originale, l’autore la usa nel volume, e sembra prestare particolare attenzione a un implicito confronto con il sistema sociale da cui proviene. I nuer, questo fiero popolo pastorale, da lì in fondo, dalla savana africana, esercitano una severa critica dell’inevitabilità del sistema sociale britannico con la sua rigida strutturazione gerarchica. Non è vero che obbligatoriamente ci debba essere un re alla cima della struttura sociale; non è vero che necessariamente ogni soggetto debba occupare una e una sola posizione nella scala sociale. I nuer sono la prova vivente che si può organizzare una complessa struttura sociale senza gerarchia stabile, che è insomma possibile “un’anarchia ordinata”.
Bene, se mi avete seguito fin qui, pensate ora che da qualche anno esiste nel campo della conoscenza l’equivalente dei nuer nel campo della struttura sociale. Come i nuer ci raccontano con la metafora di loro stessi un modo diverso di concepire la politica, così esiste uno spazio che ci racconta metaforicamente un modo diverso di concepire la conoscenza. Questo spazio si chiama wikipedia, che prendo come l’esempio più mirabile e noto del mondo wiki in generale e, ancor più generalmente, delle forme partecipative di conoscenza in rete.
Se qualcuno avesse proposto a una casa editrice – diciamo una trentina di anni fa – di impostare un’enciclopedia senza direttore, senza comitato scientifico, senza esperti, senza coordinatori di sezioni, senza redattori, senza insomma una redazione strutturata gerarchicamente, ma basandosi invece solo sui contributi spontanei di volontari perlopiù anonimi, credo che quella proposta sarebbe stata cestinata come il delirio di un folle. Anche quando il progetto reale della wikipedia ha iniziato a prendere piede, molti (io compreso) l’avevano preso come un curioso esperimento di buona volontà che mai avrebbe potuto competere con i centri costituiti del Sapere. Chi avrebbe scommesso sul fatto che in pochi anni wikipedia avrebbe raggiunto l’accuratezza dell’Enciclopedia Britannica? Sarà un caso che il confronto sul numero medio di errori si è fatto proprio con questo monumento britannico del sapere consolidato?
Ecco, da dire su wikipedia, sul piano strettamente teoretico, ce ne sarebbe per un antropologo, ma qui a me basta ribadire la bellezza della mia disciplina, che per parlare di wikipedia (per fornire uno sguardo analitico originale su wikipedia, diciamo) è costretta ad andarsene in Africa e cercare di capire a fondo, nel dettaglio, come funziona una società pastorale.
Mi piace perché non si tratta di prendere i nuer come pretesto per parlare d’altro. Questo lo facciamo tutti i giorni, quando parliamo a nuora perché suocera intenda, quando stiamo solo aspettando che quello di fronte a noi finisca di dire la sua così noi, finalmente, possiamo dire la nostra. No, sto parlando di un altro atteggiamento: si tratta di ascoltare veramente i nuer e quello che hanno da dirci. Di provare veramente a capire come vivono uomini che seguono norme culturali spesso molto diverse dalle nostre. Questo è il primo passo. Poi viene il fatto che quella conoscenza acquisita fa sistema con altre nostre conoscenze, e ci permette di rielaborarle in una luce nuova e certo imprevista. Ecco, questo sì, mi piace. E questo, per me è fare antropologia oggi.
APPENDICE
Per chi ha voglia, ecco qui di seguito alcuni estratti da I nuer. Un’anarchia ordinata, che possono essere letti più chiaramente come una metafora della critica al determinismo sociale britannico ma che possono – se si vuole – essere visti come una nuova metafora, di un modo di vivere la rete e il sapere in essa prodotto senza sottomissione, senza gerarchia.
La mancanza, tra i Nuer, di organi governativi, l’assenza di istituzioni legali, di leadership sviluppata e, in genere, di vita politica organizzata, è notevole. Il loro stato è uno stato acefalo basato sulla parentela. Solo con uno studio del sistema di parentela di può capire come si mantenga l’ordine e si stabiliscano e si mantengano le relazioni sociali su aree così vaste. L’anarchia ordinata nella quale essi vivono si accorda con i loro carattere. È impossibile vivere tra i Nuer e immaginare dei governanti che li governino.
Il Nuer è il prodotto di un’educazione dura e egalitaria, profondamente democratico e facilmente portato alla violenza. Il suo spirito turbolento trova ogni restrizione irritabile; nessuno riconosce un superiore sopra di sé. La ricchezza non fa differenza. Un uomo che ha molto bestiame viene invidiato, ma non trattato differentemente da chi ne possiede poco. La nascita non fa differenza. Un uomo può non essere membro del clan dominante della sua tribù, può anche discendere dai Dinka, ma se qualcuno alludesse a questo fatto correrebbe un grave rischio di essere bastonato.
Che ogni Nuer consideri di valere quanto il suo vicino, balza evidente da ogni suo movimento. Incedono come fossero i signori della terra, quali, infatti, si considerano. Nella loro società non ci sono né padroni né servi, ma solo uguali, che si considerano come le creature più nobili di Dio. Il rispetto vicendevole contrasta con il disprezzo che hanno per tutti gli altri. Nei rapporti vicendevoli il solo sospetto di ricevere un ordine è causa di irritazione, e chi lo riceve o non lo compie, oppure lo fa in maniera casuale e dilatoria più insultante di un rifiuto. […] Nelle relazioni quotidiane con gli altri e nel giro dei suoi rapporti, uno mostra rispetto per gli anziani, per i suoi “padri” e ad alcune persone con uno status rituale, purché non interferiscano con la sua indipendenza, ma non si sottometterà mai ad alcuna autorità che contrasti con i suoi interessi, né si considera obbligato ad obbedire a chicchessia. Una volta stavo parlando degli Shilluk con un Nuer che aveva visitato il loro paese il quale mi disse: “Essi hanno un gran capo, noi no. Questo capo può far chiamare uno e chiedergli una mucca oppure può anche ucciderlo. Ma chi mai ha visto un Nuer fare una cosa simile? Chi è dei Nuer che va se gli viene ordinato di andare, o che paga una mucca a chi gliela reclama”
(Traduzione di Bernardo Bernardi, pp. 243-244).