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Premessa-Disclaimer: Non ce l’ho con
Daniele Salvini, giornalista e film-maker che non conosco e che quindi rispetto di
default. Anzi, i video che ho visto di lui mi sembrano interessanti e si accavallano per tanti aspetti al mio lavoro di antropologo delle
identità. Ma le cose che lui dice e che commento in questo post potrebbe averle dette chiunque, le dico anch’io in altre forme (vedi il
titolo del post). E comunque, non intendo
“criticare” quel che dice Salvini, semmai iniziare a riflettere grazie allo spunto delle sue riflessioni (Fine del disclaimer).
Nell’ultimo numero di
Nòva24, il bellissimo inserto del giovedì del
Sole24ore,
Daniele Salvini scrive un pezzo, a pagina 6, titolato (lo so, non è opera sua, i titolatori sono una professione a sé nel mondo del giornalismo) “
Comunità aperta (ma non per tutti)”. Si parla del ventennale di
Sdf (Super dimensional fortress). Ora, non chiedetemi precisamente cosa sia
Sdf (leggete direttamente il pezzo, semmai) dato che non l’ho capito del tutto, ma più o meno è una community di circa 30.000 membri che “incentiva un uso evoluto e sapiente degli strumenti informatici”. In pratica, è una community che se ne frega bellamente dell’interfaccia grafica e continua a tenersi unita con il protocollo
Telnet e con il vecchio
gopher, protocolli di comunicazione in buona parte superati perché troppo rigidi (soprattutto gopher, con la sua struttura ad albero) oppure “inglobati” quanto a funzioni nella struttura grafica del “www”. Le ragioni per mantenere viva una comunità che ha deciso di rifiutare esplicitamente un’interfaccia grafica possono essere le più varie (un po’ come varie sono le motivazioni per cui gli
Amish non usano corrente elettrica, ad esempio) ma a me pare interessante quella che segnala Daniele Salvini nel suo pezzo:
Per servirsene [di Sdf] bisogna utilizzare la riga di comando: ogni attività si svolge scrivendo parole in un terminale, senza l’ausilio di una Gui, dell’interfaccia grafica, la quale, come dice Neil [sic] Stephenson nel suo saggio In principio era la linea di comando, altro non è che una metafora e sappiamo tutti che il terreno di gioco delle metafore non è un ambito leale.
Provando a tradurre, e pensando anche al forte potere evocativo del titolo del saggio citato a supporto della sua tesi, Salvini ci dice che la riga di comando, non essendo metaforica come invece è l’interfaccia grafica, ci consente un rapporto
più vero (con chi, è difficile dirlo: con la Rete in quanto nodi di accesso informativo o con gli utenti della rete in quanto terminali umani, soggetti bio-reali?). Conferma questa mia interpretazione quel che Salvini aggiunge subito dopo:
Scrivere invece che cliccare rappresenta una interazione meno mediata e un canale di comunicazione più diretto. [enfasi aggiunta da me, pv]
Mi pare bellissimo: dopo secoli di riflessione (da
Platone in giù) sui rischi della scrittura come eccesso di mediazione del reale, ecco finalmente che la
Gui si addossa tutta la colpa e possiamo elogiare per la sua “immediatezza” quel che avevamo sempre condannato come
segno (attenti alle parole che uso, lettori; attento alle parole che usi, Piero) dello scollamento tra
noi e la
realtà. Il gusto che si ottiene, è in effetti qualcosa di simile a un remake attuale di
Blade Runner. Oggi, nel trionfo di internet e della civiltà dell’immagine,
Deckard non userebbe più il televisore per sondare la foto che lo porterà alla caccia dei “
lavori in pelle”, probabilmente farebbe un accesso con
Telnet, con la riga di comando su un monitor a fosfori verdi…
Ecco in proposito le parole di Salvini, che chiudono il suo bel pezzo svelando l’
ideologia profonda di Sdf: “Oltretutto sembra fantascienza ma è vintage”. Ecco la parola chiave:
vintage. Qualunque sia la nostra condizione tecnologica, quel che sembra contare veramente, oggi, sono due cose:
1. essere
uptodate (di questo atteggiamento ho parlato altre volte, su questo blog, vedi i post taggati social distinction)
2. provare una sottile
nostalgia per il passato, spesso evocato come un’epoca in cui la comunicazione era più vera, “
meno mediata”.
Credo ci sia una correlazione diretta tra questi due atteggiamenti: più si ha modo di esprimere il secondo, e più si conferma che si vive nel primo. Se cioè non fossimo maledettamente protesi verso un
futuro sempre più prossimo che accorcia la durata del
presente, non avremmo così tanta nostalgia, e se abbiamo nostalgia è un buon segnale indiretto (ma socialmente apprezzato) del fatto che siamo aggiornati, con un sacco di
passato già dietro le spalle.
Tant’è che neppure un mondo così inevitabilmente recente come quello della Rete ce la fa a non generare i suoi
tradizionalismi, i suoi
lefebvriani che vogliono internet in latino (perché questo a me pare
Sfd: la rete che avanza traballando e biascicando una lingua che possono capire solo gli
happy few). (Un caso simile mi sembra quello recente del panegirico per i telefonini che non fanno altro che telefonare e, al massimo, mandare sms: ecco i buoni e sani
cellulari di
una volta, mica le sconcezze ipertecnologiche che abbiamo
oggi, signora mia).
Credo che la
nostalgia sia un sentimento rispettabile (per quanto io ne rifugga il più possibile) e quindi non è contro questo aspetto psicologico della faccenda che sto argomentando. Mi interessa, in chiusura, puntare al cuore dell’argomentazione: che la
metafora del Gui, in quanto
metafora, è
sleale, e che quindi la riga di comando è più
onesta.
Rileggete il modo in cui Salvini lo dice, lo scrive. Rileggete
con calma, per favore, e ditemi se non vi viene in mente quello schiavo orientale (citato da
Wittgenstein, mi pare) che immerso nelle sabbie mobili si tirò fuori afferrandosi per i capelli legati a coda e tirando forte:
“…sappiamo tutti che il terreno di gioco delle metafore non è un ambito leale”
“…
il terreno di gioco delle metafore…”
è una metafora! Come tutto il linguaggio che usiamo, che altro non è che un modo
MEDIATO (né meno né più di qualunque altro canale comunicativo) di comunicare. Per contestare la sleale metaforicità del Gui, Salvini usa
metaforicamente quell’altro strumento (il linguaggio verbale, in questo caso scritto) che dovrebbe essere “più esente” dall’accusa. Questo approccio ribalta secoli di riflessioni filosofiche sull’estetica. Si credeva infatti, fino a poco fa, che quello
figurativo (cioè quello delle GUI) fosse un linguaggio meno mediato del linguaggio
verbale, dato che si credeva che l’
iconismo (cioè la capacità di imitare il reale visibile) fosse una qualità naturale del linguaggio figurativo, fin quando non abbiamo scoperto, con la
semiotica moderna, che l’iconismo, come ogni sistema semiotico, ha la sua
grammatica e la sua
sintassi, e quindi se ne fotte della
natura e delle sue regole, per seguire esclusivamente le sue, che sono
create dagli
uomini.
Ma più di questo, è per me interessante che la posizione di Salvini sembri dare credito all’
utopia delle utopie, a quella
chimera che perseguita i
filosofi e gli
antropologi (e ossessivamente i
massmediologi, che su questo mito hanno costruito un’intera disciplina) e cioè la speranza che un giorno, forse (nel più remoto passato o nel futuro) gli uomini siano stati o saranno in grado di afferrare la realtà direttamente,
im-mediatamente, senza bisogno di un
medium (sia questo il linguaggio verbale, quello scritto disprezzato da
Platone o quello grafico considerato sleale da
Salvini). Ecco allora che, nel momento in cui esiste la Gui, la “linea di comando” vagheggiata, pur essendo a tutti gli effetti una metafora (pensate a dove potete arrivare pensando a “linea di comando”: corpi
militari, da un lato, simboli
fallici, dall’altro) si presenta come un barlume di quell’utopia, una fiammella da tenere accesa nella speranza che prima o poi divampi il sacro fuoco della comunicazione
DIRETTA, senza mediazioni.
La radice di questa utopia, il suo eterno fascino, forse sta nella nostra profonda (nel senso che sta lì, in fondo, onnipresente qualunque cosa facciamo) consapevolezza della
solitudine e nel nostro disperato desiderio di uscirne. Ma per uscire
“veramente” dalla solitudine dobbiamo sperare che quel che sentiamo anche altri lo sentano, e se mettiamo di mezzo qualunque medium rischiamo di perdere la garanzia che la comunicazione sia stata tale, e di scoprire che è solo un trucco dei segni che si parlano tra di loro, alle nostre spalle. Vogliamo da sempre comunicare senza avere un canale di comunicazione, facendo passare direttamente il messaggio da corpo a corpo, senza linguaggio. È per questo che
scopiamo, ed è per questo che gli innamorati balbettano
ciuppi cippi e
ciccio ciccia: cercano di comunicare sperando di
saltare la
necessità del medium.
Invece di ammettere che quel che proviamo e che esperiamo (a qualunque livello) esiste
solo nella misura in cui viene
mediato dal linguaggio (e di lì mediato altrove, dalla tv a internet), ci illudiamo che vi sia un’esperienza e una percezione prelinguistica, che potremmo in qualche modo recuperare se solo non fossimo così dannatamente
civilizzati, se fossimo finalmente
più naturali. Ecco, il mito di Sdf è il mito dell’
ultima Thule, un posto dove ricominciare, finalmente. Peccato che, come tutti i miti, si fondi inevitabilmente proprio su quel che come mito intende negare, e cioè sul
potere metaforico del linguaggio, che è così potente da illuderci, in certi momenti, che lui metaforico non è, come ci ha mostrato il pezzo di Daniele Salvini, che scriveva metaforicamente della non metaforicità del linguaggio scritto.