Con il mignolo si suonano gli accordi di settima sulla chitarra e ci si toglie il cerume dalle orecchie: la sua ambiguità morale sta tutta racchiusa in questa contrapposizione, uno strano oscillare tra cura preziosa per il dettaglio e sbadata noncuranza.
Il mignolo è analogo nella funzione alle sue dimensioni: con il mignolo ci si occupa delle cose piccole, o delle minuzie, o delle banalità, il che non è esattamente lo stesso.
Molte delle cose che diciamo e che scriviamo (e che leggiamo e che ascoltiamo, ovviamente) sono cose “piccole” non per le loro dimensioni, ma per la pochezza del nostro impegno in esse. A tutti è capitato di dover dire qualcosa per forza, di “aprire la bocca e dargli fiato”, o di mettersi alla tastiera del computer e dover riempire una cartella a tutti i costi. Molte volte, quel che ne è uscito è un pastone un po’ indigesto, figlio soprattutto della fretta di liberarsi di una scocciatura, proprio come si getta con noncuranza la pallina di cerume che il mignolo ha raccolto in fondo all’orecchio.
Ma quando lavoriamo con attenzione, quando usiamo la cura amorevole per il dettaglio, quando il pezzo viene letto e riletto, limato e sistemato perché comunichi veramente il nostro pensiero, allora ci serve la cura del mignolo per scovare quel piccolo difetto nell’angolo, e ci serve la sua precisione per andare al punto, come sulla tastiera della chitarra quel piccolo dito ci dà il sapore finale di un accordo.
Scusate se, alla fine di questo vocabolario, torno ancora alla mia disciplina, l’antropologia culturale, ma credo che sia un buon esempio di applicazione della morale del mignolo. Non mancano i testi di antropologia scritti con quella che io chiamo “la fretta da concorso” e lo si vede nelle pagine gonfie di banalità. Ma se vi capita tra le mani un buon saggio di antropologia, allora potrete assaporare fino in fondo cosa significhi prendersi cura del dettaglio in apparenza inessenziale, nel tentativo di restituire a chi legge la ricchezza dell’esperienza etnografica.
L’antropologia culturale è, nel bene e nel male, il dito mignolo delle scienze sociali, in grado di perdere tempo con minuzie poco rilevanti ma anche capace di colpire al cuore della realtà, cogliendone i nervi scoperti, per quanto ben occultati.
Come consigli finali di lettura, vi propongo quindi due libri di antropologia che secondo me incarnano al meglio questa attenzione per la cura delle piccole cose senza mai cadere nella verbosità del dettaglio inutile. Il primo è Antropologia interpretativa di Clifford Geertz, pubblicato dal Mulino, un libro che con l’idea di “descrizione densa”, e con il racconto di un combattimento clandestino di galli, ha posto le basi per una nuova dignità della ricerca etnografica, che nel frattempo è divenuta un approccio metodologico condiviso da molte scienze umane. Il secondo libro invece è Sentimenti velati di Lila Abu-Lughod, pubblicato da Le Nuove Muse, un libro che racconta con grazia e attenzione il ruolo della poesia in una società beduina. Vedete, combattimenti di galli, poesie improvvisate tra un gruppo di beduini dell’Egitto: si tratta di piccoli temi, di argomenti veramente “minuscoli”, ma presentati con tale cura per il dettaglio che riescono a dirci molte cose anche su di noi, sulla nostra concezione della persona, dell’amore e dell’onore.
A questo punto, concluso il nostro viaggio assieme, come si fa alle stazioni o nei porti, quando si è ormai lontani dalla persona che si sta per salutare e le parole non servono più a molto, raccolgo le cinque dita di cui vi ho parlato, agito la mia mano nell’aria e vi saluto.
Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.