2011/12: INFORMAZIONI PER CHI AVEVA 12 CFU E TUTTI GLI MP3 DELLE LEZIONI

domenica 29 ottobre 2017

Antropologia culturale #12 e #13

26 e 27 10 2017. Un solo testo per due lezioni metodologiche (prima parte e seconda parte), in cui abbiamo cercato di raccontare come si fa ricerca etnografica. Se la cultura è quel sistema complesso di segni che abbiamo finora sommariamente definito, e se l’epistemologia della disciplina impone un approccio teorico di tipo ermeneutico, in concreto questo in cosa si risolve? Cosa succede veramente quando l’antropologa o l’antropologo deve condurre una ricerca mettendo a frutto la sua professionalità? Per che tipo di dati raccolti siamo pagati?
Abbiamo letto quindi La politica del campo di J-P Olivier de Sardan, e presentato quello che a mia conoscenza è il testo introduttivo migliore per capire cosa si fa, sul serio, una volta che si conduce una ricerca sul campo. Il punto di partenza è non commettere l’errore di cercare solo quel che già si conosce, ed accettare il fatto che sul campo c’è un sacco di spazio per la SERENDIPITÀ, vale a dire quella strana qualità della vita umana, per cui cercando una cosa ne troviamo poi molte altre a cui non stavamo minimamente pensando. Per cogliere questo punto, abbiamo parlato di questo test, che potete fare come esercizio introduttivo. Dove semplicemente contare quanti passaggi fanno i giocatori con la maglia bianca. Contate bene, mi raccomando.
Come sintesi della lezione (durante la quale ho ripreso diversi punti esemplificativi dalla mia ricerca in Macedonia occidentale greca, di cui diremo in dettaglio nelle due lezioni finali), riporto di seguito una parte degli appunti che avevo steso anni fa per una lezione a un gruppo di dottorandi di storia, nella porzione dove riassumo proprio i concetti di base di Olivier de Sardan, più una rapida introduzione sul ruolo dell’INTIMITÀ nella ricerca etnografica, di cui non abbiamo avuto modo di parlare direttamente ma che credo sia importante sottolineare.

1. Intimità e etnografia

L’antropologo che fa ricerca sul campo si trova a dover considerare come strumento di lavoro quel che per altri studiosi dell’uomo spesso è considerato un ostacolo alla correttezza della ricerca, e cioè l’intimità con le persone dalle quali cerca di ottenere la materia prima del suo lavoro. Mentre un sociologo, uno storico, ma anche uno psicologo o uno psicoanalista valutano con estrema cautela l’eventualità di provare qualche forma di attaccamento emotivo per i propri interlocutori (o per i propri documenti), per l’antropologo questa condizione di contatto profondo non solo non viene esclusa, ma è anzi attivamente ricercata: solo grazie alla “confidenza” con i propri informatori, infatti, potrà sperare di fornire una rappresentazione adeguata del “punto di vista del nativo”. Vered Amit-Talai (1999, p. 2) riassume questa particolarità della ricerca etnografica in modo efficace:
Una delle peculiarità dell’osservazione partecipante intesa come ricerca etnografica è il modo in cui il/la ricercatore/trice e le sue personali relazioni fungono da vettori privilegiati per l’elicitazione dei dati e per la loro comprensione. Sicuramente non esiste altra forma di indagine scientifica in cui i rapporti di intimità e familiarità tra ricercatore e soggetto indagato siano considerati un così fondamentale strumento di indagine, invece che un effetto collaterale intrusivo o addirittura un impedimento alla ricerca.
A questa citazione possiamo contrapporre, con un pizzico di retorica contrastiva, la preoccupazione di una storica, Annette Wieviorka che, ponendosi direttamente il problema della rilevanza del testimone nella ricostruzione storica, sembra preoccupata proprio di non perdere il passo con l’obiettivo fondamentale della sua disciplina:
Come costruire allora un discorso storico coerente se ad esso si contrappone costantemente un’altra verità, quella delle memorie individuali? Come fare appello alla riflessione, al pensiero, al rigore quando i sentimenti e le emozioni invadono la scena pubblica? (Wieviorka 1999).
Ovviamente, non pretendo che questa opposizione schematica sia sistematica (ci sono antropologi che si pongono il problema di come superare la “seduzione etnografica”, e ci sono storici del tutto convinti della necessità di un contatto più profondo con la questione “esperienziale” della ricerca) ma rimane il fatto che la tensione tra distanza critica e identificazione empatica con la fonte sembra spingere la storia verso la prima, e l’antropologia verso la seconda. In realtà, posta in questi termini ipersemplificanti, l’opposizione è del tutto artificiale e fuorviante (cfr. Dei 2005, pp. 41-42), dato che rischia di banalizzare lo spinoso problema dello statuto ontologico delle rappresentazioni (che sono i dati principali e dell’antropologo e dello storico). Ma in questa sede non voglio occuparmi del rapporto tra realtà, verità e scienze umane, quanto piuttosto di un tema collaterale, e cioè l’interazione tra produzione etnografica e rappresentazioni dell’identità. Il problema che mi pongo, quindi, può essere formulato con due domande dirette:
1) cosa succede alle “fonti” una volta che sono state raccolte o trattate dall’etnografo?
2) cosa succede all’etnografo una volta che inizia a trattare certe fonti?
Proprio perché una risposta a queste domande deve problematizzare il “luogo” di produzione del sapere “intimo” dell’antropologia, per poter articolare una risposta, presenterò alcune considerazioni preliminari sui “dati” antropologici, per poi passare a due esempi tratti dalla mia esperienza di ricercatore [non li presento qui, erano esempi fatti per la lezione agli storici].

2. Il dato antropologico

La ricerca antropologica si basa sul quattro forme di produzione dei dati, che tra loro interagiscono costantemente.
1. l’osservazione partecipante
2. i colloqui
3. le procedure di censimento
4. la raccolta di fonti scritte (nelle quali includo qualunque forma di “scrittura” intesa come memoria extrasomatica, per cui tra le fonti “scritte” vanno considerati anche filmati su pellicola o su nastro magnetico e tutti i tipi di “file” audiovisivi oggi disponibili).
Vediamo in dettaglio ognuna di queste quattro forme.

2.1 osservazione partecipante

Lo strumento fondamentale del lavoro dell’antropologo nel produrre dati con questa forma è il taccuino. Secondo Olivier de Sardan (2007, p. 34), il taccuino “è il luogo dove si opera la conversione dell’osservazione partecipante in dati trattabili ulteriormente”. Il ricercatore, immerso nel contesto della sua ricerca, osserva, ascolta e interagisce costantemente e il taccuino degli appunti sedimenta i corpus che saranno poi trattati nella fase di elaborazione. Come lo storico ha gli archivi nei quali produce i suoi corpus, così l’antropologo ha il taccuino di campo, che gli consente di registrare quel che ritiene importante per conservarne una traccia. Non affronto in questa sede la questione dello statuto epistemologico di questi corpus, ma mi limito a osservare come l’antropologia culturale abbia da lungo tempo superato il paradigma rigidamente positivista secondo cui i dati sarebbero “pezzi di realtà”, pur mantenendo un sano approccio empirista che le consente di non cadere nella fallacia soggettivista per cui i dati altro non sarebbero che costruzioni idiosincratiche dell’osservatore (Olivier de Sardan 2009, p. 32). Insomma, il taccuino su cui registrare impressioni e annotazioni è uno strumento fondamentale per trasformare in dati le osservazioni.
Eppure l’osservazione partecipante non si limita a produrre dati su carta (o su file), dato che una parte rilevante del sapere degli antropologi si sedimenta attraverso l’impregnazione, cioè il meccanismo di familiarizzazione implicita, non acquisita per via formale, della cultura locale. Leonardo Piasere (2009, p. 75) la chiama “conoscenza incorporata dell’esperienza etnografica” e per esemplificarla racconta un curioso episodio accaduto durante un convegno che univa esperti di zingari e antropologi esperti di altri campi di ricerca. Alla battuta di un collega “zingarologo” risero solo gli antropologi esperti di zingari, perché
gli antropologi ‘generalisti’, pur conoscendo l’etnografia scritta degli zingari, dimostrarono di non sapere quando si ride in un accampamento zingaro. Nessuno di noi antropologi degli zingari ha mai spiegato ‘di che cosa ridono gli zingari’ e forse nessuno ha mai focalizzato la sua attenzione su questo, eppure la nostra pratica condivisa ci portò in quell’occasione, quasi per un meccanismo di stimolo-risposta, a ridere perché ‘sapevamo’ che in quelle situazioni dagli zingari si ride. Avevamo incorporato una conoscenza che non era stata travasata nei nostri scritti (Piasere 2009, p. 75).
Il punto teorico rilevante di questa dimensione della ricerca sul campo è l’esigenza, da parte del ricercatore sul campo, di superare il logocentrismo per riconoscere che tra le sue fonti di conoscenza molte sono di tipo extralingustico. Così riassume questo punto Judith Okely:
Gli antropologi, immersi per prolungati periodi in un’altra cultura o nella propria in quanto osservatori partecipanti, imparano non solo attraverso l’orale o il trascritto, ma attraverso tutti i sensi, attraverso il movimento, attraverso i loro corpi e l’intero essere, in una pratica totale. Noi usiamo questa conoscenza per dare senso, letteralmente, al materiale annotato. Scrivere è ben più della ‘pura cerebralizzazione’ che qualcuno ha detto essere. Le note prese sul campo possono essere niente di più che un congegno che fa scattare memorie incorporate e quindi inconsce (Okely 1992, p. 76).

2.2 i colloqui

Costituiscono in effetti una parte rilevante dei “taccuini” gli appunti presi da conversazioni che il ricercatore produce intenzionalmente dato che molti aspetti della cultura studiata non sono “osservabili” né in senso letterale né figurato.
Consulenza e racconto sono i due estremi tra cui si collocano i colloqui condotti. L’intento del colloquio deve essere quello di avvicinarsi più possibile alle forme spontanee della conversazione secondo la cultura locale, e quindi il più lontano possibile dall’interrogatorio. La guida al colloquio tende a una lista di domande, mentre il canovaccio di colloquio seleziona una serie di temi che si vogliono sviluppare durante il colloquio.
La caratteristica fondamentale del colloquio antropologico è la sua natura ricorsiva, per cui una riposta può suscitare nuove domande o rendere pertinenti in modo nuovo vecchie domande. Naturalmente, la ricorsività di inscrive bene in un’altra caratteristica del colloquio antropologico, che è la dimensione diacronica. Lo stesso informatore può diventare soggetto di numerosi colloqui, per mettere a punto diversi aspetti dell’indagine in diversi momenti. Anche in questo senso il colloquio antropologico si differenzia dall’intervista giornalistica e dal questionario sociologico.

2.3 Le procedure di censimento

Proprio per la natura sfuggente del suo oggetto, spesso l’antropologo si aggancia a procedure di censimento, il cui intento è fornire un corpus di dati quanto più “completo” possibile. Una tipica procedura di censimento degli antropologi è la ricostruzione degli alberi genealogici o le strutture matrimoniali. I censimenti sono dati -etic contrapposti ai dai derivati dagli enunciati degli indigeni, che sono invece dati -emic.

2.4 fonti scritte

Sono almeno di tre tipi per gli antropologi
1. fonti propedeutiche alla ricerca sul campo. Sono paragonabili alle fonti secondarie degli storici,ovviamente.
2. fonti integrate nel campo, come diari, lettere, quaderni e pubblicistica locale. A queste si devono aggiungere le fonti audiovisive locali.
3. corpus autonomi come stampa e archivi esistenti, nonché tutto il materiale audiovisivo disponibile online.
Queste forme di produzione del dato antropologico vanno sottoposte a quella che Olivier de Sardan chiama “politica del campo”, basata su alcuni punti fermi.
Triangolazione semplice (che ricostruisce la realtà degli eventi indagati) e quella complessa, che consente invece l’individuazione dei gruppi strategici rispetto al tema indagato.
Iterazione nel senso concreto di produzione non lineare di informazioni (tizio mi manda caio che mi manda da sempronio che mi rimanda da tizio) e nel senso teoretico di costante modifica dei temi dell’indagine in base ai dati raccolti. L’esempio di un sondaggio in una via (dal numero 1 al numero 100) e della rete dei contatti (tizio è amico mio, poi vai da caio, che ti manderà da sempronio) dell’etnografo che tende a riprodurre la realtà sociale.
Esplicitazione interpretativa nel diario di campo come spazio del dialogo anche teorico (memoing vs data collection vs coding)
Saturazione per stabilire quando la ricerca “finisce”.
Il gruppo sociale testimone.
Gli informatori privilegiati.
Individuazione dei fattori di disturbo: l’incliccaggio, il monopolio delle fonti, la rappresentatività del gruppo testimone, e la soggettività del ricercatore
Testi citati
Amit-Talai, Vered, 1999, “Introduction. Constructing the Field”, in Amit-Talai, Vered, a cura di, Constructing Field: Ethnographic Fieldwork in Contemporary World, Florence, KY, Routledge.
Dei, Fabio, 2005, "Introduzione. Poetiche e politiche del ricordo", in P. Clemente e F. Dei, a cura di, Poetiche e politiche del ricordo. Memoria pubblica delle stragi nazifascisce in Toscana, Roma, Carocci.
Okely, Judith, 1992, “Anthropology and Autobiography: Participatory Experience and Embodied Knowledge”, in J. Okely, H. Callaway (a cura di), Anthropology and Autobiography, ASA Monographs 29, London and New York, Routledge, pp. l-28.
Olivier de Sardan, Jean-Pierre, 2009, “La politica del campo. Sulla produzione di dati in antropologia”, in Francesca Cappelletto (a cura di), Vivere l’etnografia, Firenze, Seid, pp. 27-63.
Piasere, Leonardo, 2009, “L’etnografia come esperienza”, in Francesca Cappelletto (a cura di), Vivere l’etnografia, Firenze, Seid, pp. 65-95.
Wieviorka, Annette, 1999, L'era del testimone, trad. it. Milano, Raffaello Cortina editore.

Q1. Dopo aver letto attentamente il testo di Oliver de Sardan, simulate di essere un anziano antropologo/una anziana antropologa che racconta a un gruppo di giovani studenti come ha condotto la sua prima ricerca sul campo. Metodo, tecniche e problemi incontrati.

venerdì 27 ottobre 2017

CRITERI DI VALUTAZIONE per Antropologia culturale 1718

27 10 2017. La situazione sta definitivamente sfuggendomi di mano; è evidente che pochi hanno le idee chiare su come procede la verifica della didattica, per cui chiarisco per tutte e tutti lo stato dell’arte.

1. Chi ha seguito il blog e risposto ai post può saltare l’esonero (fissato per sabato 18 novembre alle ore 9 in T12A) e preparare il mini-orale su Vite di confine. L’orale si terrà a partire DA GIOVEDI 16 NOVEMBRE, sempre nel mio orario di ricevimento e anche in altre date che sto cercando di rimediare. Basta prenotarsi via mail e dichiarare il giorno in cui si vuole venire.

NON ho il tempo per fare la cernita e dire tu vieni, tu non vieni. Sto ancora sistemando le centinaia di commenti e in questa fase vi devo chiedere di autovalutarvi, cioè di stabilire in coscienza se avete partecipato attivamente al blog. Se sentite che il vostro contributo è stato costante e sufficientemente impegnato, non venite all’esonero e preparatevi per l’orale su Vite di confine.

2. Se invece NON avete partecipato per nulla, per voi la verifica andrà in questo senso: venite all’esonero del 18 o alle date successive di esonero/esame, rispondete in aula per iscritto alle 10 domande che costituiscono la verifica (ci saranno anche due domande su Vite di Confine) e vi organizzare per compilare a casa la tesina di fine modulo. Per voi, insomma, valgono le regole standard e tradizionali di valutazione: esonero/esame scritto in aula, più tesina scritta a casa, da compilare e inviare secondo i modi e tempi indicati nel programma d’esame

3. Se siete tra color che son sospesi, vale a dire avete partecipato al blog, ma solo fino a un certo momento o solo da un certo punto in poi, oppure a sprazzi, due domande all’inizio, due a metà e una alla fine, allora la vostra situazione si può risolvere in questo modo: venite all’esonero, e rispondete alle domande sugli argomenti cui non avete partecipato. Per voi continua a valere la regola “orale su Vite di confine”. Concludete la verifica sulla dispensa partecipando all’esonero e rispondendo solo alle domande che vi mancano, e poi vi prenotate per l’orale.

Spero sia tutto chiaro, ma ne dubito…

Antropolologia culturale #11

25 10 2017. Oggi lezione complicata dagli impegni, come ho spiegato in un post dello stesso giorno. Nelle due parti della lezione ho cercato di costruire un po' di riflessione sulla costruzione del genere sessuale (maschi e femmine sono entità biologiche che non significano nulla, che non sono cioè parte integrante di un sistema sociale fin quando la cultura non attribuisce loro un sistema di pratiche riconosciute come caratteristiche) e sulla funzione dei rituali nella produzione di questa costruzione dell'umanità. Abbiamo visto come i riti siano costituiti da tre fasi (separazione, liminarietà, reintegrazione) e come nella nostra cultura sia sempre più difficile trovare esplicite condizioni rituali, che devono in qualche modo occultarsi in pratiche un po' private (contraddizione palese, perché il rituale per essere efficace deve essere pubblico, essendo un gioco di segni condivisi) oppure in forme sempre più secolarizzate, ridotte cioè al rango di cerimonia. So di averne parlato poco e male, ma anche grazie alle cose che hanno scritto alcuni antropologi come Martine Segalen e Marco Aime, possiamo cercare di riflettere assieme sullo stato attuale del sistema rituale nella nostra cultura.

Q1. Identificate un rito (o quel che ne resta) e provate a descrivere le tre fasi (di separazione, liminare o di trasformazione, di riaggregazione) con un esempio tratto dalla vostra esperienza (e tenete conto che dell'argomento, qui solo accennato, se ne parlerà con assai maggior dettaglio nel modulo di Storia delle religioni che tengo nel secondo semestre).

Antropologia culturale #10

23 10 2017. Lucia De Marchi ha fatto una bellissima e importante lezione, che gli studenti di Antropologia culturale hanno condiviso con quelli di Pedagogia interculturale della collega Carla Roverselli, per raccontarci il suo libro A piccoli passi, che aveva già presentato a Roma sabato 21, alla libreria Griot.
Lucia ci ha raccontato come sia complessa la questione dei MSNA  (minori stranieri non accompagnati), a partire dalla loro definizione e dal loro conteggio. Chi sono, quanti sono, cosa portano?
"Un fiorino!" verrebbe da aggiungere, pensando alla forza della burocrazia statale, che deve per forza misurarsi con le misure e i conteggi, con la forza drammatica della statistica.
Abbiamo cercato di capire anche che questo conteggio burocratico, che per un verso appare come un esercizio sterile del potere esercitato sui corpi in movimento dei migranti minori (ma dei migranti tutti), in realtà nel nostro sistema è anche alla base della rivendicazione dei diritti. Senza un riconoscimento giuridico, per queste persone non c'è diritto (tant'è che i transitanti proprio su questo si basano, quando si occultano per andare altrove, oltre l'Italia) e la mancanza di registrazione corrisponde di fatto con la non-esistenza in termini di esercizio dei diritti.
Abbiamo poi cercato di capire anche come il raggiungimento della maggiore età, che "per noi" potrebbe essere un momento di festa e di acquisizione di ulteriori garanzie giuridiche, per i MSNA si possa trasformare nella soglia tra integrazione ed esclusione, nello spartiacque da cui dipende l'ammissione o meno nel corpo integrato della società attraverso l'attribuzione o il rifiuto del permesso di soggiorno.

Q1. I MSNA ci ricordano che la nostra esistenza si gioca sul difficile equilibrio tra quel che vogliamo noi dichiarare di essere, e quel che invece ci viene riconosciuta come identità. Tra identificazione interna (io/noi sono/siamo X) e categorizzazione esterna (tu/voi sei/siete Y) c'è sempre un difficile equilibrio politico. Portate un esempio di identità contestata/negoziata e cercate di dimostrare in che modo le differenze relative di potere (tra chi si identifica e chi categorizza) possono giocare un ruolo centrale nel riconoscimento/respingimento di un'identità.

giovedì 26 ottobre 2017

Antropologia culturale #09

20 10 2017. Lezione sull'ANTROPOPOIESI, concetto elaborato da Francesco Remotti, con una breve premessa di chiusura sull'ETNOCENTRISMO come ce l'ha raccontato Geertz. Superare l'etnocentrismo è un passaggio necessario per provare a comprendere (senza necessariamente giustificare o legittimare) la differenza con la quale ci troviamo a interloquire. Per poter prendere decisioni impegnative nel mondo complesso e super-diverso in cui siamo immersi abbiamo bisogno di strumenti che ci consentano di comprendere la diversità, in modo da sapere cosa fare. L'etnografia ci fornisce quadri di comprensione, orizzonti di senso per pratiche verso cui altrimenti eserciteremmo indifferenza, repulsione o uno sguardo esotizzante, i tre grandi errori dai quali ci dobbiamo tenere alla larga, se vogliamo vivere con un adeguato grado di consapevolezza.
Non è la "voglia di abbracciare l'altro fino a scomparire in lui" il problema della società attuale; semmai è l'opposto, vale a dire il "disinteresse sprezzante per l'altro che chissene" il problema della nostra vita quotidiana, e certo non sarà un "po' di etnocentrismo" ad aiutarci a migliorare la convivenza sociale.

Siamo poi passati a leggere alcune pagine da Prima lezione di antropologia di Francesco Remotti, sui Lese e gli Efe, abbiamo visto la costruzione culturale dell'umanità. Uomini e donne sono costruiti più o meno consapevolmente. L'uomo è incompleto biologicamente e deve essere foggiato nella struttura sociale dove cresce. La foggiatura può essere più o meno formalizzata e consapevole, vale a dire organizzata in pratiche socialmente riconosciute detti RITI, oppure lasciata all'organizzazione spontanea delle società. Non riassumo qui il caso etnografico presentato, la relazione simbiotica tra Lese e Efe, ma è importante comprendere il senso di quell'esempio: gli uomini riconoscono la dimensione costruita della loro appartenenza, a volte anche contrastando la propria condizione con quella di altri, considerati meno costruiti, oppure costruiti secondo logiche differenti.

Q1. Dopo aver compreso il senso del concetto di antropopoiesi, riportate un caso equiparabile a quello dei Lese e degli Efe, vale a dire di due costruzioni culturali distinte ma in rapporto e definite le modalità di quella costruzione (suggerimento: pensate alle molte relazioni etniche di cui si nutrono i rapporti sociali in un contesto urbano complesso come quello di Roma)

mercoledì 25 ottobre 2017

Telegramma su lezione 25 ottobre

Chiedo scusa a tutte e tutti, sto cercando di seguire tutti gli impegni e non perdere lezioni. Oggi, 25 ottobre riesco comunque ad affacciarmi in T32 per la lezione alle 14.15 o poco dopo, in modo da impostare alcuni temi sull'ETNOGRAFIA cioè sulla metodologia della ricerca sul campo.  Proseguiamo poi la lezione al CHEntro sociale di Torbella alle 17.30

Rivoluzione e antropologia culturale

Mercoledì 25 ottobre è una giornata impegnativa per l’antropologia culturale a Tor Vergata. La mattina tesi di laurea ed elezione del Coordinatore del Corso di Studi in Filosofia (cui afferisco per la didattica). Alle 12.30 parte il passaggio d’anno per i Dottorandi del Dottorato di Storia e Scienze sociali (curriculum in Scienze sociali) e ci sono tre dottorandi che stanno lavorando con la mia supervisione sulle loro ricerche. Significa che rischiamo di perdere la lezione fissata per le ore 14.15 in aula T29, visto che sarò sicuramente ancora impegnato con il dottorato.
Allora cerchiamo di prendere due piccioni con una fava. Alle 17.30 al centro sociale CHE di largo Mengaroni (a Torbellamonaca, a un passo dall’ex Fienile) sono stato invitato a parlare (insieme a molti altri relatori) in occasione del centenario del 25 ottobre 1917, per discutere dell’idea di RIVOLUZIONE.
Io direi che senza perdere la lezione, possiamo incorporarla in questo incontro sulla Rivoluzione, visto che analizzerò il concetto con il quadro teorico che mi è stato offerto da Bjorn Thomassen nel suo libro Liminality. Vedremo il rapporto tra processo rituale e processo rivoluzionario, definendo il concetto di rito di passaggio e verificando insomma come nel quadro della politica contemporanea ci sia spazio per un’analisi simbolica della realtà sociale.

Morale della favola: le studentesse e gli studenti di antropologia culturale sono convocati per la lezione al Centro Sociale elChe alle ore 17.30 (mi sa che c’è pure spazio per un po’ di socialità, alla fine della discussione).

domenica 22 ottobre 2017

Uno dei 330 osa rispondere…

Ricevo da uno studente una mail di risposta al mio post di ieri, che apre un serrato scambio epistolare che rendo pubblico (previa autorizzazione) perché secondo me dentro ci sono diversi spunti per riflettere su cosa sia l’antropologia culturale e su cosa significhi provare a insegnarla e impararla (o a insegnare e imparare alcunché, se è per quello). Lo scambio (che pubblico senza modifiche, se non l’enfatizzazione in grassetto di alcune parole delle lettere di Simone, per rendere più agevole la lettura a schermo) secondo me dice anche molto su una mia vecchia teoria didattica, vale a dire che gli studenti sono come il muro della pelota basca, ti restituiscono la palla con un’energia che è proporzionale a quella che ci hai messo tu nel lanciargliela. Se hai studenti mosci, è probabile che tu, docente, abbia il braccino e non ci metti tanto. A Tor Vergata, e in generale nelle università pubbliche italiane, così tanto bistrattate, c’è ancora una riserva di energie intellettuali inestimabile. Che non possiamo sprecare continuando a delegittimare sistematicamente il lavoro della didattica, della ricerca e della terza missione che tanti di noi fanno con così tanta passione negli atenei italiani (pubblici, ripeto, pubblici, quelli dove ci può andare a studiare anche se non si è di “buona famiglia”).

da:
Simone Perrone<simone.perrone697@gmail.com>
a:
piero.vereni@gmail.com

data:
22 ottobre 2017 10:46
oggetto:
"Lettera a 330 studenti": il mio feedback
Gentile Professor Vereni,

mi permetto di esprimere il mio feedback rispetto a ciò che Lei ha detto nel suo ultimo post (Lettera a 330 studenti).
Personalmente, non ho mai sostenuto alcun esame facile finora; e, in ogni caso, non credo che il modo più opportuno per veicolare il messaggio per cui è necessario studiare costantemente e seriamente sia cambiare repentinamente modalità d’esame, operazione che, tra l’altro, scombussola i miei piani organizzativi rispetto ad altri esami. 
Fin dapprincipio mi sono adoperato nello studio continuativo di antropologia culturale e, di riflesso, nel rispondere puntualmente ai suoi post su questa piattaforma, essendo impossibile rispondere previo aver studiato gli argomenti inerenti alla lezione cui si riferisce il post. Inutile nascondere quanto sia complicato entrare in questa materia e, viceversa, farla entrare in noi perché si possa servirsene nella vita, anzitutto e soprattutto, come pungolo destante dal torpore spirituale e dalla cristallizzazione in certe idee (alias: continuare a pensare di essere – per riprendere l’argomento della penultima lezione – in un vagone ben circoscritto e sentirsi irritati dai treni che, passando innanzi la vista, interrompono i nostri sogni ad occhi aperti); senz’altro, Lei è riuscito a trasmettere quest’idea, essendosi trovato spesso in evidenti difficoltà comunicative rispetto alla volontà di comunicarci la complessità relativa al fare antropologia culturale. Tutto ciò a me è arrivato, e se è falso che l’ho già assimilato, è tuttavia vero che ho sviluppato, durante le lezioni e lo studio a casa, la preliminare apertura spirituale per accoglierlo. 
Ritengo dunque che uno studente che si accosti con serietà e curiosità all’antropologia culturale, come ad ogni altra materia, non possa che studiarla adeguatamente, quantunque all’inizio anche a me sia risultata strana – e tuttavia, con rispetto parlando, sempre preferibile alle interminabili lezioni di altri corsi fondate su inesauribili investigazioni filologiche sulle singole parole. 
Ciò detto, ammetto di sentirmi sballottato da una parte all’altra quanto alle modalità d’esame, verso il quale, lo riconosco, Lei ha ben ragione d’essere ostile, se diventa l’unica preoccupazione di uno studente, tuttavia trovo pur necessario che venga stimato nel giusto valore e, soprattutto, che vengano fornite indicazioni chiare e sicure rispetto ad esso. Purtroppo, fin dalle prime lezioni sono emerse alcune oscillazioni di giudizio: infatti, dapprima disse che bisognava rispondere in max. una settimana e dieci righe ad ogni post – almeno per coloro che volessero essere esonerati dal test scritto, s’intende -, in seguito, però, entrambi i vincoli sono caduti, perciò è stato consentito di rispondere nella più totale libertà, sia rispetto ai tempi che alle righe (confesso di non essermi particolarmente dispiaciuto della caduta di quest’ultimo limite, perché mi ha permesso di articolare meglio le mie risposte, tuttavia ciò tradisce una certa oscurità rispetto alle modalità di svolgimento dell’esame). Provai così a ricercare lo “zoccolo duro” – per usare una sua espressione – delle indicazioni da Lei fornite, e mi sembrava di averlo scorto nel fatto che bisognasse rispondere con costanza ed originalità alle domande sul blog e fare la tesina a fine corso per concludere l’esame; ieri, però, è saltata fuori, improvvisamente, una nuova modalità d’esame, il colloquio, che invalida l’organizzazione che avevo fissato relativamente al Suo corso e agli altri che sto seguendo, creandomi, francamente, un certo rammarico, per non dire irritazione, specie considerando che siamo a ridosso della fine del corso. È bensì vero che potrei venire a gennaio, o quando più mi piacesse, in modo da non dover variare la mia organizzazione, ma è altrettanto vero che direttive puntuali si sarebbero dovute dare, se non dapprincipio, perlomeno nel giro di una settimana dall’inizio del corso. 
Con tutto ciò spero di non essere risultato indiscreto, ma di aver mostrato e sottolineato l’importanza del dialogo - anche critico, purché costruttivo – tra docente e studenti, come pure Lei non poche volte ha avuto a cuore di rimarcare.

Cordialmente,
Simone Perrone


da:
Piero Vereni <piero.vereni@gmail.com>
a:
Simone Perrone <simone.perrone697@gmail.com>

data:
22 ottobre 2017 12:45
oggetto:
Re: "Lettera a 330 studenti": il mio feedback
Grazie Simone,
per la sincerità della sua mail e per i punti reali che solleva. Tutta la questione, mi pare, si potrebbe condensare in un suo "no" secco di risposta alla domanda che il modulo di valutazione della didattica vi chiederà al momento di iscrizione all'esame: "Il docente ha espresso in modo chiaro il metodo di valutazione?"
Famo a capisse, allora. Ho messo a punto il mio metodo didattico in vent'anni di sperimentazioni e correzioni successive. Non credo di essere uno che non pensa alla didattica o la fa con faciloneria, ma su questo parlano i fatti (e forse anche le valutazioni pregresse degli studenti degli anni precedenti). Per me la didattica è probabilmente la mia attività più importante, quella in cui vedo più investito il mio ruolo di antropologo, proprio perché uno dei temi essenziali del mio studio è la trasmissione intergenerazionale del sapere e quindi, come unico antropologo incardinato di Tor Vergata mi sento gravato da una grandissima responsabilità morale.
Fatta salva quindi la mia buona fede (assoluta) e la mia esperienza (oggettivamente notevole), resta la condizione esistenziale del modo in cui ho impostato la didattica quest'anno. Per ragioni di sollecitazione esterna (ho partecipato per il corso di Global Governance questa primavera a un seminario  organizzato da ECOLAS a Bratislava proprio su come aggiornare le metodologie T&L (teaching & learning)) ho imparato con mio grande orrore che i settori più avanzati delle liberal arts guardano alla didattica frontale (lecturing) fatta di un prof che parla, una cattedra che separa e un branco di studenti che annota, come una sorta di retaggio del passato da superare. Come sapete, io in realtà resto molto ancorato a questa immagine dei prof che insegnano vocianti e degli studenti che imparano silenziosi (tra, l'altro, quante altre occasioni avete di IMPARARE AD ASCOLTARE in un mondo che continua imperterrito a chiedervi COSA NE PENSATE praticamente su tutto, soprattutto su cose di cui non sapette nulla?), ma ammetto che il seminario ha sollecitato la mia attenzione per uno spazio di RETROAZIONE FEEDBACK, in cui il docente possa mano a mano verificare se gli studenti hanno assimilato quel che cerca, faticosamente e a volte goffamente, di trasmettere. 
Per questo avevo pensato al sistema dei commenti sul blog più tesina finale, in modo confuso quest'estate, ma abbastanza chiaro per provare a inserirlo nel programma effettivo come metodo di verifica (ai fini della valutazione).
Già subodoravo la fregatura, avendo in questi anni verificato una costante crescita del numero di studenti iscritti, ma non mi aspettavo l'esplosione che si è verificata appena aperto il modulo di iscrizione online. Fino allo scorso anno raggiungevo a stento i 130 iscritti durante il corso, che lentamente (fuori corso, lavoratori, laureati in cerca di corsi singoli, imbarcati invitati da amici di amici) arrivava a sfiorare i 200 esami alla fine dell'anno accademico. Quest'anno, al terzo giorno di lezione gli iscritti erano già più di 200 e ora hanno superato i 330. Questo ha significato un mutamento necessariamente qualitativo, dato che la quantità intacca la qualità, in un'aula comunque scolastica. Sono da solo non per modo di dire, ma in senso letterale dalla prima all'ultima incombenza, tutto quel che riguarda la didattica o la ricerca o la terza missione di Antropologia culturale a Tor Vergata è compito che faccio con le  miei manine, dal mettere le lezioni online al rispondere alle dozzine di mail, dal fare ricevimento al fare le riunioni dipartimentali sui crediti da assegnare per l'insegnamento, dalle tesi ai dottorandi alle attività al centro sociale ex Fienile, e mi fermo qui per non annoiarla.
Mi sono reso conto che il metodo commenti più tesina poteva servire adeguatamente a valutare la costanza del lavoro e la rielaborazione dei concetti, ma il nostro sommo padre, Dante, mi ha insegnato nel Paradiso (V, 41-42) che "Non fa scienza, / sanza lo ritenere, avere inteso", il che significa che devo anche trovare un modo per verificare se c'è stato da parte vostra anche un adeguato lavoro di "ritenzione" del sapere appreso. Per questo ho pensato di sostituire la tesina finale (in quanto doppione metodologico della verifica della rielaborazione concettuale che già ho nei commenti "creativi" al blog) con una verifica orale sui contenuti "ritenuti" di Vite di Confine
Di fatto, per la vostra organizzazione e programmazione di studio, invece di arrivare al 5 novembre (fine modulo) e chiedervi tre giorni in più di lavoro per la preparazione e stesura della tesina, vi chiedo quattro giorni di lavoro in più (ripeto, IN VECE dei tre, alla fine della fiera è un giorno di lavoro in più) per lo studio di Vite di Confine. Riconosco il disagio che questo cambio in corsa possa causarvi, ma spero possiate accettare che dipende solo in parte dalla mia imperizia didattica, e più dalle mutate conseguenze oggettive di erogazione del corso.
Resto ovviamente a disposizione per qualunque ulteriore richiesta di chiarimento, e visto il tempo impegnato in questa mail, la renderò pubblica sul mio blog perché penso possa essere utile anche per altri studenti che possano avere come lei dei legittimi dubbi sulla mia capacità di organizzare il corso in generale.
Sicuramente la mia risposta sarebbe più comprensibile se potessi pubblicarla assieme alla sua mail di sollecitazione, per cui le chiedo l'autorizzazione a rendere pubblici sul mio blog i contenuti della sua lettera, nel caso mi faccia sapere se vuole rimanere anonimo o posso indicare il suo nome.
Cordiali saluti
pv

piero vereni
roma tor vergata
dipartimento di storia, patrimonio culturale, formazione e società
department of history, humanities and society
ex facoltà di lettere - stanza 16 primo piano
via columbia, 1 - 00133 roma

ufficio 06 7259 5041
cell 333 98 12 520
pierovereni.blogspot.com
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da:
Simone Perrone<simone.perrone697@gmail.com>
a:
Piero Vereni <piero.vereni@gmail.com>

data:
22 ottobre 2017 13:52
oggetto:
Re: "Lettera a 330 studenti": il mio feedback
Gentile Professor Vereni,

è mio dovere anzitutto ringraziarLa per la disponibilità e la dovizia di dettagli coi quali ha dato corpo alla sua risposta, permettendomi così d’intendere meglio anche la sua situazione, oltreché la mia: mi pare che in questo caso entrambi abbiamo utilizzato in modo positivo l’immaginazione, intesa al modo di Geertz, evitando dunque un possibile fallimento comunicativo.

Non c’è alcun problema quanto alla pubblicazione della mia mail con anche il mio nome e cognome. Come Lei ha ben detto, non sono il solo che è rimasto perplesso dal suo cambiamento rispetto alle modalità d’esame, sono tuttavia l’unico, perlomeno tra quanti ho sentito, che ha avuto l’ardire di farLe presente le mie idee senza temere ripercussioni sull’esito dell’esame. Infatti, seguire le sue lezioni ha potenziato la mia apertura all’alterità, e conseguentemente la voglia di confrontarmi con essa. A ben vedere, mi sembra che per perseguire un confronto interculturale non sia necessario andare in luoghi esotici, bastando infatti anche una discussione con il proprio professore, come in questo caso. Ma se temiamo finanche di confrontarci con Lei per far presenti i nostri dubbi (legga pure rodimenti di... ha capito cosa), in che modo potremo mai anche solo sperare di rapportarci a quelle che – erroneamente  - consideriamo le altre culture? 

Cordialmente,
Simone Perrone



sabato 21 ottobre 2017

Lettera a 330 studenti

Che poi sono gli iscritti (finora) al corso di Antropologia culturale 1718 che tengo a Lettere di Tor Vergata. Vorrei chiarire un po’ le regole del gioco, in modo che questo corso (modulo A per tutte e tutti, B per chi ha 12cfu) sia veramente un’occasione di fair play.
Due terzi si sono iscritti nella prima settimana di lezione, un centinaio è arrivato “dopo”. E’ giocoforza che avrò un occhio di piccolo riguardo per gli early birds, tanto più se hanno risposto ai quesiti dei post con costanza fin dall’inizio.

Siccome poi vi sto insegnando che c’è un significato, una dimensione simbolica e significativa, in qualunque azione umana, voglio ricordare a tutti che anche la compilazione di un banale questionario di dati può portare incorporata un sacco di informazione. Consente molto spesso di riconoscere la sciatteria, che non è l’atteggiamento migliore che mi aspetto da uno studente. Così, se qualcuno ha messo il cognome nel campo del nome e viceversa, o se addirittura ha scritto in modo errato il proprio cognome non è che questo mi ispiri simpatia. È successo, e con un po’ di pazienza ci si arriva a capirlo, soprattutto se la persona in questione ha messo, poniamo (esempio fittizio) Mario.Cascio nell’indirizzo email e invece Cascip nel campo Cognome, evidente errore di battitura da tastiera virtuale.

Piccoli segnali di disattenzione come questi, oppure rifiutarsi di comunicare l’indirizzo email (che a me serve, ad esempio, per inviare l’esito di eventuali prove scritte, senza dover rendere pubblici i “voti” sul mio blog o in bacheca) sono tutti indizi dello scroccone, una figura che studieremo nel programma di Antropologia economica ma che sapete intuitivamente essere uno che cerca di ricavare dalle situazioni investendo il meno possibile, possibilmente zero.

Il sistema che ho deciso di adottare per la verifica, vale a dire il sistema dei commenti al post, non è certamente inteso per lavorare di meno, anzi. Per me sta diventando un vero incubo stare solo dietro alla mole di lavoro da archiviare, e spero che per molti e molte di voi sia un buon sistema per restare al passo, per pensare allo studio come un habitus progressivo e costante, non un’abbuffata la settimana prima dell’appello. Forse pretendo molto, ma mi aspetto serietà e impegno professionale da tutti i miei studenti. Eviterei, così, di scopiazzare i commenti di qualcun altro per rispondere a qualche domanda dei post e, se fossi uno studente, terrei in grande considerazione la mia capacità di essere originale, non ripetitivo, non banale. Alla quindicesima variante della stesso identico esempio ripreso pari pari per rispondere a una domanda, io un pochino mi scoccio, come dire, e tendo a prendere il tutto come una farsa poco interessante. Eh! Dice quello, ma che ci posso fare se anche io ho pensato a quell’esempio, mica avevo letto i commenti precedenti. Giusto, ma se hai avuto un guizzo di creatività, fattelo venire subito dopo la pubblicazione del post, non cinque giorni dopo…

Comunque, mediamente sono decisamente soddisfatto di come sta procedendo la cosa, con una piccola variazione in corsa. Visto che ho deciso che d’ora in poi le domande saranno sempre più incentrate sulla vostra creatività, ho deciso di soprassedere alla relazione finale per chi ha risposto sul blog. Questo, tradotto in soldoni, vuole dire niente più tesina finale per chi sta rispondendo al blog.
E allora, pacchia per tutti? L’opposto, direi. Invece della tesina (che mi serviva per comprendere se sapete utilizzare i concetti appresi) devo ora utilizzare un altro sistema, che mi consenta di verificare se avete studiato e memorizzato ciò che avete inteso.
Tutti, quindi, faranno una verifica orale finale sul mio testo, Vite di Confine, che non avremo modo di vedere a lezione se non molto rapidamente.
A partire dalla fine del modulo A, quindi dai primi di novembre, potete cominciare a prenotarvi negli orari che vi indicherò, per essere interrogati (durante il ricevimento e anche in altri orari specifici) sui molti e complessi contenuti storici e antropologici del mio libro. Per molti si tratterà di un orale rapidissimo, di cinque e dieci minuti, per altri diventerà una seria verifica dei miei dubbi (anche esistenziali).

L’idea di fondo, il nocciolo di questo cambio di strategia, è veicolarvi l’idea che il mio è un esame dannatamente difficile, che si può passare solo dedicandoci un adeguato studio, che io cerco di insegnarvi a spalmare nel corso del semestre, accompagnati dalle mie lezioni e dal vostro dialogo come classe, invece di comprimere tutto in uno studio individuale, autoreferenziale e troppo nevrotico per i miei gusti.
Vi aggiorno presto sullo stato dei commenti al blog.
Un caro saluto
pv


venerdì 20 ottobre 2017

Antropologia culturale #08

19 10 2017. Abbiamo “completato” la lettura di Verso una teoria interpretativa della cultura enfatizzando soprattutto come il lavoro interpretativo non sia mai concluso, potendo proseguire di fatto all’infinito.
Un altro punto su cui abbiamo cercato di riflettere è il cosiddetto TESTUALISMO di Geertz, vale a dire la riduzione che il suo approccio effettuerebbe di tutta la cultura a testo. Abbiamo detto (e me ne assumo la responsabilità, dato che alcuni colleghi sicuramente non concordano con me) che in realtà l’accusa di testualismo è fuorviante per Geertz, visto che lui non sta affatto dicendo che tutta la cultura dovrebbe essere considerata come un testo, ma dice una cosa ben diversa, vale a dire che lo sguardo di chi analizza la cultura dovrebbe essere quello di un analista culturale, vale a dire non di uno che cerca cause o funzioni, ma cerca invece senso e significati. Il primo esempio che viene in mente (non solo a Geertz) è quello del critico letterario, che certo quando studia La Divina Commedia non è tanto preoccupato delle cause della scrittura di Dante, ma piuttosto del senso di quel testo. Per capire come l’approccio dell’antropologia simbolica non sia affatto testualista, ma sinceramente interpretativo/ermeneutico, basta cambiare metafora, e dire che il lavoro dell’antropologo è simile a quello di un critico d’arte che voglia parlare di una mostra alla radio, vale a dire in uno spazio che nega il mezzo di espressione originario del pezzo studiato: non potrà mai dire “qui vedete…”, “ecco che con questo elemento l’artista ci vuole dire che…” ma dovrà invece TRADURRE lo specifico contenuto significativo dell’opera d’arte in un altro linguaggio diverso da quello in cui è stato originariamente espresso. Questo è il lavoro dell’antropologia, prende segni culturali espressi in qualunque mezzo di comunicazione (la lingua, il vestiario, il cibo, la prossemica, il rituale, la performance) e lo traduce in qualcosa che non c’era prima (la nota di campo, l’articolo scientifico, la monografia, la relazione per il convegno) cercando di mantenere il senso che vi ha colto studiandolo, quel cavolo di oggetto culturale.
Abbiamo inoltre riflettuto con qualche esempio su come leggere in traduzione sia un’operazione sempre rischiosa, e abbiamo messo empiricamente in luce la cosa segnalando un paio di grossolani errori di traduzione nel testo che stiamo leggendo.
Siamo poi rapidamente passati all’altro saggio di Geertz, vale a dire Gli usi della diversità (1986), in cui dialoga polemicamente con Claude Lévi-Strauss e con Richard Rorty sulla (allora) recente legittimazione dell’etnocentrismo. Abbiamo spiegato le rispettive posizioni di Lévi-Strauss e di Rorty e compreso che, se prese sul serio, portano l’antropologia culturale all’asfissia come progetto di ricerca.
La storia dell’indiano ubriacone è servita a Geertz per farci capire che quel che ci manca non è un po’ di etnocentrismo per restare creativi (come vorrebbe Lévi-Strauss) o per sentirci migliori (come vorrebbe Rorty); e neppure un po’ più di RELATIVISMO (come magari vorrebbero alcuni sostenitori smodati o cinici del l’equivalenza di tutto con tutto); ma è semmai uno sforzo di IMMAGINAZIONE, vale a dire quell’impegno a capire le cose veramente da un altro punto di vista, quello dell’Altro. Il fallimento della relazione tra indiano e medici testimonia la difficoltà di uscire dall’acqua, come diciamo noi in queste lezioni, oppure, come dice Geertz, “l’incapacità, da ambo le parti, di comprendere la posizione dell’altro, e quindi la propria” (p. 84).
La chiusura del saggio, con le sue importanti implicazioni teoriche, verrò discusso nella lezione successiva, del 20 ottobre.

Q1 riportate un caso di vostra conoscenza o di vostra invenzione in cui un fallimento comunicativo avrebbe potuto essere colmato se gli interlocutori avessero fatto uso dell’immaginazione nel senso in cui ne parla Geertz.

Antropologia culturale #07

18 10 2017. Il tema della lezione di oggi è sempre la natura semiotica della cultura e la necessità di avvicinarsi alla sua comprensione con un approccio ermeneutico. L’etnografia è un’interpretazione della cultura studiata. Ma dato che la cultura è l’esperienza di un sistema di segni che per essere vissuto deve essere compreso e cioè interpretato, possiamo dire che l’etnografia è un’interpretazione di secondo livello, l’interpretazione “scientifica” di quella interpretazione “spontanea” che è la cultura.
Quelli che ci appaiono come dati etnografici, le note di campo dell’antropologo al lavoro, le prime annotazioni immediate e irriflesse, su cui poi si costruirà la riflessione teorica, sono in realtà già interpretazioni, e alquanto complesse, dense. Per dimostrare questo aspetto (ricordo che il saggio che siamo leggendo sta cercando di perorare la causa che la cultura è un sistema di segni e che il nostro approccio deve essere interpretativo/ermeneutico, non empirico/osservativo) Geertz ci offre un paio di pagine del suo diario di campo dal Marocco, stese nel 1968 annotando una conversazione con un anziano mercante ebreo, Cohen.
Lette così, d'emblée, senza alcuna introduzione, queste note lasciano perplessi. Si capisce che un mercante ebreo ha avuto una qualche rogna con dei predoni berberi e con l’emergente amministrazione coloniale francese, ma il senso generale della storia rimane francamente opaco. Le facce annoiate dei miei studenti dopo aver letto tre o quattro paragrafi sono il sintomo più evidente di questa carenza di senso. Non riusciamo a capire che è successo, la storia ci scivola via dalle mani.
Tutta la lezione è stata gestita rispettando il dettato geertziano/weberiano che la cultura è una rete di significati e che il nostro sforzo di comprensione deve essere ermeneutico. Ci siamo messi di buzzo buono e ho cercato di fornire uno sfondo di informazioni e commenti che consentissero di comprendere quel breve racconto per la farsa culturale che si rivela essere. Spiegando com’era la gestione militare francese, il collasso istituzionale dell’Impero Ottomano, la diaspora ebraica, il patto commerciale mezrag, il concetto di ’ar, le forme di resistenza ironica al colonialismo, il malinteso intenzionale e molte altre “cose” culturali, siamo arrivati in fondo alla lezione emozionandoci, sorridendo e condividendo con il povero Cohen la sua disavventura personale che tanto ci dice della situazione sociale e culturale dell’epoca in cui è accaduta (oltre a dirci un sacco di cose del rapporto tra etnografo e informatore, tema su cui torneremo tra un paio di lezioni). Abbiamo realizzato un esercizio di IMMAGINAZIONE ETNOGRAFICA. Non siamo mai stati in Marocco (o se ci siamo stati non abbiamo certo visto né un vecchio ebreo che raccontava le sue vicende a un antropologo americano, né un giovane ebreo che cercava, con poco successo, di sfangarla in mezzo al caos dell’incipiente colonialismo francese) ma in qualche modo ora ne sappiamo di più: abbiamo una qualche idea di cosa vuol dire commerciare in un sistema tradizionale di rapporti clientelari; abbiamo una qualche immagine di cosa vuol dire conquistarsi il proprio onore come necessità lavorativa, mica pallino moralista; sappiamo un po’ meglio di prima che a volte gli uomini fanno finta di capire fischi per fiaschi perché gli fa comodo, e altre volte non hanno bisogno di dirsi granché a parole per comunicare una loro protesta. Sappiamo insomma qualcosa in più di cosa voglia dire comportarsi da esseri umani in un sistema culturale diverso da quello che ci è più familiare, abbiamo un pochino allargato l’orizzonte di quel che significa essere umani. Secondo me è un motivo mica banale per studiare all’università. Lo ammetto, non sarà un granché “professionalizzante”, questa competenza, ma forse se ci si educa ad essere uomini e donne un po’ più densi, un po’ più spessi, non è impossibile che questo aiuti, qualunque professione si voglia fare in seguito.

Q1. Tra Cohen e i francesi si realizza un duello simbolico in diversi mani di gioco. Che armi usano i rispettivi contendenti? Provate e ricordare un episodio di vostra conoscenza (o invenzione) in cui parimenti le armi comunicative in campo non erano equivalenti (tenete presente che la situazione “esame universitario” è un esempio perfetto di questo tipo asimmetrico di sfida comunicativa, così intanto riflettete un poco anche sul POTERE nei contesti comunicativi).

giovedì 19 ottobre 2017

Anthropology of globalization for Global Governance #07

18 10 2017. Culture is symbolic. This is the topic for this class. I stated all along my source, namely Ferdinand De Saussure and his “Course in General Linguistics” (1916), then pragmatic semiotics as delimited in the works of Umberto Eco, and eventually Ludwig Wittgenstein’s Philosophical Investigations.
The aim of the class was to clarify the meaning of this sentence by Max Weber that we shall read next class reported by Clifford Geertz: “Man is an animal suspended in webs of significance he himself has spun”.
We analysed what a SIGN is made of, that is its SIGNIFIER (significant in the original French, significante in Italian) and a SIGNIFIED (signifie, meaning, significato).
We insisted on the ARBITRARY link between the two parts (Language is not a NATURAL link towards reality).
Then we discussed about the REFERENTIAL THEORY of the signified and the more useful THEORY OF USE of the signified. According to the first, the meaning corresponds to “the real thing” or the “mental image” we can formulate for that sign. But we have seen this be too weak a theory to explain the most interesting part of human communication, which is made of signs for which one can hardly detect a physical referent or a mental image. With a few examples we have insisted that signs derive their meaning from the shared usage with other people, among other signs. Their meaning is given by their contextualization among other signs, in what we can figure out as a semantic web, a specific interconnection of signs. Meanings are public, not the minds of people.
Signs are arbitrary not in the sense they are totally random, but in the sense the connection between signifier and signified is established by culture, i.e. it may transform from context to context.
In order to exemplify this complex relation between sings and culture we watched this video on Ochobo, a Japanese aesthetic principle.
We ended class noticing that the intersubjective existence of Ochobo makes it quite different from the objective reality of stones and the totally subjective belief in fairies. Signs as cultural means of expression are a tricky object of research and analysis. We have to move towards symbolic anthropology to collect the tools and method that may help us develop a sound understanding of cultures as webs of signs.


Q1 Identify and analyse an ochobo-like thing of your knowledge. Focus on its being not related to “one physical thing”, but the expression of cultural creativity in elaborating a notion which has no concrete referent and whose meaning must be identified in the usage of that sign.

martedì 17 ottobre 2017

Anthropology of Globalization for Global Governance #06

16 10 2017. We had our first off campus class this morning, visiting the MAAM, Museo dell’Altro e dell’Altrove (Museum of the Other and Elsewhere) guided by Giorgio De Finis, creator of the project and he know best knows the museum and its multifaceted cultural implications. Here you have the mp3 of our visit, with the many things that Giorgio told us, and I hope GG students shall soon contribute to the visual part of this post uploading their pics and videos collected during the visit. HERE you have another folder with pics!!
We have learned the history of the squat, how Giorgio came to know it through the walks around the Ring road organized by Stalker/Osservatorio Nomade, how this brought to the Rocket to the Moon in the SPACE METROPOLIZ project, and eventually to the the MAAM project.
We could talk about urban policies and politics, what is art and what is not. And most al all about squatting. We haven’t studied roman squatters yet, but their relevance in the social fabric of a city like Rome should not be underestimated.


Q1. What is the role of imagination in planning a space like MAAM? Think how the real, social life of individuals depends on what they can fantasize of, dream, hope or loath. Connect what you have seen to what we have been discussing in class on “culture as acquired and shared knowledge”.

domenica 15 ottobre 2017

Antropologia culturale #06

13 10 2017. Con questa lezione, finalmente, abbiamo iniziato a confrontarci con un vero testo di antropologia culturale, non solo con gli appunti contenuti nella dispensa e con obliqui riferimenti ad autori e testi. Cominciamo quindi a leggere antropologia partendo da un testo quasi-sacro, un articolo del 1973 che ha segnato una presa di consapevolezza importante nella storia della disciplina. Si tratta di “Verso una teoria interpretativa di cultura”, scritto da Clifford Geertz come introduzione alla raccolta di saggi Interpretazione di culture, in cui ripubblicava in una nuova cornice teorica alcuni importanti saggi che aveva scritto negli anni Sessanta. Si tratta, insomma, di roba sicuramente datata, una riflessione dei primi anni Settanta (44 anni fa!) dedicata a commentare e inquadrare un lavoro di ricerca che ha più di cinquant’anni.
Ci sono state diverse svolte teoriche dopo le riflessioni elaborate da Clifford Geertz, ma io sono del parere che ben poco di nuovo si possa aggiungere dal punto di vista epistemologico al quadro dell’antropologia interpretativa. Geertz ha avuto dei limiti chiari sul piano dei contenuti (e forse questo ha implicazioni metodologiche) disinteressandosi ad esempio troppo della QUESTIONE DI GENERE (del modo cioè in cui maschi e femmine si costruiscano dentro orizzonti culturali specifici e si configurino come la differenza INTERNA più radicale) ma la sua EPISTEMOLOGIA basata su una concezione semiotica della realtà culturale e la sua METODOLOGIA basata sull’ermeneutica non hanno trovato ancora alternative. Anche chi contesta Geertz, lo critica o oggi pensa di essere “oltre” Geertz non può prescindere dalla CONCEZIONE INTERPRETATIVA di cultura, né sfuggire alla necessità di COMPRENDERE i dati etnografici attraverso un’analisi ermeneutica. Ci sarà modo, spero, di discutere il TESTUALISMO di Geertz, ma lo faremo più avanti, quando sarà più chiaro il suo progetto scientifico.

Per ora diciamo che nel corso della lezione siamo partiti dalla distinzione tra FUNZIONE e SENSO. I costrutti umani (una forbice, un mito, una centrale nucleare, un romanzo) possono essere dotati di una funzione, vale a dire la loro finalità intrinseca può essere X, attivata da una causa Y; oppure possono essere dotati di un senso, vale a dire un quadro di significazione per gli umani che ne fanno uso. Non sempre le due cose si sovrappongono o coesistono, e sono molti i costrutti culturali di cui è complicato individuare il senso ma praticamente impossibile identificare una funzione. Possiamo comprendere bene a cosa serve una tenaglia o un pacchetto di fazzoletti, ma non è chiaro spesso il rapporto tra FORMA e FUNZIONE dato che molti oggetti possono avere la medesima funzione (tenere legati i capelli) eppure avere forme molto diverse. Perché oggetti deputati alla medesima funzione (contenere liquidi per portarli alla bocca) tendono ad avere forme diversissime tra culture diverse e spesso anche nella stessa cultura (calice, bicchiere, coppa, tumbler…)? Ciò dipende sempre dal fatto che “la cultura è appresa” e questo meccanismo produce diversità ipso facto. Ma c’è una ragione più profonda e dipende dal fatto che come esseri umani non riusciamo ad articolare un rapporto con il mondo che non sia anche di tipo segnico, semiotico. Tendiamo cioè a caricare di significato tutti i costrutti naturali e culturali di cui riusciamo a parlare, altrimenti non riusciremmo a relazionarci con essi, e come abbiamo visto il significato di x si incastra in una rete di segni, non è desumibile da x in quanto tale. Insomma, mentre la funzione potremmo ipotizzare che sia incardinata nel costrutto culturale (MA chi seguirà anche il secondo modulo, di Antropologia economica, scoprirà che non è affatto così, e quel che chiameremo il VALORE D’USO di un oggetto, vale a dire la sua FUNZIONE, è una variabile dipendente dalla cultura dove quell’oggetto si presenta), il senso di un oggetto è sempre un prodotto culturale, e lo è di necessità. Possiamo cioè facilmente pensare a oggetti de-funzionalizzati (si potrebbe dire che l’arte è quel processo che de-funzionalizza porzioni del reale esasperandone la dimensione estetica, per cui anche un orinatoio può essere un pezzo d’arte, una volta de-funzionalizzato e ricondotto in un contesto adeguatamente significativo in senso artistico come un museo o una galleria); ma ci è molto più difficile, se non impossibile, pensare a oggetti de-semantizzati (a cui cioè si sia intenzionalmente sottratto il senso) ma ancora funzionali. Gli orologi ammosciati di Dalì potrebbero avvicinarsi a una finzione rappresentazionale di oggetti de-semantizzati ma funzionali, ché io non riesco a pensare ad altro. Come può un costrutto culturale o naturale funzionare (avere una funzione) senza più avere un senso, dato che “funzione” è a sua volta un segno che pretende un’operazione di significazione? Se non tutti i sensi sono funzionali, di certo tutte le funzioni sono significative e dunque possiamo dire che la realtà culturale è fatta di costrutti che necessariamente devono essere caricati di un senso.
Prima che ci si intrecci il cervello, diciamo che l’antropologia culturale cerca di ricostruire i significati dei costrutti (culturali o naturali) come vengono rappresentati (i significati, non i costrutti) dalla specifica cultura che stiamo analizzando. Si tratta insomma di “ricostruire il punto di vista del nativo” (vedremo in un altro saggio, se ce la facciamo) il quadro di senso di chi agisce culturalmente.

Per esemplificare questo passaggio, abbiamo a un certo punto discusso di Pietre, di Fate e di OCHOBO, uno “strano” principio estetico” giapponese che sembra condizionare la vendita di hamburger da quelle parti… La lezione da apprendere da questo caso è che non c’è modo di correlare il concetto o il termine Ochobo a alcunché di referenziale, e dobbiamo rassegnarci al fatto che le culture sono in grado di creare concetti che debbono essere compresi facendo riferimento ad altri concetti, e non al “mondo reale”. C’è una sorta di sapere oggettivo (le cose reali come le pietre), soggettivo (le cose che vivono solo per le credenze soggettive di alcuni) e intersoggettivo (come ochobo, che è un sapere culturale).

Per arrivare a comprendere quel che Geertz vuole dirci a livello profondo (che studiare una cultura vuol dire INTERPRETARLA, non OSSERVARLA) ci conduce dentro un esercizio di meta-riflessione teorica. Ci vuole far comprendere che il nostro lavoro è un lavoro interpretativoermeneutico, e per arrivare a capirlo dovremo seguirlo in un complesso esercizio interpretativo. Se non capiamo il percorso analitico del saggio non potremo comprendere il fine teorico del saggio stesso, dato che i due coincidono (come sempre, nell’antropologia interpretativa metodo e teoria sono difficilmente separabili).
Per arrivare al testo del racconto etnografico geertziano abbiamo distinto sommariamente tra
Livello –emico
e
Livello –etico
Dell’analisi sociale. Indipendentemente dal fatto che dovremmo accettare il fatto che per l’analisi culturale il livello “etic” altro non è che l’emic di qualcun altro, quel che conta qui è che l’analisi –etica impiega categorie analitiche dell’osservatore, mentre l’analisi –emica impiega le categorie analitiche dell’attore sociale osservato. Quel che mi interessa nell’analisi culturale è riuscire a ricostruire le categorie analitiche dell’attore sociale, vedere le cose “dal suo punto di vista” (un cane come lo vediamo a Roma o come lo vedono a Seul, come ci siamo detti a lezione, un po’ scherzosamente).
Questa contrapposizione si può anche rispecchiare in un’altra importantissima opposizione, su cui ci siamo soffermati a lungo, vale a dire quella tra

THIN DESCRIPTION (descrizione sottile)
e
THICK DESCRIPTION (descrizione densa)

La prima (abbiamo fatto il doppio esempio dell’etnografo marziano che deve spiegare cosa sia un battesimo e poi l’esempio veramente clamoroso dell’Occhiolino, vero pezzo di battaglia delle mie lezioni di antropologia culturale) è una DESCRIZIONE PRIVA DEL SIGNIFICATO CHE ALL’AZIONE ATTRIBUISCONO GLI ATTORI SOCIALI, una vera descrizione “senza senso”; mentre la seconda è una descrizione CHE INCLUDE IL SENSO DELL’AZIONE ESPRESSO DAL PUNTO DI VISTA DELL’ATTORE SOCIALE (è una descrizione “emic”, per così dire).

Q1. Per concludere questa lezione, selezionate una qualunque azione sociale e datene una doppia descrizione: una THIN priva di senso culturale, e una THICK in cui invece il significato culturale sia incluso.