Nel 1993 (molto, molto prima dell'11 settembre) Arjun Appadurai, un antropologo indiano che ho citato già su questo blog, scrisse un saggio sul "patriottismo e i suoi futuri". Ho insegnato quel saggio per diversi anni, ma solo dopo l'11 settembre, e mi sembrava irrimediabilmente datato, il segno di un'utopia perduta, come rileggere i giornali scritti prima di una partita importante che la tua squadra ha perso: vedi solo tanta speranza buttata al vento, perché tu, vedendo le cose da dopo sai che non è andata come si sperava. In quell'articolo Appadurai parlava di un'America potenzialmente in grado di diventare uno snodo delle identità senza ridursi al loro luogo d'arrivo, un transito positivo di rielaborazione, che la chiusura consenguente al trauma delle Torri Gemelle sembrava aver vanificato. L'America, soprattutto, come punto di riferimento per altri parti del mondo, che a lei guardano. Dopo l'elezione di Obama sento che quelle parole possono riprendere vita. Ecco le parole di Appadurai (pp. 227-228):
Per gli Stati Uniti, cominciare ad assumere un ruolo di primo piano nella politica culturale di un mondo postnazionale ha complesse implicazioni sul piano domestico. Può voler dire creare nuovi spazi per la legittimazione dei diritti culturali, diritto cioè (garantiti e protetti) al perseguimento della differenza culturale. Può significare la difficile rottura con una concezione dell'economia americana ancora fondamentalmente fordista e incentrata sulla produzione di beni, per imparare a diventare intermediari globali di informazione, fornitori di servizi, insegnanti di stile. Può significare accogliere come parte del nostro vissuto quello che finora abbiamo confinato nel mondo di Broadway, Hollywood e Disneyland: l'importazione di esperimenti, la produzione di fantasie, la fabbricazione di identità, l'esportazione di stili, la lavorazione delle pluralità. Può significare infine distinguere il nostro amore per l'America dalla disponibilità a morire per gli Stati Uniti. Quest'ultima idea concorda con la proposta di Lauren Berlant (The Anatomy of National Fantasy, 1991, p. 217): "Il soggetto che voglia evitare quella melanconica pazzia dell'autoastrazione che chiamiamo cittadinanza, e resistere alla lusinga di poter sconfiggere da solo il materiale contesto politico in cui vive, deve sviluppare una tattica per rifiutare l'intreccio, vecchio di quattrocento anni, tra gli Stati Uniti e l'America, tra la nazione e l'utopia".
Obama sembra avere questa capacità, di fornire un senso di appartenenza più emotivamente saldo della frigida "cittadinanza", eppure abbastanza vasto da sconfiggere il rischio (non solo americano, oggi) del "noi contro tutti": una cittadinanza profonda e sentita, che dia nuovo spessore morale alla parola "patriottismo", che non ha più bisogno di ancorarsi ai confini degli stati nazionali. Questo, credo, potrebbe essere il compito di Obama: aprire lo spazio per un patriottismo postnazionale, dentro cui non serva dire "siamo tutti americani" ma "Obama è il mio presidente, anche se io non sono americano".