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domenica 15 ottobre 2017

Antropologia culturale #04

11 10 2017. Lezione tosta e per certi versi innovativa anche per me. Di solito, quando insegno questa parte del programma non presento se non alcuni dettagli suo processo di NATION BUILDING, ma credo fosse importante chiarire alcuni punti centrali per comprendere proprio il senso di cosa sia la cultura nel senso in cui lo intende l’Antropologia culturale. Nella quarta lezione abbiamo cercato di comprendere da dove scaturisce la naturalezza con cui, di primo acchito, siamo disposti ad accettare l’idea che LA CULTURA È SAPERE CONDIVISO, dato che, come abbiamo già visto, basta scavare un poco quella condivisione si rivela molto meno chiara e molto poco compatta. Come mai, allora sentiamo questa inclinazione “spontanea” a dare per condiviso il nostro sapere culturale con quelli che consideriamo nostri sodali di cultura?
(Tutta questa parte del programma mi si sta sempre più nitidamente sovrapponendo con le cose che dico al corso di Anthropology of Globalization per la triennale in Global Governance. Potete vedere come ho schematizzato questo punto nella loro Lezione # 5, visto che qui un po’ sintetizzerò rispetto alle cose che ho scritto in quel post).

Abbiamo visto che cultura è comportamento appreso ma questo non basta. Questo sapere deve essere condiviso, non può essere proprietà di un unico individuo che se l’è prodotto e lo fa circolare tra sé e sé. Abbiamo visto che questo sapere condiviso lo è fino a un certo punto, nel senso che non solo molto sapere è condiviso tra più culture (le culture NON sono naturalmente distinte in modo netto, anzi, essendo mischioni di molti saperi trasmessi in molti modi diversi da moltissime persone diverse, le culture sono per definizione impure, bastarde, mischiate); in più le culture sono al loro interno complesse, stratificate, contraddittorie.
Eppure, e questo è stato l’oggetto della lezione su cui abbiamo cercato di riflettere, la frase “la cultura è condivisa” ci pare a prima vista del tutto ragionevole, ci pare semplice, ovvia, certa, un dato di fatto su cui fare affidamento: ci sono i cinesi e ci sono i marocchini, e i cinesi condividono la cultura cinese, mentre i marocchini condividono la cultura marocchina. Più o meno come ci sono gli albanesi con la loro cultura albanese e i turcomanni (?) con la loro cultura, sicuramente turcomanna. Cosa c’è di tanto contraddittorio in questo?
C’è che tutti sappiamo fare una netta distinzione tra questi stereotipi vuoti di contenuti specifici e il modo in cui li riempiamo delle nostre specifiche conoscenze umane, per cui “gli albanesi sono X” ma contemporaneamente quello specifico albanese che conosco io, proprio io, è ovvio che non è del tutto X, perché che c’entra, lo conosco, e lui così invece, e lui cosà invece.
Se insomma tutti abbiamo contezza della fragilità degli stereotipi identitari (gli X sono Y, per ogni x tranne quelli che conosco…) da dove viene questa persistenza degli STEREOTIPI?
Abbiamo individuato due SORGENTI.
1. LA VITA QUOTIDIANA. Come animali senza doti naturali se non quella di apprendere rapidamente qualunque modello di comportamento, non possiamo vivere ogni secondo con questa disposizione all’apprendimento attivata e sedimentiamo quel che impariamo in MODELLI, PATTERN o SCHEMI di comportamento e giudizio. Imparare significa proprio questo, confrontarsi con l’esperienza e dedurne (per apprendimento, non per natura) regole più ampie, che possiamo applicare poi risparmiando energie. Non prendiamo ogni volta l’autobus come se fosse la prima volta, e abbiamo imparato ad aspettarci che una volta a bordo il nostro equilibrio verrà messo in discussione e sarà bene evitare di cascare addosso ai vicini. Quando assaggiamo la colazione, non ci aspettiamo di scoprire chissà quali gusti misteriosi o esotici, proprio perché una lunga consuetudine ci ha indotti a pensare che abbiamo delle ragionevoli ASPETTATIVE sul gusto di quel che metteremo sotto i denti.
Questa elaborazione di SCHEMI di ASPETTATIVE riguarda anche l’interazione sociale. Normalmente, quando chiediamo “Scusi, sa che ora è?”, resteremmo sorpresi se l’interlocutore ci prendesse essere alla lettera, e rispondesse “Sì, io lo so benissimo che ora è. Arrivederci!”. Perché la domanda in realtà vuol dire: “Io non so l’ora. Tu, se la sai, me la puoi dire?”. E come è possibile che una conversazione così bizzarra (in cui una domanda viene porta senza che ci si aspetti una vera risposta, ma implicandone un’altra piuttosto diversa) prenda piede e vada a buon segno se non ci siamo accordati implicitamente sul suo funzionamento? Interagiamo costantemente dando per scontate una serie di regole come questa, e cominciamo a dare per scontato che tra noi e gli altri ci sia tutto sommato un flusso comodo e scorrevole di comunicazione “spontanea”, come se fossimo veramente tutti più o meno uguali e parlare a se stessi o a un estraneo avesse lo stesso (basso) livello di convenzionalità. Nella vita quotidiana, insomma, il sistema delle regole comunicative e sociali è tale che tendiamo a dare per scontata la somiglianza. Motivo per cui prestiamo così attenzione alle differenze di pelle, o di accento, o di abbigliamento, o a qualunque altro tratto che, nella sua EVIDENZA di DIFFERENZA, metta in discussione la scontatezza della nostra generale SOMIGLIANZA.

2. LA POLITICA. A fianco o di rinforzo a questo sistema di elaborazione degli stereotipi e della aspettative gli ultimi trecento anni hanno visto il consolidarsi di un sistema politico basato sullo stato nazionale che ha notevolmente rinforzato e realizzato quest’idea che “La cultura è condivisa”. Tutta questa parte della lezione si concentra sull’impatto del concetto di nazione come si evolve con il modello capitalista moderno. Il capitalismo moderno ha bisogno di innovazione costante e questo implica una standardizzazione dei cittadini, che devono essere in grado di spostarsi per produrre su tutto il territorio nazionale. Il capitalismo a stampa ha prodotto un forte impulso verso l’omogeneizzazione linguistica (nascita delle lingue nazionali) e il risultato finale è che si comincia a sedimentare dal Settecento l’idea che le nazioni siano unità culturalmente compatte (molto più compatte di quel che non siano in realtà) che costituiscono la base di entità politiche dai confini nitidi, gli Stati moderni.
Baso questa parte della lezione su una sintesi che ho fatto di due libri, vale a dire Nazioni e nazionalismo di Ernest Gellner, e Comunità immaginate di Benedict Anderson. Non posso in questo post sintetizzare le molte cose dette a lezione, ma qui potete leggere un mio vecchio pezzo inedito dove ho cercato di sintetizzare gran parte delle cose di cui ho parlato a lezione.


Q1. Riflettete sulla vostra cultura “nazionale”, vale a dire su quali sono stati i canali che vi hanno portato a sentirvi “naturalmente” parte della vostra nazione. Ripercorrete alcuni momenti importanti di acquisizione della cultura nazionale, sia quella canonica, sia quella più libera.