Ho insegnato a Venezia, Lubiana, Roma, Napoli, Firenze, Cosenza e Teramo. Sono stato research assistant alla Queen's University of Belfast e prima ho vissuto per due anni in Grecia, per il mio dottorato. Ora insegno a Tor Vergata e nel campus romano del Trinity College di Hartford (CT). Penso che le scienze sociali servano a darci una mano, gli uni con gli altri, ad affrontare questa cosa complicata, tanto meravigliosa quanto terribile, che chiamano vita.
2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI
mercoledì 29 novembre 2006
Recensione: Little Miss Sunshine
1. Un pavido quarantenne che cerca di vendere (senza successo) il suo metodo in nove passi per avere successo.
2. Una quarantenne (moglie di 1) fumatrice repressa e vagamente nevrotica.
3. Un anziano (padre di 1) che tira eroina, è un puttaniere senza remissione e adora la nipotina tanto da insegnarle i suoi più reconditi segreti.
4. Un adolescente (figlio di 1 e 2) paranichilista che non parla da nove mesi perché ha fatto un voto per entrare in aeronautica.
5. Un ex professore di letteratura francese (fratello di 2), gay e in depressione dopo un tentativo di suicidio perché il suo amante si è dato al rivale accademico.
6. Una delizia di sette anni con la panciotta e gli occhiali da miope profonda, che imita le mosse delle miss in videocassetta e riesce sempre a vedere il “bright side of life”.
Metteteli a fare 800 miglia su un furgoncino Ww che a metà film perde la frizione, per andare a portare la cucciola a fare un concorso di bellezza in un covo di pazzi deliranti presentati da un Pippo Baudo isterico. Ne caverete un buon film, più corrosivo di quanto sembri a prima vista. Dedicato a chi pensa all’America come uno spazio univoco (tutto bene o tutto male), perché scoprano che l’America è il luogo dove tutto può succedere, nel bene e nel male.
Essere (blogger) e tempo (disponibile)
martedì 21 novembre 2006
Ribadire il concetto
Concorsi
L’entità sionista
Lo stato di Israele è uno stato inventato.
Uno stato creato a tavolino.
Artificiale. Praticamente finto.
COME QUALUNQUE ALTRO STATO DEL MONDO (chiedere a Thomas Jefferson e ai nativi per gli USA, a Luigi XVI e ai suoi prefetti per la Francia, oppure chiedere ai baschi e ai catalani in Spagna, ai ceceni e a mille altri in Russia, ai tirolesi, agli arbresh, ai sardi, ai catalani, ai ladini, agli sloveni, ai provenzali, ai grecani ai cimbri e Dio sa quanti altri in Italia). Lo stato di Israele ci ricorda che “stato naturale” è, più che un ossimoro, una cazzata.
Nonostante gli ignoranti e i mistificatori dicano l’opposto, Israele non è uno stato confessionale (anche se accetta partiti politici confessionali) e la sua stessa esistenza sta lì a ricordarci che qualunque forma di convivenza sociale è un prodotto della storia e della cultura degli uomini, non un diritto naturale. Che i palestinesi (inventati pure loro, ricordiamocelo) abbiano diritto a un loro stato è ora una necessità politica, ma io spero che non vinca l’apartheid del “due popoli due stati” (verificate che risultati ha prodotto in Irlanda, o nella ex Jugoslavia, questa politica deleteria), e spero che ci saranno ebrei in Palestina come ci sono arabi in Israele, e che sia la cittadinanza (non la lingua o la religione) a fare da collante sociale in entrambi gli stati. Chiunque insiste sulla natura “fittizia” dello stato di Israele come argomento delegittimante non si rende conto (spero) di portare acqua al mulino del nazionalismo naturalista, che è quello che produce pulizia etnica, sterminio e dolore. Se lo stato di Israele non esistesse, ohibò, bisognerebbe inventarlo.
PS Questo non è un giudizio sulla politica di Israele, ma una riaffermazione della sua legittimità ad esistere.
Peace and Love
lunedì 20 novembre 2006
Aumenti FFSS
Recensione: Azur e Asmar
Altre proposte per l'Università
1. Fare tutti gli esami in un'unica sessione, anno per anno. Si è promossi all'anno successivo oppure bocciati. Alla seconda bocciatura nello stesso anno si è fuori.
2. Concentrare le specialistiche solo lì dove ha senso (dove ci sono specialismi) e non consentire il proliferare di bienni senza risorse e senza docenti.
3. Scorporare i policlinici (in primis quello di Roma) dall'Università per scoprire che il rapporto docenti/studenti è tra i più bassi d'Europa.
Mi associo, con una postilla al punto 1: che i corsi siano organizzati come Cristo comanda, con un anno di anticipo sul calendario delle lezioni; che le aule e gli orari siano stabiliti con altrettanto anticipo, così da consentire agli studenti di organizzare il loro calendario di frequenza senza dover elemosinare informazioni tre giorni prima dell'inizio di un semestre (come avviene in qualche università, non in tutte, per fortuna); che i docenti non prendano la didattica come una palla al piede da subire e gli studenti dei rompicoglioni da tenere alla larga, ma si dedichino a questa parte del loro lavoro presentando puntualmente i programmi dettagliati (con calendario preciso delle lezioni con argomento); che si organizzino sistemi di "esonero" informali che consentano (con relazioni a casa, "come si fa in tutta Europa"!) agli studenti di essere valutati rapidamente. Se faccio lezione nel primo semestre, NON voglio valutare gli studenti a giugno, quando non si ricordano più nulla delle lezioni.
venerdì 17 novembre 2006
L'orchestra di piazza Vittorio
Geni della comunicazione
Si vede che il mongolino d'oro sapeva di non poterlo concedere a nessun altro.
Quello che mi stupisce di tutta calciopoli è la qualità media umana investita in un business di queste dimensioni.
mercoledì 15 novembre 2006
Museale e visuale. Una lettura del numero 14 della rivista AM Antropologia museale.
Mi piacciono gli elenchi, le liste, le parole chiave. Mi pare veicolino un sano intento pedagogico, che vedo duplice: da un lato invogliano al dettaglio, a non trascurare i particolari; dall’altro spingono il lettore a creare connessioni altrimenti improbabili, a cercare piste interpretative poco battute. Mi piacciono meno, gli elenchi, quando aspirano all’esaustività, quando pretendono di essere enciclopedici e quindi completi. Allora ne diffido quasi pregiudizialmente, perché credo soffochino proprio quello che dovrebbe essere (almeno per come lo concepisco io) lo spirito della ricerca e della pratica antropologica, che è proprio l’impegno sistematico a creare nessi poco evidenti, a sviluppare incroci impuri. Quando Saussure diceva che “tutto si tiene”, non credo (o non voglio credere) che stesse dandoci un’informazione sul reale, quanto un’indicazione programmatica, un progetto di ricerca. “Tutto si tiene” è una sfida. Tutto si tiene? Fammelo vedere, su, bello. Abito e inquadrare; immagine e voce; violenza e iperluogo. Tutto si tiene.
Il numero 14 (speciale) di AM è concepito e (dis)organizzato esattamente secondo questi principi: un elenco che affastella in una struttura quasi barocca voci apparentemente incongrue (che c’entrano i confini (Fabietti), e che c’entra lo sviluppo (Malighetti), con le culture visive? Poi uno legge che i Baluch hanno una concezione “liquida” dei confini agricoli, e inizia a riflettere sulla non necessità di certe visibilità che diamo per scontate; poi uno legge che lo sviluppo oggi si declina in emergenza, e che questa ha necessità di un apparato mediatico di sostegno per sopravvivere come prassi politicamente legittima) a fianco di voci più prevedibili (digitale, etnofiction, immagine, inquadrare, produzione, visualismo). La sfida, credo, consiste nell’accettare il mandato della nostra disciplina, fatta di dettagli “inessenziali” che rapidamente si agganciano in quadri fluidi di significazione per scompaginarsi e riaggregarsi lungo altre direttrici, secondo altri campi semantici. Le voci, per dichiarata volontà redazionale, sono compresse (non nei 1300 caratteri indicati da Padiglione nell’introduzione, ma in 13.000) e non pretendono esaustività di sorta. Sono, inutile quasi dirlo, prospettive, modi di riflettere sulla nostra disciplina da un determinato punto di vista. Come i giochi linguistici dell’Oulipo o certi libri di Pennac o Queneau; come alcune strutture chiuse della poesia (il sonetto, costretto a dire tutto in quattordici versi), queste voci accettano una mutilazione preventiva, che è poi il modo più onesto per riconoscere la necessaria incompletezza e ricorsività del nostro sapere (non solo antropologico, ovviamente).
Un altro modo per cogliere lo spirito che anima questo numero speciale di AM è annotarsi a parte i testi citati alla fine di ogni voce: tranne rarissimi casi, non esistono praticamente sovrapposizioni, autori o titoli citati da più di un paio di voci per volta. Come a dire che abbiamo rinunciato a un canone disciplinare (se mai l’abbiamo avuto) e ci affidiamo serenamente a percorsi e specialismi spesso individuali, che non temono di sforare i permeabili confini disciplinari.
Se penso che tra qualche giorno dovrò aiutare Paola de Sanctis Ricciardone a “insegnare” questo testo ai ragazzi del corso di Storia della Cultura Materiale dell’Unical, da un lato mi tremano le vene ai polsi, ma dall’altro mi rendo conto che – se riusciamo a trasmettere lo spirito del progetto – avremo veicolato uno dei cardini della disciplina.
Proverò quindi a ricostruire con le parole rese disponibili in questo numero di AM il discorso della relazione tra musei e dimensione visiva.
Il progetto perseguito da Vito Lattanzi, Paolo Piquereddu e Vincenzo Padiglione e realizzato in tempi rapidissimi dalla redazione di AM (a cui vanno i miei complimenti per la qualità finale, oltre che tutta la mia solidarietà di redattore editoriale che sa cosa significhi lavorare d’estate con più di trenta autori sotto la pressione dell’urgenza) è estremamente complicato e va dipanato almeno in alcuni dei suoi elementi costitutivi. L’intento primario è quello di far dialogare due settori (o due approcci) dell’antropologia, e cioè l’antropologia visuale da un lato e l’antropologia museale dall’altro, riconoscendo di primo acchito un legame tra i due, come racconta bene Padiglione nella sua presentazione. Ma qual è la natura di questo legame? Ovviamente, si tratta di un intreccio storico complesso. Da un lato è evidente che il museo si leghi alla visibilità dell’oggetto e anzi sia sostanzialmente il luogo del visibilio dell’oggetto (Kezich, Museo). Ma se si introduce la tecnica, a uno sguardo ingenuo (che è quello che intendo in parte mantenere in questa mia lettura) il museo e l’immagine in formato archiviabile sembrano, come oggetti della tradizione antropologica, figli di approcci diversi, se non antitetici. Da un lato il museo come luogo chosiste della documentazione, dall’altro la visualità cine-foto-ottica come espressione critica della museificazione. Di qui il museo come staticità, di là il visuale come spazio della dinamicità relazionale. Su un versante il museo della ricerca “a tavolino”, sull’altro il visuale come supporto sempre più imprescindibile del “campo” e filtro quasi inevitabile dell’osservazione partecipante (Paggi). Non dobbiamo dare troppo credito a questa irritante opposizione tra musei e tecnologie della riproduzione dell’immagine: basta leggere la voce visualismo (Faeta) per ricordare come l’antropologia sia stata, fin dai suoi esordi, ossessionata contemporaneamente dal possedere e dal rappresentare visivamente i nativi. Ma non mi sembra neppure giusto sminuirla come un residuo di letture imprecise. Con tutte le cautele del caso, dobbiamo ammettere che museo e immagine archiviabile si oppongono costitutivamente almeno nella loro genesi, dato che il museo si fonda come uno spazio che sottrae gli oggetti della cultura materiale dal loro contesto per renderli fruibili (o almeno osservabili e studiabili) in altro contesto, mentre l’antropologia visuale porta la propria tecnologia in situ e ritorna con rappresentazioni degli oggetti e delle loro relazioni, ma senza la necessità di sottrarli materialmente dal luogo originario della loro fruizione.
Che ne è, oggi, di questa divergente genealogia? Sempre semplificando, possiamo dire che la “rivalità” costitutiva tra tecnica museale e tecnica visuale è divenuta una solida alleanza quanto più si sono consolidati due mutamenti, uno per ognuno dei due settori.
1. Il museo DEA è sempre meno luogo di oggettivazione dell’altro per divenire sempre più spazio di riflessione del noi. I musei DEA – sempre più locali per fruizione e manufatti esposti – stanno diventando consapevolmente campi in cui tra utenti e produttori degli oggetti esposti si pone un legame diretto e continuativo. La memoria (Marano) gioca in questo tipo di museo un ruolo nuovo e sostanzialmente assente in precedenza dato che l’intento classificatore e differenziante in senso bourdieano viene sostituito da una funzione identificante spesso tramite il collante emozionale del ricordo. Da spazio chiuso e altro in cui regna l’ordine (Pasquinelli) della differenza materiale, il museo inizia a farsi luogo che si apre all’immateriale (Ricci e Tucci), consapevole da un lato dei limiti del realismo (Simonicca) e delle complicanze epistemologiche della mimesi (La Cecla) e conscio dall’altro della necessità di incorporare nel suo progetto nuove fonti (Puccini) e nuove strategie anche di marketing (de Sanctis Ricciardone) se vuole continuare ad avere un futuro. Non mancano inoltre i “musei del presente” e della quotidianità, che implicitamente criticano il presupposto che l’oggetto, per essere museificabile, debba essere eccezionale. L’accento sulla quotidianità e l’uso dell’oggetto “normale” impongono al museo nuove poetiche (Clemente) sottraendolo almeno in parte alla logica angosciante della predazione o della preservazione a tutti i costi. Da soggetto rapace, il museo si è fatto spazio tenace di ricomposizione dell’appartenenza. Da macchina generatrice di tratti contrastivi a spazio di discussione sulle scelte identitarie potenziali e praticabili. La stessa abitazione domestica subisce questo processo di museificazione (Padiglione, souvenir) di noi stessi. In sintesi, il passaggio mi pare quello dal museo come forma rigida della differenza (Lattanzi) a struttura potenziale e flessibile dell’identità. Sulle cause di questo mutamento vale la pena di rileggere la voce oggetto (Mirizzi) che spiega con rapidi esempi il suo divenire segno. Che questo possa avvenire modificando i nostri canoni dell’arte (Cossa e Tiberini) e della cultura materiale in generale (cfr. abito, Gri) e soprattutto accettando un cosciente rapporto tra dimensione emotiva e dimensione conoscitiva del museo è una condizione che garantisce vitalità allo stato attuale del contesto museale.
2. Il secondo mutamento cui accennavo riguarda direttamente il visuale, che non è più, nel suo dominio tecnico, patrimonio dell’etnografo o del documentarista. I mutamenti tecnologici che consentono strumentazioni maneggevoli ed economiche per inquadrare (Tiragallo) e la rivoluzione digitale (Marazzi) hanno aperto lo spazio all’etnofiction (Canevacci) e in generale agli indigenous media cioè all’uso dei mezzi di comunicazione da parte degli stessi tenutari per preservare i loro patrimoni culturali .
Non dobbiamo ovviamente far coincidere la dimensione della vista come senso biologicamente e culturalmente determinato con la questione tecnica della registrazione, conservazione e riproducibilità del veduto su supporti elettronici. Lo spazio figurativo (Putti), cioè la capacità dell’uomo di resecare il reale per riprodurlo in forma visiva, accompagna la nostra specie da tempi immemori. Ma se la mano nativa non preme più solo il colore sulla roccia e può invece spingere anche il pulsante rec o play, è chiaro che siamo di fronte a un mutamento radicale. Il visuale tecnologicamente assistito sta al pretecnologico come la voce sta alla scrittura, dato che apre spazi omologhi di ricorsività e replicabilità che mutano la sostanza stessa del rapporto con il senso della vista. E se l’uomo ha sempre avuto una sua percezione e concezione dello spazio tridimensionale di cui è parte (paesaggio, Angioni) e se è certo oggi che la visione non è un prerequisito dell’azione ma ne costituisce una forma basilare (ecologia, Grasseni e Ronzon), è evidente che qualunque modifica sostanziale della modalità della visione modifica radicalmente il contesto vissuto e le potenzialità dell’azione in quel contesto. Detto altrimenti, da quando sono disponibili (non solo agli specialisti) mezzi di archiviazione elettronica della visione è mutato il rapporto tra soggetti e reale. Non si tratta ovviamente di dare credito eccessivo all’estremismo baudrillardiano, ma di riconoscere che l’alfabetizzazione elettronica non è una prerogativa “occidentale” e, fatte salve le sperequazioni economiche, oggi si rende disponibile a chiunque. Può suonare paradossale che l’antropologia abbia messo in discussione il suo visualismo (Faeta) proprio quando il dominio dell’immagine diveniva patrimonio comune, ma questo sembra essere un destino comune a gran parte del sapere antropologico, di cui tendiamo a liberarci nel momento in cui diventa condiviso.
Nato come sguardo oggettivante dell’Occidente, il frame tecnologico si è decolonizzato e indigenizzato, liberando – per quanto in forme paradossali – nuove strategie di resistenza all’omogeneizzazione culturale.
Museale a visuale, quindi, hanno vissuto ognuno nelle sue forme il generale movimento che nell’antropologia culturale ha portato a una progressiva perdita di fuoco dell’oggetto: nel museale la fine dell’oggettivazione dell’altro è passata (o sta passando) per un’apertura alla museificazione del noi, mentre nel visuale questa stessa de-oggettivazione passa con forza attraverso l’appropriazione indigena delle tecnologie di riproduzione. Credo che tutto questo emerga dalla lettura incrociata delle parole chiave di AM, che offrono un quadro sufficientemente complesso di questo rapporto.
Quando qualcuno ha il coraggio di tentare un’operazione come questa, uno degli esercizi più facili (e quindi più sterili) che si possano fare, leggendo il risultato, è andare a caccia di quel che manca: quale voce, quale riferimento, quale spunto. Non intendo quindi pormi in questa chiave critica, ora che mi limito a porre una domanda: anche se sono presenti utili riflessioni sul film (Pennacini) – come oggetto non necessariamente etnografico ma comunque degno di riflessione antropologica – come mai non c’è una voce come mass media o televisione nella lista delle parole chiave? Se parliamo della dominanza del visuale nelle culture contemporanee e del rapporto tra visuale e museale, la televisione diviene uno snodo quasi necessario.
Pietro Clemente nella voce poetiche ci ricorda i tre principi che guidano la pratica museale: educare, conoscere, dilettare. Già Boas nel 1907 aveva proposto un terzetto simile (divertimento, istruzione, ricerca) , pensando ai tre potenziali pubblici del museo (bambini e masse da divertire, colti da educare, studiosi per ricercare) ma vale la pena di ricordare che, con una sola differenza dovuta alla specificità del mezzo (informare al posto di conoscere o ricercare), gli studiosi di mass media attribuiscono questa stessa tripletta al servizio pubblico di diffusione radiofonica prima, e poi televisiva. Insomma, ancora oggi la BBC dichiara di seguire i principi del servizio pubblico stabiliti negli anni Venti dall’allora direttore John Reith: “to inform, educate and entertain” . È ovvio che non tutta la televisione si identifica con la BBC, ma forse è il caso di distinguere (come si è fatto per il film) tra mezzi di comunicazione di massa intesi come oggetto di studio dell’antropologia e come strumenti di lavoro e comunicazione del sapere antropologico. In questa seconda accezione credo che vi sia una solidarietà costitutiva tra musei e mass media. Se è vero che i grandi dirigenti del servizio pubblico hanno concepito la radio e la televisione come strumenti finalizzati a realizzare gli stessi scopi dei musei, possiamo azzardare un anacronismo, e dire che i gradi museologi dell’Ottocento stavano facendo comunicazione di massa con i mezzi tecnologici allora disponibili. Non avendo la possibilità di portare le immagini e gli oggetti dentro le case degli utenti, cercavano di portare gli utenti nei musei. Il museo, quindi, è una sorta di tele-visione prima della televisione.
Oggi la rivoluzione digitale significa, al di là degli ovvi vantaggi sulla produzione e l’archiviazione, un mutamento sostanziale nel sistema della distribuzione delle immagini: il broadcasting analogico (che è condizionato dai limiti fisici di disponibilità dello spettro elettromagnetico delle frequenze) viene affiancato (e spesso rimpiazzato) dal broadcasting digitale (che supera di fatto il problema della banda elettromagnetica come risorsa limitata, togliendo legittimità ai monopoli e agli oligopoli) e soprattutto dal narrowcasting (reti tematiche) e da tutte le forme di ricezione on demand (tra cui inizia a farsi piede il podcasting, cioè il download di una specifica porzione di informazione selezionata dall’utente). Esperimenti fortunati come le radio via Internet e YouTube.com prefigurano un nuovo modo di fare comunicazione e tele-visione in cui salta il rapporto verticistico e gerarchico tra emittente centrale e riceventi finali, in cui cioè il mondo dei mezzi di comunicazione di massa si apre al peer to peer. Come potrebbe interagire tutto questo con il patrimonio museale e in generale con i beni DEA? Se i musei si pensassero più radicalmente tele-visivi si otterrebbe il contemporaneo vantaggio di rendere culturalmente spendibile la televisione, almeno in alcuni suoi settori. Spero e credo che il numero speciale di AM dedicato alle culture visive apra lo spazio per una riflessione sistematica su questi temi.
martedì 14 novembre 2006
Giavazzi for President
Dilemma
Ma cosa succede se quella persona dopo torna? Il sentimento del tradito può essere immutato, ma cambia necessariamente il rapporto. Infatti:
1. quella persona insiste nel dire che ha continuato ad amarvi anche mentre vi tradiva. Allora, come traditi, non avete scampo, e non potete più basarvi sull’amore come garanzia di fiducia. Se vi ha tradito mentre vi amava, e se dice di amarvi, può tradirvi ancora. In qualunque momento. Questa non era una cosa che avevate messo in conto prima.
2. quella persona insiste a dire che era confusa, che per un periodo credeva di non amarvi, che non vi sentiva più vicina (normalmente per colpa vostra, avete fatto qualcosa che l’ha allontanata). Allora avrete la prova che il sentimento dell’altro si può spegnere e accendere, che non c’è patto o giuramento su cui fondare il vostro rapporto. E anche questo, prima, non l’avevate messo in conto.
Avrete comunque una cosa nuova con cui fare i conti, nel vostro rapporto.
lunedì 13 novembre 2006
Il sequel di King Kong
Carl, uno dei personaggi principali del film è un regista spiantato e fanfarone, che per una serie di traversie si trova a filmare attori vanesi, tirannosauri, insettoni e King Kong.
Rebecca – Che fa quel signore?
Io – Fa delle riprese, fa un film.
Rebecca – Ah! Sta facendo il secondo film?
Non capisco bene cosa voglia dire, ma credo si riferisca alla distinzione tra questo film, che stiamo guardando, e quello che filma lui.
– Sì, sta facendo l’altro film, un film dentro il film.
Dopo un’inutile scena di dinosauri in fuga (non sono contro gli effetti speciali, anzi. Solo che il film è così bello come storia, così ricco di spunti metafilmici sul rapporto con l’alterità, umana e animale, che proprio non si capisce perché aggiungerci scene del tutto superflue che lo riducono narrativamente a un b-movie in certi passaggi) la cinepresa di Carl si trova a terra, con tutta la pellicola (bruciata) sparpagliata in giro. Vista la faccia distrutta di Carl, mia figlia chiede spiegazioni.
– Vedi, la pellicola si è tutta bruciata, perché era una cinepresa vecchia, di una volta, e quindi Carl ha perso tutte le riprese che aveva fatto. Ha rovinato il film che stava facendo.
– Ma no, lo vedi che è a colori? Questo è un film nuovo, mica vecchio. Fanno finta di essere vecchi. Quindi King Kong 2 lo stava facendo con una macchina nuova come quella che hai tu e quindi non si rovina la pellicola.
¬– King Kong 2?
– Certo. Questo che vediamo è l’uno, e lui stava intanto facendo il due. Papà, non capisci proprio nulla.
Sedotta dalla serie infinita di sequel in dvd dei cartoni animati (hanno osato pure fare Peter Pan 2!) Rebecca aveva interpretato la presenza della cinepresa dentro il film come una garanzia dell’esistenza di un sequel. Di cui ha iniziato a chiedermi notizia.
giovedì 9 novembre 2006
Recensione: Babel
mercoledì 8 novembre 2006
Recensione: Le seduttrici (A good woman)
- Dov'è la festeggiata?
- Si sta preparando.
- Donne e salsicce: se le vuoi gustare veramente non assistere alla loro preparazione...
Ambientato in una Amalfi anni Trenta non eccessivamente cartolinata, trova il suo merito maggiore nell'aver rispettato l'amore di Wilde per l'acume del linguaggio. A parte un'agnitio (che poi neppure si compie) la storia semplicemente non c'è. Non succede nulla apparentemente degno di narrazione. Sospetti e allusioni (i primi a crederci siamo noi spettatori), commenti ironici sul genere umano e sui rapporti uomo/donna.
Se avete sofferto per un tradimento non potrà che farvi del bene (facendovi un po' male).
Scarlett Johansson riesce a fare qualcosa oltre a mettere in evidenza le sue deliziose fossette.
Tom Wilkinson è bravo forse quanto Helen Hunt. Milena Vukotic strepitosa coi suoi cagnolini.
Vivamente consigliato per chi crede che al cinema non si debba necessariamente rischiare un'ernia al cervello e ci si possa anche solo divertire. Solo, poi?
martedì 7 novembre 2006
Librerie
Teniamo un corso di Storia della Cultura Materiale all’Università della Calabria (Arcavacata di Rende, Cosenza) e adottiamo il numero 14 della rivista AM-Antropologia Museale. I ragazzi lo ordinano presso l’unica libreria presente nel campus universitario (non mi do delle arie, Arcavacata è l’unica università italiana concepita come un vero campus dove gli studenti e i docenti possono vivere). Dopo più di un mese e dopo che almeno una dozzina di ragazzi hanno versato un acconto, scopro che la rivista non è mai arrivata. Chiamo l’editore e mi dice di non aver mai ricevuto l’ordine. Chiedo chi faccia la distribuzione dei loro volumi e mi dice che tranne che per le zone di Imola e Bologna fanno distribuzione diretta (dall’editore al libraio). Vado allora alla libreria e pretendono di aver fatto l’ordine. Dico loro che l’editore non lo ha mai ricevuto e un commesso mi replica che loro passano per PDE (che assieme a Messaggerie è uno dei due unici veri distributori nazionali, quelli cioè che portano i libri dalle case editrici fisicamente dentro le librerie). Gli faccio notare che l’editore della rivista non ha PDE come distributore e che quindi fare l’ordine lì è come ordinare un tappeto in un negozio di alimentari. Mi promette che farà l’ordine nel pomeriggio, direttamente via fax.
Mentre aspetto di avere notizie, cerco di capire come mai la libreria non abbia mai ordinato la rivista. Di certo sanno che PDE non distribuisce quell’editore. Hanno intascato l’anticipo degli studenti ma non hanno mai ordinato. Perché? Una possibile risposta è nel sistema delle spedizioni. Un libraio può ricevere i libri in conto vendita e significa che li paga alla consegna, diventano suoi e se ne accolla il rischio, oppure può riceverli in conto deposito e allora significa che non paga i libri all’editore al momento della consegna, ma si accorda per tenerli e venderli per qualche tempo. Scaduto il periodo, l’editore si presenta a ritirare le copie invendute e l’incasso, lasciando al librario la percentuale pattuita. Anche se so che il conto vendita è praticamente imposto dai grandi distributori (rendendo i librai ovviamente restii a prendere libri che poi rischiano di restargli sul groppone, ma di questo non si parla mai quando si tratta di discutere della crisi del libro in Italian), immagino che l’editore di AM in questo caso (si tratta di un’adozione universitaria, i volumi andranno sicuramente venduti) voglia imporre questo tipo di consegna. Ecco perché il libraio tentenna: vuole essere sicuro di acquistare tutte e sole le copie della rivista che poi venderà effettivamente! Chiamo l’editore e gli chiedo se oltre al conto vendita (una ventina di copie) ne può aggiungere una dozzina in conto deposito, ma mi risponde che loro mandano tutto in conto deposito.
Pazzesco: il libraio avrebbe potuto ordinare un mese fa anche cento copie della rivista in conto deposito, vendere quelle che riusciva a vendere (e sapeva di avere un’adozione) e poi tenersi tranquillamente la sua percentuale al momento di restituire all’editore l’invenduto. Perché non l’ha fatto, allora? Credo che la risposta vada cercata da un lato nella cialtroneria, ma dall’altro nella convinzione di avere il coltello dalla parte del manico. La libreria cui mi sono rivolto è l’unica esistenza nel campus. Se non si trova quel che si cerca bisogna andare a Cosenza, e per molti studenti (residenti e pendolari) significa perdere una giornata di tempo. Con i corsi a pieno regime, questo non succede, e quindi il libraio dell’Unical sa di avere praticamente il monopolio e non si interessa neppure di fare un ordine che non gli costerebbe nulla e che gli porterebbe solo guadagno. Si tiene per un mese in tasca gli acconti degli studenti e chi si è visto si è visto.
venerdì 3 novembre 2006
Clifford Geertz (1926-2006)
Ho saputo con qualche giorno di ritardo della scomparsa di Clifford Geertz. Stamattina, durante un appuntamento di lavoro, mi è sembrato inevitabile riportare questa triste notizia a un amico, un bravo storico dai molteplici interessi intellettuali. Di Geertz non sapeva nulla. Sì, forse aveva sentito il suo nome da qualche parte, ma non riusciva minimamente a collocarlo nel panorama delle scienze umane.
Credo che sia questo uno degli aspetti su cui, oggi, dopo la sua scomparsa, vale la pena di riflettere. Per chi si occupa di antropologia il nome di Geertz e il suo lavoro costituiscono punti imprescindibili di confronto. Che la si ami o la si detesti, che la si consideri un’apertura innovativa o un cul de sac che non lascia scampo, l’“antropologia interpretativa” geertziana resta il termine di confronto del dibattito internazionale e nazionale.
Se si comparano le bibliografie di riferimento di due antropologi, è probabile che la sovrapposizione sia minima, ed è ancora più probabile che tra i pochi testi in comune vi siano quelli di Clifford Geertz. Eppure questo non è bastato – almeno in Italia, dato che negli Stati Uniti il suo ruolo di intellettuale gli era riconosciuto da tempo – a rendere il suo nome noto al di fuori dei nostri pascoli domestici. Se a un giornalista di qualche redazione culturale dici “Lévi-Strauss”, gli vedrai brillare l’occhio e lo sentirai chiederti di che si tratta. Se gli nomini Clifford Geertz a malapena ti chiederà chi è.
Destino curioso per un uomo che ha fatto della sua disciplina un campo totale di riflessione sull’uomo partendo sempre da contesti concreti (la “descrizione densa”, come ormai ci piace chiamare la pratica della scrittura etnografica) con finalità insieme conoscitive e politiche.
Nonostante i suoi detrattori si siano sforzati di dimostrare il contrario, Geertz considerava l’antropologia una scienza, ed era convinto che il suo approccio ermeneutico potesse migliorare l’antropologia, non certo renderla imbelle o fuori moda. Forse non gli ha giovato il tono ironico, o la capacità di scudisciare i suoi avversari (ma già è improprio parlare di avversari, pensando a Geertz) sempre in punta di penna, quella penna che sapeva usare con una maestria rara nelle nostre scritture. Eppure non era solo un parafricchettone come a volte è stato descritto, con la sua barba natalizia, il candido capello incolto, le sue cravatte a farfalla. Era uno studioso convinto che uno sforzo ermeneutico applicato alla cultura in generale potesse liberare spazi di convivenza civica e civile, e che l’antropologia culturale avesse un ruolo di primo nello stimolare l’apertura di quegli spazi.
Con un’ironia che era tutta sua, aveva indicato nella ex Jugoslavia un modello di convivenza tra Paese e Nazione, un luogo paradossale da cui provare a ripensare il rapporto tra Stato e identità collettive. Dato che aveva capito il ruolo che le emozioni e i sentimenti giocano nel nostro senso di appartenenza, e aveva giustamente notato che le comunità nazionali si fondano su una serie di elementi considerati dati e immutabili, era stato accusato di essere un primordialista, mentre lui cercava solo di restare fedele al mandato malinowskiano di studiare e presentare le culture “dal punto di vista dei nativi”.
Con le sue riflessioni sulla religione (concepita ovviamente come “sistema culturale”, una categoria fintamente onnicomprensiva nelle sue pubblicazioni, in realtà una parodia terminologica che avrebbe dovuto scardinare il lettore dalle sue ossessioni catalogatrici del reale) aveva aperto già negli anni Sessanta un quadro teorico fortemente innovativo rispetto alla tradizione dei nostri studi, quadro che oggi potrebbe dirci molto sul rapporto religione/politica, in Italia e nel mondo, se solo venisse ripreso e aggiornato.
Per ricordare l’attualità del pensiero di Geertz basterà dire che risale alla metà degli anni Ottanta la stesura di un saggio (“Anti-antirelativismo”) che, se letto con attenzione – il che significa accettandone la sfida intellettuale e insieme stilistica, che non consente letture frettolose – ci costringerebbe a chiudere definitivamente perlomeno il modo con cui si è troppo spesso riaperta la querelle del relativismo, in antropologia e, ancor più oggi, nel generale dibattito della società civile.
Ma anche sulla differenza, sull’incontro con il diverso e sul senso di quell’incontro Geertz ha saputo dirci parole che devono ancora essere ascoltate veramente. La poderosa polemica contro l’etnocentrismo di Lévi-Strauss e Rorty che sottende la stesura de “Gli usi della diversità” si fa contemporaneamente beffe della chiusura “tradizionalista” e dell’apertura “multiculturale”, due opzioni apparentemente senza alternative nel quadro politico delle migrazioni globali.
Le accuse di eccesso di testualismo sono senza dubbio degne di attenzione, ma evidenziano più le sue idiosincrasie come studioso ed etnografo che non punti deboli del suo impianto teorico (e chiedo scusa a Geertz per il semplice fatto di attribuirgli una “teoria”). Tenere a mente la natura semiotica della cultura continua ad essere un approccio proficuo, che sta a noi applicare al visuale, alla cultura materiale, alla prossemica o a qualunque altra interazione non linguistica.
In Italia (ma considerazioni simili si possono estendere a tutti i paesi europei con una forte tradizione di studi di “cultura popolare”) i saggi di Geertz hanno avuto, tra l’altro, l’innegabile merito di costringere al confronto la tradizione “sociale” e quella “umanistica” degli studi antropologici. L’approccio chiaramente “letterario” con cui ha affrontato i temi classici della ricerca antropologica ha avuto cioè il duplice merito di restituire prestigio a un settore di studi spesso relegato nella marginalità del “non scientifico” e di riportare la conoscenza qualitativa entro l’alveo della scienza. Che tutto questo sia accaduto tra polemiche, ripensamenti, critiche e avanzamenti è del tutto normale, ovvio e sano. Quel che premeva a Geertz era che la nostra disciplina non perdesse il proprio senso inseguendo chimere di purezza operazionalizzabile oppure sbracasse definitivamente in un balbettio politicamente corretto ma conoscitivamente senza senso. Convinto che il compito degli antropologi fosse, nel quadro delle scienze in generale, quello dei monelli che scombinano le certezze depositate dalle altre discipline, che rovesciano il servizio buono nel tinello della zia, Geertz è rimasto fedele alle sue idee, per quanto ci potessero irritare o annoiare. Del resto, come disse in chiusura di “Anti-antirelativismo”, ricordando proprio il ruolo inevitabilmente provocatore dell’antropologia, costretta a fare i conti con le stranezze della diversità culturale: “se volevamo verità domestiche, avremmo fatto meglio a starcene a casa”.
Ora che Geertz a casa ci è tornato, a noi resta il compito, fin quando ci sarà concesso, di continuare a viaggiare dentro quelle reti di significati che lui – senza provare orgoglio disciplinare ma anche senza vergogna – chiamava culture.
Conferenza "Per un'idea di museo" Lamezia Terme 4-5 novembre 2006
Seconda Conferenza Regionale Calabrese SIMBDEA “Per un’idea di museo”
Il comune di Lamezia Terme in collaborazione con l’Università della Calabria e la Simbdea (Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici) organizzano la seconda conferenza regionale espressamente dedicata al rapporto tra collezioni private e istituzioni pubbliche.
Le culture tradizionali e locali suscitano da alcuni anni un rinnovato interesse. Le condizioni sociali e politiche attuali spingono molti a volgere l’attenzione a usi e costumi tradizionali spesso minacciati nella loro sopravvivenza. “Dall’alto” (istituzioni e amministrazioni pubbliche, soprintendenze) e “dal basso” (esperti locali, amatori, associazioni, semplici cittadini) questo interesse prende spesso la forma di rivalutazione e conservazione di beni tradizionali legati alla cultura materiale (strumenti di lavoro, utensili e suppellettili, abbigliamento, cibo) spesso allestiti in musei della cultura contadina e tradizionale. La conferenza si offre come momento di incontro e discussione tra queste due realtà di valorizzazione. Quale ruolo hanno le collezioni private e come possono interagire nelle politiche delle amministrazioni locali? Quali investimenti sono possibili e quali le scelte operative strategiche? Il duplice obiettivo di questo scambio di informazioni è da un lato rendere visibili agli amministratori gli sforzi compiuti dalla società civile, e dall’altro offrire agli operatori di base una controparte istituzionale in grado di valorizzare il lavoro compiuto. In questo modo sarà possibile rendere la cultura locale una risorsa per lo sviluppo che attragga turismo culturale e investimenti mirati e che produca sul territorio nuove opportunità di lavoro per i giovani e di finanziamento.