2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

sabato 5 luglio 2025

Hai perso la faccia? Tranquillo, non la cercava nessuno

Leggo con il solito piacere l’articolo sul Foglio dell’adorabile Ester Viola, che si chiede, retorica quanto basta: “Il concetto di insensibilità alla vergogna, è quello, che ci sta rovinando la vita?” Ha ragione a domandarselo, ma se posso permettermi una risposta non richiesta, direi che la questione è ancora più radicale di come la pone lei. Non è che ci siamo abituati a vivere senza vergogna, come se fossimo più disinvolti, più sfacciati, più impuniti. È che la vergogna, proprio tecnicamente, non è più possibile. Non ci sono più le condizioni perché possa esercitarsi. È diventata, diremmo con linguaggio da manuale, una funzione irriproducibile. Non è una crisi morale, è una trasformazione strutturale.

La vergogna, per esistere, ha bisogno di una scena ristretta, concreta, fisica. Ha bisogno di un corpo che si espone e di un altro corpo che guarda. Non esiste vergogna senza carne. Lo sanno bene gli antropologi che hanno studiato il complesso onore/vergogna in contesti mediterranei, dove l’onore è il valore riconosciuto pubblicamente al tuo corpo e alla tua capacità di controllarlo. Il corpo è la soglia, la misura, la trappola. È il tuo stesso confine morale. Se perdi il controllo, se ti scompensi, se sudi, arrossisci, tremi, se la tua faccia dice più di quello che vorresti dire tu, allora ti vergogni. Ma tutto questo presuppone un’interazione incarnata, una comunicazione faccia a faccia, in cui la parola si dà davvero, come un pegno, e si rischia di perderla. Una parola d’onore, cioè una parola che ha un peso perché c’è un corpo che ne risponde.

Oggi tutto questo non esiste più. O, meglio, è stato espulso dal circuito principale della comunicazione. Ci hanno lasciato solo lo shaming, che è puro risentimento narcisista, e nulla ha a che fare con la vergogna di cui parla Ester Viola.

Comunichiamo senza corpi e senza scene. Ci mostriamo, certo, ma solo per interposta immagine. Il corpo è ridotto a profilo, il volto a interfaccia, la voce a emoji. Non si dà più la parola, la si emette. Non la si consegna a qualcuno, la si lancia nel vuoto. E se non c’è nessuno che può raccoglierla, allora non può neppure esserci nessuno a cui rispondere. Il discorso diventa flusso senza vincolo, e la responsabilità evapora. In questo orizzonte, la vergogna non ha più un luogo in cui agire.

Non è nemmeno questione di maleducazione o di decadenza dei costumi. È un problema sistemico. La vergogna è un dispositivo sociale che ha bisogno di vincoli fisici e contestuali per operare. Ha bisogno di sapere chi ci sta guardando e da dove. Ha bisogno di riconoscere un vicinato morale. Se tutto è potenzialmente pubblico e ogni destinatario è indeterminato, allora il contesto si dissolve e la vergogna si disattiva. È una funzione che va in crash perché non trova l’ambiente operativo necessario.

Ester, che è finissima, lo intuisce. Parla di “cretinaggine performativa”, di un mondo dove anche l’atto giudiziario si vergogna di essere austero e si infiocchetta di emoticon per risultare ingaggiante. Ma forse è proprio questo il nodo. Non è solo che tutto è diventato frivolo. È che la serietà non ha più appigli. Non ci si può vergognare in un sistema dove tutto è sempre già parodia. L’ironia ha perso la misura e si è mangiata anche il pudore. Oggi non ci si denuda più per provocazione, ma per automatismo. Perché non c’è più nessuno a cui ci si possa veramente esporre. Perché l’esposizione richiede presenza, richiede alterità incarnata, richiede un corpo davanti al nostro che ci faccia da specchio morale.

E allora, cara Ester, non punterei alla polizia del pudore, come sembri chiedere tra le righe, con quella tua sagacia da studio legale e caffè ristretto. Una polizia woke, severa e decorosa, non restituirà le condizioni di esercizio della vergogna. La vergogna, per funzionare, ha bisogno di prossimità. Ha bisogno che si torni a parlare con qualcuno, non con tutti. Che si torni a dare la parola a qualcuno, con la consapevolezza che può non bastare. Che si torni a parlare con la bocca, non con le dita. Che si torni, in breve, a essere un corpo vivo. Perché se non c’è più nessuno che ti può far vergognare, vuol dire che sei già morto. Solo che nessuno te l’ha detto.

giovedì 3 luglio 2025

Reincarnazioni a responsabilità limitata

 


La Cina, si sa, ama il controllo. Non solo quello dei confini, delle minoranze etniche, del cyberspazio e delle videocamere negli androni di casa, ma anche quello delle reincarnazioni. Pare incredibile ma è così: Pechino rivendica il diritto di decidere chi sarà il prossimo Dalai Lama, una volta che l’attuale (Tenzin Gyatso, nato nel 1935) passerà a miglior karma. Non è una barzelletta, è dottrina ufficiale dello Stato. Con tanto di “Urna d’Oro”, antica reliquia del potere imperiale, oggi ripescata a uso del Partito Comunista per legittimare decisioni mistiche come se fossero bandi di concorso pubblici.

Il Dalai Lama Lama in carica, 89 anni e una discreta esperienza nel campo delle anime migranti, ha detto chiaro e tondo che i cinesi possono tranquillamente reincarnarsi tra loro, ma che sulla sua prossima manifestazione terrena deciderà solo il Gaden Phodrang Trust, l’ente spirituale tibetano. E ha già fatto capire che potrebbe anche reincarnarsi fuori dal Tibet, tanto per complicare un po’ le cose ai funzionari dell’ufficio reincarnazioni del Partito.

Ora, immaginiamo il contrario. Immaginiamo che Israele, così per sport, rivendichi il diritto di partecipare alla nomina del Gran Muftì di Gerusalemme. Motivazione storica: l’ultimo Muftì veramente famoso era alleato di Hitler. E forse, per questa volta, si potrebbe dare un’occhiata ai curricula.

Immediata reazione globale: “Inaccettabile intromissione!”, “Sacro suolo musulmano!”, “Colonialismo mistico!”. Titoli indignati, petizioni su Change.org, dibattiti in prima serata con teologi da talk show.

Conclusione: Pechino può guidare le anime tibetane dall’aldilà. Teheran può dispensare benedizioni scelte. I sunniti possono eleggersi anche il Custode delle Chiavi dell’Ascensore Mistico. Ma se Israele osa alzare un sopracciglio sulle guide religiose che lo vogliono distruggere... apriti sesamo.

E le reincarnazioni, per oggi, vanno in archivio. Domani si decide la linea di reincarnazione del prossimo Papa. Ma solo se gradito al Politburo.

lunedì 30 giugno 2025

Padre, perdona loro. Ma prima fammi finire questo post

NON so più quante volte mi sia toccato di spiegare il mio "sionismo”. Lo metto tra virgolette non perché sia finto, ma perché è così poco conforme all’etichetta da risultare incomprensibile perfino a molti amici, che infatti in alcuni casi hanno smesso di considerarmi tale e si sono messi a pontificare sulla mia dignità (o indegnità, certo, ché poi il moralismo è tanto più sprezzante quanto più questi amici sono “laici”). Altri amici sono stati invece da me “disamicati” (non sui social, parlo della vita) perché c’è un limite oltre il quale essere incompreso o insultato non è più parte di una relazione costruttiva, ma diventa un gioco sadomaso che mi fa orrore. Dei giudici non-amici, degli arbitri solo generici conoscenti e di chi crede di conoscermi e si permette di giudicare senza che io conosca loro, non dirò nulla, perché nulla valgono per me.

Per alcuni di loro, dichiararsi sionista è un po’ come dire “mi piacciono le esecuzioni sommarie” o “adoro l’apartheid con contorno di bambini dilaniati”. Il fatto che io possa piangere davvero i civili massacrati a Gaza e al tempo stesso considerare legittima – anzi sacrosanta – l’esistenza dello Stato di Israele sembra per loro un’oscenità logica. Un ossimoro morale. Una perversione ideologica.

Eppure io sento tutto il dolore di quei civili palestinesi che muoiono sotto le bombe. Lo sento davvero. E provo pietà anche per chi si è fatto trascinare nella spirale dell’odio con l’illusione che la violenza avrebbe portato alla libertà e non alla rovina. Ma – e mi prendo la responsabilità di questo “ma” – non riesco a mettere in cima alla lista dei responsabili lo Stato di Israele. Per me, la colpa primaria di questa catastrofe umana pesa su un’entità ben più ampia e volutamente sfuggente: il mondo arabo, soprattutto quello incluso nel più ampio mondo islamico.

C’è un antisemitismo islamico, sapete? E non è una copia carbone dell’antisemitismo cristiano: è autonomo, profondo, stratificato. Dalla nascita dell’impero militare islamico in poi ha costruito una propria teologia dell’umiliazione e della sottomissione degli ebrei (oltre che dei cristiani), relegati al rango di dhimmi, protetti sì, ma umiliati. Così, quando nel tardo Ottocento nasce il sionismo come forma laica e moderna di nazionalismo (nato in Europa, in gran parte socialista e progressista), nel mondo islamico viene letto subito attraverso la lente della religione. E ancora prima che uno Stato d’Israele nasca, è già percepito come una bestemmia: perché rivendica un’autonomia territoriale su una terra che, una volta islamica, è ritenuta waqf, inalienabile. Terra sacra. Non si restituisce ai miscredenti, mai.

Nel 1948, mentre l’ONU disegna due stati, gli arabi (in gran parte padroni di stati non meno artificiali di Israele, neonati e affamati di potere politico oltre che economico) decidono che nessuno dei due può andare agli ebrei. Preferiscono distruggere tutto il Mandato Britannico, piuttosto che accettare l’idea di una sovranità ebraica. E sono pronti a sacrificare anche gli arabi palestinesi pur di impedire la nascita di quello stato. Già: la Palestina araba non è mai davvero esistita come progetto politico condiviso, perché ognuno degli attori regionali voleva spartirsene i pezzi. E ai palestinesi toccava fare da scudo umano.

Israele nasce come stato laico, ma viene immediatamente letto dai suoi vicini come problema religioso, giuridico, quasi ontologico. Inaccettabile. La secolarizzazione araba non ce l’ha fatta. Travolta dai petrodollari wahabiti e dalla rivoluzione khomeinista, è affondata. Il panarabismo laico è finito in cantina. È tornata la teologia e con essa il fanatismo.

Dalla seconda intifada in poi, il messaggio, fino ad allora occultato dietro il linguaggio della lotta anticoloniale e addirittura anticapitalista (figuriamoci!) si è fatto esplicito: non si tratta più di negoziare un confine, ma di negare il diritto stesso di Israele a esistere. L’intento è agire in qualunque modo, a qualunque costo in termini di vite sacrificabili, purché diventi chiaro che Israele non ha dignità politica. L’obiettivo della lotta palestinese (almeno dalla nascita dell’OLP, nel 1964, tre anni prima della Guerra dei Sei Giorni, inizio delle occupazioni della Giudea e Samaria e della questione dei coloni, e voglio specificare il punto anche se quasi nessuno capirà cosa sto intendendo con questo chiarimento) era rendere impossibile il pensiero di una convivenza in Medio Oriente tra uno Stato israeliano e un contesto regionale dominato da una schiacciante maggioranza araba.

Non è (mai stata) una guerra tra stati: Israele è un’eresia che va estirpata. E a chi dice “ma Israele è colpevole anch’esso”, rispondo: certo. È colpevole di due cose. Primo: voler esistere. Secondo: aver accettato di discutere sul terreno che gli è stato imposto, quello della legittimità. Come se la sua esistenza fosse qualcosa da giustificare ogni giorno davanti a un tribunale etico mondiale di improvvisati Savonarola.

E mentre tutto questo succede, le vite palestinesi sono state spese come fiches in un casinò geopolitico: per i regimi arabi e per gli ayatollah, i civili di Gaza non sono mai stati persone, ma strategie. Hamas li ha usati come scudi. Israele ha accettato la trappola dell’intransigenza. E il sangue non ha più trovato suolo dove non colare.

Per questo oggi, se provo dolore è per le vittime. Se provo pietà è per chi ci ha creduto. Ma se provo rabbia, è per i tanti che, nel mondo arabo e islamico, continuano a spacciarsi per paladini e invece sono carnefici per procura. E se provo vergogna, è per i troppi opinionisti del nulla – ben pasciuti, ben pettinati e benpensanti – che si esercitano in moralismi a buon mercato. Lanciatori di fatwa ideologiche convinti di aver finalmente trovato l’occasione per sentirsi buoni. Non si sa bene rispetto a chi, o a cosa: basta avere dalla propria il vento del mainstream.

Ecco, a tutti loro dico: non vi temo. Non vi credo. Non vi ascolto. Perché il vostro sdegno – quando non è figlio della più stupida ignoranza, e siete legioni – è figlio del peggior narcisismo nichilista, non di compassione. E perché il vostro giudizio è privo di quella bussola morale che distingue la critica dall’odio, la responsabilità dalla propaganda, la giustizia dal capro espiatorio.

Padre, perdona loro. Ma non prima di avergli spiegato bene perché non sanno quel che fanno.

venerdì 27 giugno 2025

La quarta guerra, quella che Israele non sa combattere

Michael Oren, ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, sostiene che ogni vittoria debba essere valutata su tre piani: militare, strategico e diplomatico. Israele – ci dice in un articolo di Micol Flammini sul Foglio del 26 giugno 2025 – ha vinto tutte e tre le battaglie nella recente operazione “Leone che si erge” (tra parentesi, ma lo vogliamo chiamare “Leone Rampante” come si dovrebbe dire in italiano?): ha fatto fuori gli impianti nucleari, ha smantellato le capacità di ritorsione dei suoi nemici, e ora siede al tavolo dei negoziati con una certa fiducia, mentre Trump si gode il plauso dell’Aia e l’Iran si lecca le ferite.

Ma c'è una quarta guerra – la più importante e forse l’unica davvero in corso – che Israele continua a perdere: la guerra della comunicazione.

Non quella della diplomazia ufficiale, quella da conferenze stampa e strette di mano. No. Parlo della guerra delle immagini, degli hashtag, degli articoli “trapelati” nei tempi sbagliati, delle copertine indignate sui settimanali europei, delle assurde campagne sui social, dei video “verità” rimbalzati da Doha a Berkeley passando per qualche centro studi ben finanziato da Teheran. È la guerra della narrazione, e lì Israele, da decenni, perde male. Perde da prima di internet, da prima delle ONG, da prima dei campus woke. Perde da quando non è riuscita a raccontare nemmeno la propria genesi senza essere interrotta a metà da qualcuno che grida “apartheid”.

Israele è come un pugile straordinario, con il miglior allenamento militare del mondo, che però sale sul ring bendato e con le orecchie tappate, mentre dall’altra parte si combatte con i megafoni. E non è un problema recente. È strutturale. È sistemico. È una resa comunicativa lunga quanto la sua storia.

Oggi il grande pubblico – quello dei talk show, dei feed di Instagram, delle assemblee universitarie e delle redazioni dei telegiornali – non sa nemmeno chi siano gli attori in gioco, né quale sia la posta. È convinto che Hamas sia una ONG un po’ movimentista, che i 700 mila rifugiati del 1948 siano rimasti tali per generazioni per colpa di Israele, che i tunnel sotto Gaza siano una risposta creativa alla mancanza di infrastrutture.

Nel pezzo di Micol Flammini, c’è un passaggio che mi ha colpito: "La Repubblica islamica dell’Iran, nonostante abbia già proclamato la propria vittoria, non ha finito di lavorare alla vendetta". Ma l’Iran non si vendica solo con razzi o attacchi informatici. Si vendica con fondazioni culturali, centri studi, giornalisti amici e reti di influenza ben oliate, che operano ogni giorno per far passare Israele come l’aggressore, l’occupante, il criminale.

Vi prego di notare l’asimmetria causale: qualunque cosa facciano i terroristi di Hamas o i cittadini palestinesi oppressi, c’è sempre qualche ragione precedente a spiegare quell’atto. Qualunque cosa facciano invece i militari israeliani o i coloni in Samaria e Giudea, la “vera ragione” del loro agire è tutta nella malvagità intrinseca dell’istituzione statale che li spinge ad agire in quel modo malvagio. Se un ragazzo palestinese si arruola in una brigata jihadista è colpa di Israele. Se un colono israeliano brucia la casa di un palestinese in Cisgiordania, è comunque colpa di Israele. QUALUNQUE cosa succeda; dentro questa logica mediatica, è COMUNQUE colpa di Israele.

E chi finanzia tutto questo? Non solo l’Iran. Anche il Qatar, da anni campione del “doppiogiochismo” mediorientale: finanziatore di Hamas e padrone di una delle più grandi centrali mediatiche del mondo arabo, Al Jazeera.

Così si costruisce una narrazione alternativa che poi – come un parassita – entra nelle nostre democrazie, nei nostri giornali, nei nostri campus. Ed è talmente ben confezionata da sembrare “oggettiva”.

Israele può vincere tutte le guerre militari, strategiche e diplomatiche che vuole. Ma se perde questa guerra, quella della rappresentazione, le altre tre valgono come vittorie ai punti in un match truccato. Perché oggi, piaccia o no, vince chi racconta meglio, non chi ha ragione.

E a raccontare Israele – nel mondo – non c’è quasi nessuno. O, peggio, c’è chi lo fa per distruggerlo.

mercoledì 25 giugno 2025

Donne di mezza età nei cimiteri

Mi capita spesso di avere sulle labbra questo endecasillabo.

E’ l’inizio di una poesia che non ho mai scritto. Sarebbe una canzone libera leopardiana secondo me, o secondo quella parte di me a cui viene in mente spesso.

Forse un paio di volte ci ho provato, a buttare giù qualcosa di sensato, ma non ne è uscito nulla di corrispondente al mio stato d’animo quando penso o sussurro l’endecasillabo.

Credo che il primo bagliore sia stato nel cimitero di Erice, un cimitero antico, con ex-antenati antichissimi, ma anche tombe recenti, ovviamente. E attorno, indaffarate come quando c’è un ospite nel tinello e loro facevano su e giù dalla cucina con il rosolio o un caffè, ecco queste donne di mezza età.

Stanno nei cimiteri, e si prendono cura dei loro morti con i modi spicci che erroneamente a volte attribuiamo ai maschi. I maschi sono di modi bruschi (vedi La Cecla), le donne sono invece spicce, quando devono prendersi cura dei loro morti e vanno al sodo: la scopa di saggina, l’innaffiatoio, la fontana d’acqua più vicina, il lumino che dura un anno che va comprato in quel negozio e non in quell’altro (dura di meno, il lumino, e noi siamo qui solo per l’estate, al massimo arriviamo ai Morti, noi donne di mezza età nei cimiteri, poi tocca tornare nella Città a svernare).

Perché mai “di mezza età” viene da dire? Statistica, intanto: sono spesso vedove, sopravvivono ai mariti con impenitente frequenza. E poi non possono essere vecchie, perché io mi sono fatto l’idea che l’uomo diventa vecchio quando chiede insistentemente l’attaccapanni al ristorante, invece la donna diventa vecchia quando non va più al cimitero, a prendersi cura dei suoi morti con i suoi modi spicci, come rassettasse il tavolo o il banco della cucina dopo pranzo: precisione senza smancerie. Quindi, se ne deduce, ci sono donne che non sono mai di mezz’età, e quelle sono proprio le tipiche che non ci vanno mai, nei cimiteri. Sono troppo giovani, hanno altro da fare, hanno il lavoro, i fidanzati loro, qualche figlio, ma non hanno tempo per queste cosa che sarebbe pulire una tomba, cambiare l’acqua ai fiori, addirittura sistemare una piantina. E poi, d’improvviso, diventano vecchie, e cominciano ad avere male alle gambe, o hanno la pressione alta, o l’osteoporosi, e non possono più andare al cimitero. “Più”, anche se non ci sono mai andate, perché non sono mai state donne di mezza età.

Sistemano i fiori con gusto essenziale, sono minimaliste le donne di mezza età dei cimiteri e soprattutto si riconoscono perché hanno il loro giro. Hanno consolidato il loro ruolo con le tombe dei genitori, e questo le ha fatte diventare di mezza età, anche se molte di loro erano in questo senso di mezza età già da giovani, perché andavano con la mamma, o la zia, a trovare i nonni e i bisnonni. Ora che i genitori devono essere accuditi nelle loro tombe, le donne di mezza età nei cimiteri fioriscono nella loro pienezza, si muovono con inaspettata destrezza tra le scale per portare il fiore alla prozia morta da quarant’anni, e la tomba primigenia a terra del bisnonno (di loro, che sono nonne da un pezzo, pur essendo ovviamente null’altro che di mezza età).

E poi, certo, si salutano tra loro, le donne di mezza età. Si conoscono quasi tutte, e senza troppi fronzoli si raccontano e si aggiornano dei rispettivi alberi genealogici, o dell’improvviso reclutamento di una nuova tra loro. Gli uomini, come me, si mettono spesso volenterosi al servizio e portano l’acqua negli innaffiatoi, addirittura caricandosene due alla volta, uno per mano, quando l’estate è più polverosa e c’è bisogno comunque di far lustrare il marmo.

Oppure, se sono soli, gli uomini capiscono che lì, per dare un saluto alla madre, anche loro – almeno mentre passano lo straccio sul marmo e sistemano i fiori di plastica perché sembrino un poco meno finti – devono diventare, anzi, devono essere, per quel brevissimo e infinito lasso di tempo, donne di mezza età, nei cimiteri.

mercoledì 18 giugno 2025

GIORNATA MONDIALE DEL RIFUGIATO

 


Venerdì 20 giugno mi trovate al Campo Sportivo XXV Aprile, dove i fantastici amici di Liberi Nantes organizzano un bel pomeriggio per la Giornata Mondiale del Rifugiato. Li conosco da tanti anni – siamo praticamente vicini di casa – e ogni volta che passo davanti al loro campo mi ricordo che accoglienza e dignità possono anche avere il rumore allegro di un pallone e l’ostinazione di chi gioca, anche quando la terra è dura e la linea del fallo laterale te la devi un po’ immaginare.

Verso le 20:15 toccherà a me dire due cose su popoli, confini e identità. Parole importanti, certo… ma cercheremo di maneggiarle con cura e un po’ di ironia, provando insieme a darne definizioni oneste, senza dogmi e senza paura delle sfumature.

Alla fine c'è anche da mangiare, e si sa che, tra un boccone e una chiacchiera, ci si capisce sempre meglio.

 


martedì 17 giugno 2025

L’Edipo culturale

C’è un’intera generazione – o forse meglio: una intera postura culturale trasversale alle generazioni – che ha deciso che il Potere è un padre cattivo. E come ogni padre cattivo, va abbattuto. Ma non con la lotta politica, l’azione organizzata, la mediazione istituzionale. No: va castrato simbolicamente, delegittimato con hashtag, svuotato di ogni aura di legittimità e trattato come mostro onirico. Il Capitale. Lo Stato. Il Patriarcato. L’Impero. L’Occidente. Israele. L’Uomo Bianco. È l’intero catalogo edipico del presente – una teoria delle proiezioni morali che scambia il trauma per analisi, l’infanzia per prassi rivoluzionaria, la litania per scienza sociale.

Si tratta, in fondo, di un ritorno del rimosso in forma di meme: ogni forma di autorità viene erotizzata, psicologizzata, proiettata come figura del Male Assoluto. Non ha più importanza cosa fa lo Stato di Israele, importa che è lo Stato di Israele: basta questo per attivare il riflesso condizionato della condanna. Che poi nel frattempo si finisca per sostenere il regime teocratico e misogino degli ayatollah iraniani – quello sì, letteralmente patriarcale – pazienza. Il principio edipico esige fedeltà alla struttura, non alla realtà.

Questa saldatura simbolica tra il wokismo post-identitario, l’anticapitalismo post-marxista e l’antisionismo militante si tiene tutta su un presupposto freudiano inespresso: l’autorità è colpevole perché è autorità. E ogni volta che l’autorità reagisce – per esempio se Israele risponde a un attacco armato – il riflesso è lo stesso: “Ma come osa?”. È come se il padre della psicanalisi si fosse reincarnato in forma di algoritmo moralizzante, pronto a punire ogni tentativo di esercizio del potere da parte di chi è già stato classificato come oppressore. Poco importa se l’altro sia apertamente genocidario: nel teatro edipico globale, conta solo chi sembra più potente, non chi fa cosa.

E infatti si arriva presto all’asilo geopolitico (inteso come scuola materna), dove gli adulti non parlano più tra loro, ma si scrivono cartelli da manifestazione. From the river to the sea non è più un programma politico: è una nenia. Il boicottaggio accademico di Israele non è un’azione strategica: è una purga simbolica, un “papà cattivo vai via” scritto con il pennarello rosso sulle pareti dell’ONU. E quando Israele bombarda un sito nucleare iraniano, non si cerca di capire se fosse una minaccia reale, ma ci si rannicchia subito sul tappetino delle emozioni per dire: “Non si fa, non si alza la voce contro gli altri bambini!”

Ma gli altri bambini in questione sono ayatollah che impiccano gli omosessuali. Regimi che rinchiudono le donne se si tolgono il velo. Stati dove la stampa libera è un ossimoro e la teologia è legge. Tuttavia, nel mondo dell’Edipo culturale, l’elemento centrale non è la realtà, bensì il ruolo simbolico. E se sei maschio, bianco, occidentale, democratico – peggio ancora, se sei uno Stato-nazione moderno – sei già colpevole. L’innocenza è una funzione delle manette: chi è incapace di esercitare potere è buono per definizione.

Così l’antisionismo militante diventa il parco giochi prediletto di una generazione che ha sostituito la prassi politica con il ressentiment moralista. Si scende in piazza non per affermare diritti, ma per sentirsi nel giusto. Non si argomenta più: si sventola un trauma, e lo si fa brillare come un santino. La messa in scena è tutto. E se l’Occidente dovesse cadere, pazienza – meglio distruggere la casa del padre che fare i conti con la sua eredità.

Ma come sempre, la tragedia edipica ha un epilogo: una volta ucciso il padre, il figlio scopre che non c’è nulla da ereditare, tranne i suoi debiti. E quando la realtà bussa alla porta – con gli eserciti veri, le guerre vere, i muri veri – il bambino non può che rimettersi a piangere, cercando un altro colpevole, un altro padre da detronizzare, un altro sogno da rovinare.

D’altronde – lo ricordava Walter Benjaminogni documento di cultura è anche un documento di barbarie. Solo che oggi la barbarie si scrive con i pennarelli colorati, ma sempre sullo stesso muro.

 

lunedì 16 giugno 2025

Chi mette il campanellino al gatto? Sull’importanza di sapere quel che si dice

Victor Davis Hanson non è un intellettuale facile da inquadrare, soprattutto per chi è abituato alle coordinate europee. Storico militare di formazione classica, editorialista conservatore, coltivatore di uva passa, Hanson è una figura ibrida che si muove con disinvoltura tra Tucidide e le elezioni presidenziali americane, tra Omero e i droni sopra il Golfo Persico. Lo seguo sempre con attenzione – anche quando non ne condivido le conclusioni – perché ha una qualità rara: sa di cosa parla.

Che cosa significa “sapere di cosa si parla”? Significa avere competenze adeguate. E questo non è affatto scontato, in un’epoca in cui le opinioni si moltiplicano più velocemente delle analisi, e le emozioni si sostituiscono volentieri alle deduzioni. Hanson, invece, è uno che deduce. E qualche volta, come accade nel testo da cui prendo spunto, deduce con precisione quasi profetica, ma non perché sia ispirato da visioni apocalittiche, bensì perché osserva, collega, conclude.

Nel suo commento del 24 febbraio scorso, Hanson analizzava con freddezza – e una certa urgenza – il rischio che l’Iran entri nel club delle potenze nucleari. La stima che circolava era netta: un mese di tempo, forse meno, se Teheran decide di spingere sull’arricchimento dell’uranio. Gli equilibri regionali ne sarebbero sconvolti. Eppure, nessuno agisce davvero. Qui entra in gioco la sua metafora: quella della favola di Esopo sull’assemblea dei topi. Tutti d’accordo che bisogna mettere il campanello al collo del gatto, ma chi si prende la responsabilità di farlo?


Hanson nota che mentre l’Iran è tecnicamente isolato – economia in crisi, blackout, alleati regionali fiaccati o sconfitti – nessuno sembra disposto ad approfittare della situazione. Né gli europei, né i cinesi, né i russi, né gli americani. E ovviamente neppure Israele, che però è il soggetto più direttamente minacciato. L’Iran, sostiene Hanson, è al tempo stesso pericoloso e vulnerabile: il momento per un intervento preventivo, se mai ci sarà, è adesso. Domani potrebbe essere troppo tardi. Soprattutto se, come lui stesso sostiene, la bomba Teheran è giusto a un passo dall’averla disponibile.

L’elemento interessante non è solo la lucidità dell’analisi geopolitica, ma il fatto che Hanson pensa a scenari reali, con opzioni praticabili. Due quelle principali:

1.   Massima pressione economica, fino a un eventuale blocco navale;

2.   Intervento militare preventivo, con il supporto degli Stati Uniti, che dovrebbero però dichiarare sin da subito: “Se colpite, noi vi copriamo”.

È una posizione che si può condividere o contestare, ma non si può ignorare. Perché si fonda su un principio che andrebbe ricordato sempre: non si può analizzare il mondo con strumenti retorici, con gli slogan da talk show o con l’autosuggestione identitaria. Serve competenza. Serve conoscenza dei dossier, dei precedenti storici, degli equilibri strategici, dei dati tecnici. E magari anche un po’ di latino e agronomia, perché la mente si forma anche zappando e leggendo Cicerone.

In un’epoca in cui si confonde l’attivismo con l’analisi e la morale con la strategia, gente come Victor Davis Hanson può non piacere, ma serve. Serve perché ci ricorda che per dire cose serie bisogna sapere cose serie. E che a forza di prendere le distanze dai “profeti di sventura” finisce che ignoriamo anche quelli che – con metodo e non con isteria – ci mostrano un pericolo reale.

Non è detto che abbiano sempre ragione. Ma è certo che sbagliare dopo averli letti è diverso dallo sbagliare perché li si è ignorati. E la differenza sta tutta lì: nelle competenze.

Chi mette il campanellino al gatto? Magari nessuno. Ma intanto ascoltiamo almeno quelli che conoscono i gatti, i topi, e anche le dinamiche delle assemblee.

giovedì 5 giugno 2025

Tutti in vacanza nei campi di cotone

 


In un saggio che – salvo imprevisti in peer review – dovrebbe uscire tra qualche mese su una rivista di antropologia, lo dico chiaramente: nel codice etico che si è imposto nell'accademia, il “popolo” è sempre nel giusto (perché oppresso), lo “Stato” sempre dalla parte del torto (perché esercita il potere). Se poi quello Stato è occidentale, liberale, bianco, magari persino democratico, allora è colpevole prima ancora di aver agito. In questo schema, Israele è sempre Stato, e quindi sempre colpevole. I palestinesi, invece, sono sempre popolo, e quindi sempre nel giusto.

Non è questione di geopolitica, è questione di logica simbolica. Perché mentre Israele è visto come un soggetto saturo, ipermoderno, insidiosamente simile a “noi”, la Cina – per quanto potente e invasiva – resta simbolicamente altra, distante, opaca, esotica. E quindi non mobilita indignazione, nonostante detenga, nel solo Xinjiang, almeno un milione di persone in strutture di detenzione con accuse documentate di sterilizzazioni forzate, sorveglianza biometrica e rieducazione culturale.

Giulia Pompili, sul Foglio, ha scritto il 4 giugno un pezzo perfetto per raccontare come la Cina stia vincendo non solo sul piano economico, ma anche su quello narrativo. Nessuno parla più del genocidio uiguro, nessuno protesta per le “vacanze forzate” con cui Pechino silenzia i dissidenti durante le commemorazioni sensibili, nessuno chiede il boicottaggio delle università cinesi che collaborano apertamente con l’industria della sorveglianza di Stato. Tutti zitti. Troppo grande, troppo lontana, troppo poco occidentale per scandalizzare i nostri paladini della giustizia.

Contro Israele, invece, si organizzano seminari, toolkit, scioperi della fame e lettere collettive. Si parla di apartheid, si invocano le sanzioni. A volte si arriva a negare perfino che esista un “popolo israeliano”, pur di non dover riconoscere che anche tra gli ebrei ci sono civili, vittime, storie, vite. Tutto viene assorbito dallo Stato, che diventa un’unica entità astratta da colpire con zelo moralistico. A Gaza, invece, ogni combattente armato è anche, prima di tutto, parte del popolo. E quindi, per definizione, dalla parte giusta.

È questo il doppio standard che analizzo nel mio articolo: un popolo vale quando l’oppressore ha la nostra faccia. Altrimenti no. E infatti, chi oggi firma petizioni per Gaza, tace sullo Xinjiang. Chi chiede il boicottaggio degli atenei israeliani, stipula accordi con i politecnici cinesi che collaborano con il ministero della difesa. Chi invoca la morale, seleziona accuratamente i destinatari. Perché nella nuova etica selettiva, la giustizia non è un principio universale, ma una leva per posizionarsi simbolicamente nel mercato globale della virtù.

Sta vincendo la Cina. Non solo perché cresce, ma perché si mimetizza. Ha trasformato i campi di rieducazione in mete turistiche, ha spento la memoria di Tiananmen, ha ridotto al silenzio ogni voce dissidente. E noi, nel frattempo, tutti indignati con Israele, tutti convinti che lì – e solo lì – si giochi la partita decisiva del Bene contro il Male. Lì, e non altrove.

Questa estate, lo dice Pompili, cinque milioni di persone visiteranno lo Xinjiang. È la nuova frontiera del turismo esperienziale. Magari qualcuno tornerà a casa con un foulard uiguro e il cuore leggero. Tutti in vacanza nei campi di cotone. Ma con coscienza etica. Purché non si parli ebraico.

mercoledì 4 giugno 2025

Il potere siamo noi (ma non ditelo ai teorici della lotta)

 


Durante uno degli ultimi esami, mentre correggevo i compiti in una sessione già abbastanza rognosa, ho chiesto a uno studente – preparato, per carità, ha preso 28 – chi fossero i responsabili dei bombardamenti a Gaza. Stavamo parlando di nazionalismo, il tema c’entrava. Il ragazzo ci pensa un attimo, poi sussurra: “Iran?” Alla mia faccia perplessa, ha subito reagito con grande sicurezza morale: “Io ho comunque un'opinione molto chiara: i palestinesi si battono per la loro libertà, Israele sta commettendo un genocidio.”

Ora, può darsi che l'agitazione dell’esame abbia fatto effetto. Ma a me è venuta in mente una scenetta su Facebook dell’anno scorso: una signora – laureata e insegnante, ci teneva a specificarlo – mi contattò perché, in quanto antropologo e persona "dalla faccia giusta", avrei dovuto per forza sottoscrivere la sua indignazione contro quei nazisti dei sionisti. Bastarono tre domande (non retoriche) perché svanisse nel silenzio digitale.

Mi colpisce sempre di più quanto il senso comune sia fatto di piccoli prestiti ideologici messi insieme come un outfit da Zara: l’importante è che non stoni troppo nella bolla dove ci si muove. Se sei nella bolla giusta, il potere è sempre dall'altra parte. E tu, ovviamente, sei l’oppressə.

Ora, qui entra in scena il povero Foucault. Che povero non è, certo, ma maltrattato sì. Il suo pensiero – sottile, radicale, pieno di paradossi – viene oggi ridotto a una pantomima militante in cui il potere è diventato un'entità maligna, una specie di Sauron invisibile incarnato in comode figurine da esorcizzare: il Capitalismo, il Patriarcato, lo Stato, il Neoliberismo. Non si analizzano, si denunciano. Non si pensano, si accusano. Come se la realtà fosse un film Marvel e bastasse individuare il supercattivo per stare dalla parte dei buoni.

Ma Foucault diceva altro. Diceva che il potere non piove dall’alto: si infiltra, si distribuisce, si moltiplica. Non è un cappio, è un tessuto. Non è un ordine, è un desiderio.

E infatti la ricerca empirica – quella roba noiosa che i meme non leggono – ci racconta che il potere più forte non è quello che comanda, ma quello che conforma. Uno studio di Tennie, Call e Tomasello (2009) ci ricorda che noi umani non siamo tanto “animali politici” quanto animali conformisti. Fin da bambini non solo imitiamo gli altri, ma ci indigniamo se qualcuno esce dal copione. Protestiamo contro la deviazione anche quando è più efficace. Perché? Perché non è quella giusta. E "giusta" vuol dire: quella che fanno gli altri. Non quella che ha senso, non quella che funziona, ma quella che conferma l’appartenenza.

Il potere, insomma, non è nei comandi. È nel bisogno di essere dentro. Di non stonare. Di non sembrare fuori moda, fuori sincrono, fuori contesto. Il conformismo non è una gabbia imposta: è un desiderio condiviso. È la nostra brama di essere accettati, accolti, riconosciuti. E quindi: imitati.

Ecco allora che il controllo non arriva più dal re o dal colonnello, ma dal gruppo Whatsapp. Dal profilo Instagram. Dalla compagna di scuola che ti corregge il linguaggio. Il potere diventa diffuso, impersonale, eppure implacabile: ti dice cosa pensare senza mai parlare. E quando parla, è con la voce della tua cerchia. Della tua bolla. Della tua comfort zone ideologica.

Questo spiega perché Israele, che non è affatto il centro dell’universo morale ma nemmeno il Male assoluto, oggi perda la battaglia che conta davvero: quella dell’immaginario. Non perché esista un complotto. Ma perché, in questo gioco di conformismo moralmente prêt-à-porter, il frame è già cucito. E Israele non veste bene. Troppo complicato, troppo divisivo, troppo fuori taglia.

Alla fine, ciò che chiamiamo “opinione” è spesso solo una postura conformista con pretese morali. Una giacca ben stirata, un look coerente, un outfit intellettuale da indossare con disinvoltura. La domanda su chi stia bombardando Gaza può essere un vuoto informativo. Ma l’opinione morale dev’essere netta. E deve stare bene addosso, come una giacca Armani della collezione indignazione primavera/estate.

Forse è il momento di ricordare che il potere non ci schiaccia solo dall’alto. A volte, ci avvolge in un abbraccio di gruppo. E ci piace pure.

Qui potete leggere l’articolo originale:

Tennie, Claudio, Josep Call, e Michael Tomasello. 2009. «Ratcheting up the Ratchet: On the Evolution of Cumulative Culture». Philosophical Transactions of the Royal Society B: Biological Sciences 364 (1528): 2405–15. https://doi.org/10.1098/rstb.2009.0052.

 

domenica 1 giugno 2025

Sofri e il genocidio (spiegato bene)

 Leggo Adriano Sofri da molti anni, con ammirazione e rispetto. Quando uscì il mio primo libro (Vite di confine), gli feci avere una copia proprio perché lo aprivo con un esergo tratto da un suo scritto – credo fosse Il nodo e il chiodo. Ma soprattutto, sentivo una consonanza profonda tra il suo modo civile e intelligente di raccontare il cambiamento personale e il mio tentativo di riflettere sulle identità collettive nei Balcani, sballottate da pressioni politiche così violente da costringerle a trasformarsi in ciò che chiamai (con un neologismo rimasto deserto) diaforentità.

Ho spesso condiviso le sue posizioni politiche, anche quando controcorrente: sulla ex Jugoslavia, su Marco Travaglio, su Putin e l’Ucraina, perfino su Mani Pulite. Non sempre ero d’accordo, ma sempre trovavo in Sofri una postura intellettuale solida, dialogica, profondamente democratica nel senso più alto del termine.

Sulla crisi israelo-palestinese mi sentivo, e forse mi sento ancora, più esitante. Anche per via di un mio sionismo ormai piuttosto esplicito. E poi, negli ultimi anni, ho letto Sofri meno di quanto avrei voluto. Un motivo – lo dico con affetto – è il Sofrismo, quella sua prosa a volte barocca, con periodi lunghi, subordinate incrociate, e un ritmo che mal si adatta alla lettura rapida su un bus o una metro, cioè dove io leggo i giornali.

A un certo punto ho anche accarezzato l’idea (naturalmente ingenerosa e priva di fondamento) che Il Post, il giornale fondato e a lungo diretto da suo figlio Luca, sia stato pensato come reazione edipica alla scrittura paterna: “un giornale spiegato bene”, in risposta a un padre “che spiegava benissimo ma con fatica”. In realtà, più recentemente mi sono convinto del contrario: Luca Sofri ha un talento chiarissimo nel pensiero, ma anche lui – sebbene in modo molto diverso – ama un’esposizione complessa, quasi opaca per eccesso di chiarezza, se così si può dire.

Tutta questa premessa per dire che ho letto, riletto e faticato l’ultimo articolo di Adriano Sofri su Gaza, uscito sul Foglio e ripreso anche su Facebook. Un pezzo, permettetemi, bellissimo e bruttissimo. Bellissimo perché tenta, con rara onestà intellettuale, di affrontare una questione devastante come quella di Gaza con tutta la cautela morale che richiede. Bruttissimo perché, temo, molti dei suoi lettori non arriveranno nemmeno in fondo. Non per colpa loro, ma per una forma stilistica che in questo caso non aiuta. Troppe curve, troppi incisi, troppe parole, pur se così vere, così necessarie.

Ho allora chiesto a ChatGPT di fare un esperimento: riscrivere il testo per dei ragazzi di prima superiore. Ed è venuta fuori questa versione. Mi pare riuscita. Leggetela come una parafrasi, non come un tradimento. E, quanto ai contenuti, non voglio parlarne qui, se non per dire una cosa: un articolo così, parola per parola, vorrei averlo scritto io.

 


Perché faccio fatica a usare la parola "genocidio" per descrivere quello che sta succedendo a Gaza

(versione semplificata da ChatGPT)

Anna Foa, una storica, ha detto su un giornale che non ha mai usato la parola genocidio per Gaza, ma che quello che succede lì “ci si avvicina molto”. In effetti, anche io, se vedessi un altro Paese comportarsi come si sta comportando Israele dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, forse direi che è un genocidio. Ma nel caso di Israele non lo faccio. Perché? È proprio questo il punto su cui voglio riflettere.

Alcuni, come Paolo Mieli, pensano che dire genocidio sia sbagliato perché ricorda subito la Shoah (cioè lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti). Ma non è proprio così. La parola genocidio è stata inventata per descrivere altri eventi terribili, come quello degli armeni nel 1915, che fu anche un “modello” per Hitler. E ci sono stati altri genocidi riconosciuti ufficialmente: a Srebrenica, in Ruanda, in Cambogia

Quindi usare quella parola non significa per forza paragonare Israele ai nazisti. Però c’è chi lo fa, magari con odio verso gli ebrei, e dice: “Guardate, ora sono loro i carnefici”. Questo atteggiamento è sbagliato.

Per essere considerato un genocidio, non serve che ci sia un piano per uccidere tutti i membri di un popolo. Basta anche voler cancellare una cultura, spostare forzatamente una popolazione, o sostituirla. Per esempio, la Cina lo sta facendo in Tibet.

A Gaza i civili morti sono tantissimi, e anche se fossero la metà di quelli che dice Hamas, sono comunque troppi. In più, ci sono dichiarazioni molto dure da parte di politici israeliani (e anche di Donald Trump) che parlano chiaramente di cacciare via la popolazione palestinese. Ci sono anche casi di fame imposta, di violenze. Tutto questo basta per farci porre la domanda: è un genocidio?

Perché allora io continuo a non usare quella parola? Non perché ho paura di sembrare antisemita. Anzi, mi farebbe soffrire sapere che un solo ragazzo o ragazza oggi non prova disgusto per quello che succede ai palestinesi di Gaza. Il problema è che la parola genocidio ormai è diventata una specie di etichetta definitiva, un’arma nel dibattito pubblico. Chi la usa viene visto come “contro Israele”, chi non la usa come “a favore di Israele”. Questo crea divisioni anche tra persone che, in teoria, sono dalla stessa parte.

E poi c’è un’altra cosa: molti che da sempre sono pro-palestinesi non vogliono condividere la loro battaglia con chi si è “aggiunto” solo adesso. È un po’ come tra adolescenti gelosi: “Vuoi stare con noi? Allora prima di tutto devi dire che è genocidio!”.

Un altro motivo (più serio) è questo: chi critica Israele spesso non pensa a cosa succederebbe se Israele sparisse. Se i suoi nemici più radicali avessero davvero in mano il potere, lo userebbero con altrettanta o forse più crudeltà. Molti non vedono la violenza e la brutalità anche dall’altra parte, quella di Hamas o di Hezbollah.

E poi c’è il rischio di dire: “I civili di Gaza sono colpevoli perché sostengono Hamas”, come se i civili israeliani fossero colpevoli solo perché votano Netanyahu. Ma non è così. Molti degli israeliani uccisi il 7 ottobre erano persone pacifiche.

Infine, c’è una differenza molto importante rispetto ad altri genocidi della storia. Nei genocidi “classici” (come in Ruanda, Armenia o Cambogia), non c’era nessuno all’interno del Paese che protestava apertamente contro ciò che stava accadendo. Nessun giornale, nessun politico, nessun cittadino poteva farlo. Invece in Israele ci sono persone che si oppongono con forza alla guerra e ai crimini contro i palestinesi. Ci sono manifestazioni, articoli, dibattiti. Questo fa una grande differenza.

Per concludere: ho ancora due motivi per non usare la parola genocidio. Il primo è un po’ furbesco: se diciamo genocidio per Gaza, dobbiamo forse rivedere tutti i casi in cui l’abbiamo già usata, forse in modo troppo facile. Il secondo è più serio: in Israele c’è una parte della società che resiste, che si oppone, che protesta. Questo, secondo me, è un segno importante, e un motivo per non buttare tutto in un solo giudizio definitivo.

mercoledì 28 maggio 2025

Storie di treni e giocattoli


🚂🧸 Sabato 31 maggio vi invitiamo a vivere una giornata ricca di storie, giochi e scoperte, all’interno della terza edizione del Museumgrandtour, il progetto del Sistema Museale Territoriale dei Castelli Romani e Prenestini dedicato alla valorizzazione del nostro patrimonio culturale.

📍Mattina a San Cesareo:
Alle ore 11:00 e 12:00, partendo da Via Casilina 17 (km 25+500), verrete accompagnati in una visita tematica “Dalla stazione al museo: in viaggio da 109 anni”, alla scoperta del fascino perduto delle rotaie e del mondo dei treni in miniatura, presso il Museo della Stazione di Colonna.

📍Pomeriggio a Zagarolo:
Alle 16:00 visita guidata al Museo del Giocattolo, e alle 16:45 la lezione itinerante nel centro storico “Giocare è una cosa seria”, con il sostegno imprescindibile di Alessandro D'Ambrosi, esperto di cultura e storia locale. Al termine, un momento conviviale per condividere insieme l’esperienza.

🎯 Due appuntamenti, un solo grande viaggio tra memoria, gioco e paesaggio urbano.

📩 Prenotazione obbligatoria: info@museumgrandtour.org
💛 Vi aspettiamo numerosi, sarà un piacere camminare con voi tra binari, giocattoli e storie!

#Museumgrandtour #MuseoDelGiocattolo #MuseoDellaStazione #SanCesareo #Zagarolo #GiocareÈUnaCosaSeria #CastelliRomani #MuseiInRete