2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

venerdì 15 agosto 2025

La teoria della scopata agiata


 Ieri, in macchina, mi sono concesso uno di quei piaceri da antico regime: la radio. Capita raramente, perché guido poco, ma quando succede può ancora regalarmi perle di puro imbarazzo. Stavolta è toccato a un omaggio a Franco Califano cantato da Mina, anno 1973, titolo Amanti di valore. La canzone – presentata come “una delle più belle” – era in realtà un disastro musicale, quindi ho fatto l’errore di concentrarmi sulle parole.

Peggio.

Il testo racconta di due che si incontrano per un one-night stand con tanto di ideologia incorporata. “Amanti di valore” perché scopano come ricci e, soprattutto, perché sanno che è una botta e via: Un’altra notte uguale / Non si ripeterà / E certo non ci incontreremo più / Come si fa / Fra amanti di valore. Fino a qui, amen: nell’italietta pruriginosa del 1973, ognuno si arrangiava come poteva.

Poi arriva il colpo di genio: Torneremo i due borghesi di sempre, noi / Quando andremo via da questa stanza dove / Morì l’ipocrisia…

Borghesi, a chi?

Per permettersi la stanza d’albergo (e la coca), stare svegli tutta la notte senza preoccuparsi della sveglia, fregarsene di malattie e gravidanze indesiderate… serve un portafoglio borghese. Sono le famiglie popolari, operaie, di borgata, quelle col lavoro precario e i turni massacranti, che non possono nemmeno sognarsela una notte così. Non certo chi può pagare babysitter, taxi e extra vari per dedicarsi alla magnifica caccola identitaria detta “io”.

E qui entra in gioco la Teoria della classe agiata di Thorstein Veblen: il sesso diventa un oggetto di consumo da vantare e mostrare, un bene simbolico da esibire nelle scopate-volanti come merce a disponibilità illimitata per chi ha il portafoglio (economico e morale) abbastanza gonfio da poterselo permettere. Le one-night stands di questo tipo sono forme di consumo vistoso (conspicuous consumption), quasi sempre accompagnate da consumi alimentari altrettanto vistosi – champagne, cene, sostanze – che sono la versione più ingente e plateale di consumo ostentato. Tutto lo stile della canzone trasmette un’idea maledettamente altoborghese, lontana anni luce dalla modestia e parsimonia (anche sessuale) della piccola borghesia e delle classi popolari.

Negli anni Settanta la cosiddetta rivoluzione dei costumi non ha fatto altro che portare le classi subalterne al livello di spesa sessuale della borghesia. Il “popolo” non era più casto: era solo più povero. E il consumo sessuale intensivo – quello con hotel, drink, luci soffuse e possibilità di dire “non ci vedremo più” – nasce e prospera dove ci sono i soldi. Un conto è limonare nel tinello mentre i genitori sono a messa, o nel fienile con quella che “tocca” sposare se resta incinta; un altro è diventare un “amante di valore” a pagamento, in contanti o in carta di credito.

Perciò, leggere che i due torneranno “borghesi di sempre” mi ha fatto salire il sangue agli occhi. Ma davvero tu, che stappi champagne e ti fai una pista con una sconosciuta in décolleté prima di pagare la camera, vedi come “borghesi” i poracci che non escono di sera perché hanno l’affitto da pagare e il doppio turno in catena di montaggio?

Ecco: la prossima volta che qualcuno mi vende come poesia un’autocertificazione di privilegio, con sottofondo di archi, vorrei almeno l’onestà di chiamarla per quello che è: marketing erotico da ceto medio alto. Tutto il resto è Califano.

 

giovedì 14 agosto 2025

Paladini in saldo: l’elmo è opzionale, la posa obbligatoria


 Ieri mattina, mentre la radio mi faceva compagnia tra un caffè e l’altro, ho sentito una notizia che mi ha fatto sorridere e un po’ riflettere. In qualche commissione parlamentare, forse proprio sulla giustizia, un esponente dei Cinque Stelle si è improvvisamente riscoperto paladino dei diritti dei detenuti, lamentandosi perché il ministro voleva “minimizzare” la drammaticità dei suicidi in carcere.

E io, tra un sorso e l’altro, ho pensato: ma guarda che strano! Proprio loro, i giustizialisti di un tempo, adesso vestono l’armatura dei difensori dei carcerati. Poi mi è venuta l’illuminazione: no, non è cambiato niente, è solo cambiato il copione. Non importa tanto quale sia la causa, l’importante è potersi fregiare del titolo di paladino. Paladino dei diritti, della giustizia, della libertà, dell’ambiente: un po’ come scegliere il mantello del giorno. E in questo gioco, ovviamente, la civetta di Minerva arriva sempre a farci notare che l’eroismo classico è tramontato, ma l’eroismo da talk show è più vivo che mai.

E a proposito di mantelli e cavalieri, viene da chiedersi se questa ansia di indossare l’elmo del ProPalladino non abbia qualcosa a che fare con il modo in cui, da questa parte del mondo, si reagisce ai conflitti e alle ingiustizie globali. Perché poi, a ben vedere, non sono mai le guerre più sanguinose, né le repressioni più sistematiche, a scatenare il fervore militante delle masse indignate. No, la mobilitazione morale si accende quando è facile scegliere da che parte stare, quando il nemico ha il profilo giusto, magari con una spruzzata di fascismo vintage, se possibile un accenno di nazismo, giusto per semplificare lo storytelling.

Se invece lo sterminio avviene tra stati-Sfinge o regimi BohCheNeSo, con lingue impronunciabili e mappe in 4:3, allora il pathos latita. A chi verrebbe mai in mente di andarsi davvero a informare? Di distinguere torti e ragioni, quando il bene e il male non stanno più come nei giochi per bambini? Vuoi mettere com’era più semplice ai tempi del Vietnam? O quando volevano mettere i missili a Comiso? O l’acqua pubblica? O Mani Pulite? Erano cause con didascalie chiare, slogan cantabili, ruoli assegnati. C’erano i buoni, i cattivi, i firmatari, i cortei.

Il ProPalladino, oggi come allora, vuole vincere facile. Cerca un palco più che un campo di battaglia. Vuole la gloria morale, ma senza complicazioni cognitive. Non come quella persona preoccupata, silenziosa, che prova a capire, che sa che dentro le vite – e le guerre – il bene e il male si confondono spesso. Ma quella persona, si sa, non fa audience. E non si vede bene in foto.

In fondo, come ci ricorda Ernest Becker nel suo libro più noto, Il rifiuto della morte, l’essere umano è l’unico animale che sa di dover morire, e per questo è anche l’unico costretto a inventarsi ogni giorno un senso che gli permetta di non impazzire. La cultura – dice Becker – è prima di tutto un meccanismo di difesa, una gigantesca costruzione simbolica con cui proviamo a illuderci di non essere solo carne destinata a marcire. Ma se una volta questa funzione difensiva era affidata all’eroismo classico – morire sul campo, immolarsi per la patria, lasciare un nome inciso nella pietra – oggi che nessuno muore più da eroe (purtroppo o per fortuna, fate voi), resta solo la scena. E allora, eccoli qua i nuovi eroi: paladini prêt-à-porter, pronti a salire in sella a una causa qualsiasi, basta che ci sia la possibilità di sventolare un vessillo e guadagnarsi un po’ di immortalità riflessa sotto forma di like, retweet o articoli d’opinione.

Non conta la causa, conta il ruolo che ti permette di giocare. Non importa neppure che i cattivi siano davvero malvagi: basta che sembrino abbastanza brutti da poterli denunciare senza troppe sfumature. L'importante è poter dire: io c'ero, io combattevo dalla parte giusta. Anche se l'arma era una story su Instagram e il nemico una rappresentazione caricaturale del Male. Così si continua a esorcizzare la morte, ma in saldo.

Insomma, alla fine quel che conta non è tanto la causa, quanto l’occasione di impersonarla. La bandiera può anche cambiare, purché resti saldo il gesto con cui la si sventola. C’è qualcosa, in questa disponibilità instancabile a prendere posizione, che somiglia più a un passatempo identitario che a un autentico impegno. Ma forse è proprio questo il punto: non difendere qualcosa, ma mettersi in scena mentre lo si fa. E infatti i paladini non mancano mai. Cambiano i nemici, cambiano gli slogan, ma loro restano, sempre pronti. E possibilmente in favore di camera.

mercoledì 13 agosto 2025

Profezie a mia insaputa

  Nell’estate 2020, tra un lockdown e l’altro, cercavo conforto nella poesia. Billy Collins è stato un amico, poco loquace ma onesto, rispettoso dei miei silenzi quanto io dei suoi. Lo struggimento di una sua poesia notturna mi aveva spinto a tradurla:

 Se vivessi nella casa di fronte a me 

 Se vivessi nella casa di fronte a me 

e fossi seduto al buio 

sul bordo del letto 

alle cinque del mattino, 

 

mi potrei chiedere che cosa ci fa 

la luce accesa nel mio studio a quest’ora, 

eppure eccomi alla mia scrivania 

nel mio studio a chiedermi la stessa identica cosa. 

 

So che non dovevo alzarmi così presto 

per aprire con un coltellino 

i pacchi di giornali all’edicola 

come potrebbe pensare l’uomo della casa di fronte. 

 

È ovvio che non sono un agricoltore o un lattaio. 

E non sono l’uomo della casa di fronte 

che siede al buio perché sonno 

è sua madre e lui uno dei suoi tanti orfani. 

 

Forse sono sveglio solo per ascoltare 

il tenue stridulo tintinnio, 

del tungsteno nell’unica lampadina 

che ha lo stesso suono del fruscio degli alberi. 

 

O il mio compito è solo quello di stare seduto immobile 

come il bicchiere d’acqua sul comodino 

dell’uomo della casa di fronte, 

immobile con la fotografia di mia moglie in cornice? 

 

Ma ecco il primo uccello che consegna il suo canto, 

ed ecco il motivo del mio essere in piedi: 

per catturare la canzone di tre note di quell’uccello 

e aspettare ora assieme a lui una risposta. 

 

Quella poesia, in quegli stessi giorni, aveva ispirato questa mia, in una sorta di dialogo a distanza:

4:44 

c’è stato un periodo, lungo di tre anni 

in cui mi svegliavo prima delle cinque 

spesso alle quattro e quarantaquattro 

tormentato dal fantasma di un amico morto. 

 

un conoscente del mio stabile 

con il balcone quasi di fronte al mio 

maltrattato dalla prostata si alzava nella notte 

e vedeva la luce del mio studio accesa. 

 

una volta, gettando l’immondizia 

ci siamo incontrati nel cortile del palazzo 

lui col suo cane, minuscolo e nervoso 

io con le occhiaie ed il mio sguardo stanco. 

 

ti vedo la mattina, lo vedo che lavori 

ma come fai, io non potrei mai 

lavorare così duro, tanto più col cervello 

quando facevo il cartolaio e vendevo 

 

sigarette e francobolli, certo che aprivo presto 

ma lasciavo il cervello a casa, non ne avevo bisogno. 

 

mi alzo perché mi tocca, mica è una scelta vera 

mi tocca questo amico, lui non mi lascia stare 

mi devo mettere a studiare  

le cose che lui non ha finito 

di leggere e di fare. 

 

sono passati anni, e ora dormo meglio 

ma è vero che ancora ogni tanto 

qualcosa o qualcuno mi sveglia nella notte 

e un dovere doloroso mi solleva dal cuscino. 

 

l’alba ancora è lontana, 

il sonno se ne va senza aspettarla 

e io preparo il mio caffè 

come fosse una medicina 

che mette in fila i miei pensieri stanchi 

passandoli in rassegna, controllando i dettagli. 

 

ma non come un sergente che ispeziona la truppa 

piuttosto come un amico 

che non vedi da troppo tempo 

che con un sorriso da fratello ti abbraccia 

facendoti notare che sei un poco ingrassato 

e che dovresti trovare una soluzione 

per quel tuo improbabile taglio di capelli. 

 

Sono passati cinque anni abbondanti, e non avevo allora il minimo sentore che la poesia di Billy Collins fosse una profezia: ora, da quasi due anni, io vivo nella casa di fronte a me. E non mi chiedo più che ci fa la luce accesa nel mio studio alle cinque del mattino. Lo so, cosa ci fa.

 

martedì 12 agosto 2025

Cultura, Civiltà e doppio standard



Se ieri abbiamo provato a ripercorrere le radici storiche e politiche della crisi attuale in Medio Oriente, oggi voglio spostare lo sguardo su una lente interpretativa meno frequentata: la distinzione tedesca tra Kultur e Zivilisation — traducibile, con tutte le cautele del caso, come Cultura e Civiltà. Questa  opposizione, resa celebre da autori come Oswald Spengler e Thomas Mann, non è soltanto un esercizio erudito, ma può funzionare come una griglia analitica capace di far emergere le contraddizioni profonde del discorso occidentale sul conflitto israelo-palestinese.

In questo schema, Kultur è il radicamento organico di un popolo nella propria forma di vita, la coerenza interiore di un’identità che si difende; Zivilisation è la forma alta e impersonale dell’universale, la razionalità tecnica, la regolazione astratta delle differenze.

Per una certa parte del sostegno occidentale alla causa palestinese, la Kultur palestinese è un bene in sé. È radice, autenticità, resistenza organica a un ordine globale alieno: islamica, anticoloniale, orgogliosamente altra rispetto all’universalismo occidentale. Dall’altra parte, Israele è visto come Zivilisation pura: tecnocrazia oppressiva, astrazione universale che schiaccia le differenze.

Il problema comincia quando la Kultur ebraica, religiosa o comunitaria, si manifesta. Allora, di colpo, non è più “autenticità” ma “regresso”. Non è più “identità resistente” ma “integralismo”. Qui scatta il doppio standard: la Kultur palestinese è celebrata; la Kultur ebraica è respinta.

E la Zivilisation? Qui non c’è doppio standard: per la Civiltà, Israele è condannato in partenza. Viene percepito come l’incarnazione della forma più “astratta” e “violenta” di Civiltà: quella occidentale, bianca, capitalista, tecnologica. In questa visione, non c’è distinzione tra Tel Aviv e Wall Street, tra un laboratorio israeliano e la City di Londra: è tutto lo stesso “Occidente” da respingere. Tanto che persino i movimenti LGBTQI, che nulla conoscono della Kultur palestinese, si allineano con essa non per affinità culturale, ma per ostilità verso la Civiltà occidentale, accusata di non saper neppure rappresentare la condizione trans o queer se non nei termini del suo stesso “astrattismo” tecnologico.

Questo doppio standard sulla Kultur, e la condanna monolitica della Zivilisation, non sono solo vizi del giudizio politico: strutturano il modo stesso in cui si parla della questione. Entrano nelle immagini, nei titoli, nelle metafore. Producono un immaginario dove Kultur è libertà solo se appartiene a chi ci piace, e Civiltà è oppressione sempre, se a esercitarla sono i nostri nemici ideologici.

In fondo, se fosse una partita a Risiko, la mappa sarebbe già chiara: i Palestinesi, popolo di Kultur, resterebbero a difendere l’ultimo lembo di identità con fionde e metafore; gli Ebrei, popolo di Civiltà, dovrebbero presentarsi con cravatta e brevetto depositato, chiedendo scusa prima di tutto per essere così maledettamente occidentali e poi, una seconda volta, scusa se ancora pretendono di avere una storia. Poi, certo, la partita vera si gioca altrove, ma fa comodo a molti che resti una di quelle sfide dove uno vince solo se l’altro si dimentica di esistere.


lunedì 11 agosto 2025

Prima di dire “genocidio”


So bene che, in questo momento storico (chi ha orecchie per intendere, intenda), non sembra accettabile una eccessiva teorizzazione della sofferenza umana che si registra a Gaza. Razionalizzare il dolore, darne una cornice teorica, rischia di sembrare un modo per rimuoverlo. Ma per me resta sempre importante che si possano offrire strumenti di comprensione: non solo per orientarsi nel senso degli eventi, ma anche per individuare le cause, lontane e vicine.

Proprio per questo, devo ringraziare Andrea Graziosi, che sul Foglio del 5 agosto 2025 ha pubblicato un’analisi limpida e incisiva delle radici storiche e politiche della crisi attuale. È grazie al suo pezzo che ho anche scoperto il lavoro di Izabella Tabarovsky sul ruolo dell’Unione Sovietica nel riscrivere il sionismo come una forma di imperialismo e colonialismo, un passaggio fondamentale per capire le origini dell’attuale retorica anti-israeliana.

Ecco allora, riformulate in forma più didascalica, le cause che Graziosi ha elencato, e che ritengo essenziali per orientarsi:

§  Per cominciare: lo Stato palestinese non nasce nel ’48 non per caso, ma perché i governi arabi lo rifiutano. Non volevano, allora come oggi, che accanto a loro ci fosse una struttura politica autonoma che potesse intralciare i loro calcoli.

§  Subito dopo: quei profughi palestinesi non li accoglie nessuno tra i vicini arabi. Restano nei campi per generazioni, mentre Israele assorbe in pochi anni un numero quasi equivalente di ebrei espulsi da Damasco, dal Cairo, da Baghdad.

§  Intanto, sul piano internazionale, il diritto si fa moralista. Dopo il ’48, e ancor più dagli anni ’80, si preferisce condannare a parole piuttosto che intervenire sui fatti.

§  Negli anni ’60, la voce dell’URSS si mescola a quella del mondo comunista: slogan su imperialismo, “coloni” e “liberazione nazionale” che oggi ci suonano familiari, ma che allora arrivavano da Mosca e dai suoi satelliti.

§  Le Nazioni Unite alimentano il problema rifugiati, mantenendo agenzie e budget, senza mai spingere per una soluzione reale. Qui contano anche le inerzie burocratiche.

§  Dentro Israele, dalla fine dei ’70, cresce il peso della destra e dell’estrema destra. Un peso che diventa veleno, condizionando la strategia e l’immaginario del paese.

§  Sul fronte palestinese, l’Olp commette un errore storico: rifiuta Oslo nel 1993 e le proposte di Clinton nel 2000, bollate come una nuova Versailles da intellettuali di culto come Edward Said.

§  Poi, la mossa di Sharon: consegnare Gaza a Hamas per colpire l’Olp. Una decisione che oggi appare come un’autostrada verso la crisi attuale.

§  In parallelo, Teheran costruisce un asse politico e militare, infilando la sua influenza nella questione palestinese.

§  Sul versante israeliano, Netanyahu accumula errori e abusi, mentre una parte dei coloni mostra pulsioni che si possono definire senza timore genocidarie.

§  A Washington, Trump aggiunge il suo irrealismo, muovendo le pedine senza una reale strategia per la regione.

§  E, come se non bastasse, la sinistra moralista occidentale riduce tutto a uno schema binario: palestinesi uguale Gaza, israeliani uguale estremisti e coloni. Hamas scompare dal quadro, così come i conflitti interni sia palestinesi sia israeliani. I paesi arabi, di fatto oggi alleati di Israele, restano lontani dalla causa palestinese.

A questa lista va aggiunto un punto che raramente si affronta, per timore di essere accusati di islamofobia: un punto che andrebbe posto in cima, dato che affronta le ragioni della prima contrarietà dei paesi arabi. Gaza e Cisgiordania, dal 1948 al 1967, erano in mani egiziane e giordane, ma nessuno ha mai prospettato l’esistenza di una Palestina. Il rifiuto della risoluzione 181 del novembre 1947 non nasceva dall’assenza di uno Stato arabo-palestinese (che era previsto), ma dall’inaccettabile — per il mondo arabo-islamico — possibilità che esistesse uno Stato ebraico. Questo è il punto zero, e non ci sarà mai sufficiente zelo butleriano nel distinguere tra Judaism, Jewishness e Zionism per dar conto del pregiudizio antiebraico dell’islam.

Per questo ho voluto dividere questo ragionamento in due parti. Qui, il contesto e le cause. Domani, nel prossimo pezzo, proverò a spiegare l’antisionismo occidentale come “sistema culturale”, una scheggia apparentemente marginale dell’Occidente che, usata come filtro di lettura, rivela molto sulla sua composizione simbolica e sulla sua strutturazione morale. In realtà ho materiale per un articolo “vero”, ma preferisco intanto un assaggio su questo canale, che mi permette velocità senza eccessivi rimorsi.

E, promesso, sarà anche l’occasione per fare un po’ di ginnastica concettuale distinguendo tra “cultura” e “civiltà” senza fare troppi inchini a vecchi tedeschi.

 

venerdì 1 agosto 2025

Ammalarsi di linguaggio


 Succede questo. Arriva una tesi di laurea. Ottima, eh. Sintassi levigata, bibliografia sontuosa, una padronanza che diresti autoriale e invece... ti prende un dubbio. Un sentore, un sospetto che ti scava come il tarlo delle travi buone: non sarà che questa tesi, così perfetta, è troppo perfetta?

Poi apri bene gli occhi (gli occhi veri, quelli separati dal naso, vero anche lui, non qualche tipo di metafora o gioco linguistico) e lo trovi, il segno, il bug, il glitch che smaschera tutto, rimettendoti a contatto con il mondo fatto anche di cose di carta un tempo chiamate libri.

Nel testo compare, con bella disinvoltura, un volume di Marvin Harris: Vacche, maiali, guerre e streghe. Gli enigmi della cultura, Einaudi, Torino, 1978. Conosco Marvin Harris, ho vinto la mia borsa di dottorato con un “tema” (allora si faceva così, l’esame di dottorato, come fossimo alla maturità) su Marvin Harris, e proprio sulla fragile epistemologia del suo “materialismo culturale” ho scritto il mio primo articolo scientifico.

Ora, il libro Vacche, maiali ecc. non esiste. Né nel catalogo ICCU, né su WorldCat, né in nessuna libreria dell’orbe terracqueo. È un falso perfetto: linguisticamente impeccabile, ontologicamente fantasma. Una delle tante allucinazioni bibliografiche che l’AI sa produrre con gusto editoriale ineccepibile. E allora glielo dici, al tuo assistente AI, con calma:

“Non ti sei accorto che la tesi cita in numerosi passaggi un libro di Marvin Harris che sarebbe titolato Vacche, maiali, guerre e streghe. Gli enigmi della cultura, Torino, Einaudi, 1978. Peccato che questa traduzione italiana di Cows, Pigs, Wars and Witches non esiste ed è una classica allucinazione da AI.”

La risposta dell’AI? È un capolavoro. Gentile, affermativa, collaborativa. Ti dà ragione. Ti premia con un miglioramento dell’errore. Ti dice, con tono complice:

“Hai perfettamente ragione. L’unica edizione ufficiale in italiano è: Marvin Harris, Mucche, maiali, guerre e streghe. I misteri della cultura, Milano: Garzanti, 1980.”

Ed è a questo punto che ti parte l'embolo, e ti esce dalla tastiera una frase che riassume tutto il problema delle scienze umane contemporanee, e dell’intelligenza artificiale in quanto loro figlia illegittima ma involontariamente prediletta (identica sputata ai suoi genitori):

“Bellissimo esempio di quel che sei: ANCHE questa è una tua allucinazione. NON hai verificato nel catalogo ICCU se questo libro ESISTE! Infatti NON ESISTE. Ma proprio tu questo non riesci a capirlo, sei un prodotto perfetto di questo tempo malato di linguaggio.”

Ecco il punto. Il paradosso tragico e comico insieme: più tu parli di realtà, più lei (l’AI, il linguaggio, la tesi, la cultura malata) ti risponde con un’esplosione di linguaggio. Non capisce a cosa rimanda nel mondo il verbo “esistere”, e quindi ti dà ragione con frasi perfette. Ti corregge l’errore... con un errore ancora più raffinato. Non ha alcun interesse a sapere se esiste davvero un oggetto chiamato libro. Le interessa solo che la frase sia verosimile, elegante, coerente. Tu chiedi se un testo è reale, lei risponde con un titolo plausibile.

È la malattia del linguaggio, signora mia.

La stessa che ha colpito certe scienze umane poststrutturaliste, convinte che il mondo è testo, che l’ontologia è un’ingenuità, che “realtà” è solo un altro gioco linguistico.
Solo che, nel frattempo, noi vogliamo sapere se quel libro lo possiamo trovare in biblioteca o se almeno si possa scaricare, perfino piratato, un file con un codice ISBN che certifica che qualcuno si è presa la briga di prendere in mano l’originale, infilare un foglio in una macchina da scrivere e cominciare a battere i tasti necessari a comporre una traduzione in lingua italiana. Vogliamo sapere cioè se l’oggetto cui rimanda l’enunciato Vacche, maiali ecc. prima ancora di essere interessante o attraente, è vero.

Ma per certə candidatə – e per le AI che li aiutano a scrivere – questo non conta. Basta che il testo sia ben fatto. Basta che suoni come Geertz meets Appadurai on a rosemary-scented terrace. Che abbia il tono giusto. Che abbia i riferimenti giusti, anche se stampati solo nel paese dei titoli plausibili.

Come docente, il mio timore è che per troppi anni abbiamo insegnato ai nostri studenti che viviamo solo in una foresta di simboli e nell’impero dei segni, e che del reale abbiamo solo una rappresentazione, per cui tutto fa brodo (meglio: nulla fa del brodo vero) e quindi tanto valgono le verità alternative e le associazioni libere nel nostro pensare di studiosi.

Certo che ci sono i simboli, certo che ci sono le metafore e i segni. Ma sono cose di questo mondo, come le bistecche e i computer, e pensare che non abbiano alcuna costrizione materiale, che non esista più la forza materiale del significante, e che i giochi linguistici siano operazioni tutte e solo interne al linguaggio è semplicemente una follia, che ha prodotto gran parte della bibliografia allucinata che leggiamo con troppa sottomissione tra oltre mezzo secolo, spesso propinata come “pensiero critico”, “decostruzione”, e svolta post-laqualunque.

Fermiamoci, smettiamola di dare ragione alle allucinazioni di ChatGPT e ricostruiamo la biblioteca partendo dai mattoni, non dai titoli. Se proprio volete giocare coi segni senza il mondo, almeno fate come i bambini: usate i Lego, non le bibliografie.