La recente protesta degli atenei italiani contro la cosiddetta "riforma Gelmini" (in realtà contro la 133, vale a dire la finanziaria 2009, che include anche i tagli previsti per la scuola e l'università) segnala, io credo, due distinti problemi. Da un lato ci sono gli studenti, che giustamente reclamano un'università migliore (quale che sia, è sempre migliorabile, e la nostra lo è di molto). D'altro canto c'è una parte non piccola del personale universitario che mi pare fortemente arroccata su posizioni conservatrici, e che vorrebbe semplicemente che non si facesse nulla. Come esempio riporto un pezzo che circola in rete (a me è arrivato su Facebook):
UNIVERSITA' Parla la politologa Nadia Urbinati docente di teoria politica alla Columbia University di New York: «Il modello Usa? Non in Italia»
Teresa Pullano
[dal manifesto del 31/10/08]
Il governo dice di ispirarsi al modello americano e usa l'argomento della meritocrazia contro la «casta» universitaria.
Il modello americano si regge su un'etica che in Italia è un bene scarso. Negli Usa un caso come quello del figlio di Bossi (bocciato all'esame di maturità e poi riammesso dal Tar, ndr) oppure come quello della stessa Gelmini che, per avere l'abilitazione da avvocato, da Brescia è scesa a Reggio Calabria, finirebbero sotto inchiesta e a entrambi verrebbe chiesto di dimettersi. Sono episodi che denotano tutto fuorché il valore del merito, ma in Italia non destano nemmeno scandalo. Senza controllo censorio non c'è meritocrazia possibile. L'università italiana non ha bisogno di nessuna riforma, ne sono già state fatte troppe
Questo pezzo è interessante per le due cose che dice. Per prima cosa, il solito "eccezionalismo mediterraneo": quello che fanno gli anglosassoni per noi non va bene perché loro hanno un'etica, noi no. A parte che per sostenere questa tesi si sottovaluta il peso che hanno avuto le critiche al caso "figlio di Bossi" e al caso "abilitazione della Gelmini", che invece sono stati ampiamente dibattuti dai media, è un argomento al limite del razzismo, e immaginatevelo usato da qualche italiano parlando di albanesi o egiziani o senegalesi: suonerebbe vergognoso. Eppure il gioco di autodenigrazione nazionale può invece proseguire imperterrito, senza tener conto del fatto (storico) che l'etica si costruisce nella prassi (è un modo di fare le cose, non un programma genetico), e che al Regno Unito sono bastati 10 anni di riforma per passare da un sistema universitario bolso e clientelare come il nostro a un modello che attrae cervelli e produce ricchezza materiale e intellettuale.
La seconda cosa, ovviamente, è che "L'unversità italiano non ha bisogno di nessuna riforma", frase che certamente suonerà come musica alle orecchie di chi organizza i concorsi, di chi non ha mai tempo per la didatica, di chi investe il suo tempo nello studio professionale e non nella ricerca.
Del resto, bisogna anche evitare il gioco speculare del benaltrismo, per cui le proposte della Gelmini sarebbero inutili, visto che il vero modo di risolvere la questione è, appunto ben altro.
Il professor Guido Martinotti, ordinario all'Istituto di Scienze Umane di Firenze, scrive oggi sul Corriere della Sera che la recente decisione del ministero di procedere alla formazione delle commissioni d'esame estraendo a sorte tra un pool di docenti votati di estensione tripla a quello dell'effetiva commissione, è in realtà un espediente inutile, dato che, comunque, ogni docente ha i suoi "da portare in cattedra" e non farà altro che quello ai concorsi, qualunque sia il modo in cui è finito in commissione. L'argomento è specioso dato che non è vero che tutti hanno allievi da sistemare di una certa qualità da poter difendere in una commissione parzialmente "casuale", in cui ci può essere finito qualche "nemico". Un conto è organizzare una commisione compattamente fedele, un altro fare i conti con avversari che hanno i loro pupilli. Io dico che così sarà certo più difficile "portare in cattedra" persone impresentabili, e questo mi pare un merito.
Si noti, en passant, che Martinotti sostiene che in fine dei conti il sistema fin qui non era male, dato che "i docenti hanno sviluppato pratiche di accordi preventivi di massima che tendono a ridurre i danni del sistema, soprattutto che entri in commissione il docente marginale con un candidato imprensentabile", e forse questo è vero per il suo settore scientifico disciplinare, ma per altri sicuramente la situazione è proprio l'opposta: docenti non certo marginali che si consorziano per far passare candidati a volte "impresentabili", mentre i docenti "marginali", anche se hanno qualche allievo più che decente, in commissione non ci arrivano mai perché non ci sono le cordate che li votano.
La proposta del professor Martinotti è però interessante, e spero che i nostri rappresentanti ne tengano conto nella discussione parlamentare:
Basta una norma che dica che, nei prossimo concorsi da ricercatore (sono migliaia), nessuno possa candidarsi nell'Ateneo in cui ha conseguito la laurea o il dottorato di ricerca (o ha avuto assegni di ricerca), che non possa ritornarci per almeno cinque anni e che il suo "maestro" non possa entrare in alcuna commissione che lo esaminerà.
Benissimo, mi piace, basta che non si prenda, ora, questa proposta come la panacea. Il prof potrebbe infatti (come è già avvenuto in molti casi) procedere a nepotismo letterale: invece di sponsorizzare il pupillo in un concorso da lui presieduto, lo impone a un professore (di un altro ateneo) che lui "ha messo in cattedra" e che comunque gli deve la carriera: illo tempore ho sistemato te, ora tu sistemi lui. Questo permetterebbe a baroni di lungo corso di continuare a pilotare concorsi anche se il candidato non ha fatto il dottorato nella sede di concorso.
Unendo invece le due proposte (sorteggio e divieto di candidarsi "in casa") i rischi di inghippi clamorosi verrebbero ridotti moltissimo, che è quello che bisogna fare, senza cercare la soluzione perfetta.